La Divina Commedia
DIV6a - Ragione, fede e salvezza: il destino dei pagani
*
[Inferno, canto IV, vv. 1-45]
Nel IV canto dell’Inferno Dante racconta di essere rinvenuto dallo svenimento che l’aveva colto in riva all’Acheronte e di essersi ritrovato nel primo cerchio, dove ha sede il Limbo. Le anime qui relegate non hanno commesso gravi peccati: vi si incontrano i più grandi spiriti dell’antichità (eroi, poeti, filosofi, scienziati), degni d’ammirazione per la loro grandezza d’animo, eppure esclusi dal Paradiso perché non hanno ricevuto il battesimo o perché, se vissuti prima di Cristo, non hanno abbracciato la religione ebraica. Lo stesso Virgilio è condannato a patire insieme a loro. La sofferenza di queste anime non consiste in una pena e vera e propria, ma nel desiderio inappagato di vedere Dio. Ciò spiega il turbamento con cui il maestro si rivolge in questi versi a Dante.

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta1; 3

e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi2. 6

Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai3. 9

Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa4. 12

«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo5». 15

E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto6?». 18

Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti7. 21

Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne8. 24

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri,
che l’aura etterna facevan tremare9; 27

ciò avvenia di duol sanza martìri
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri10. 30

Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi, 33

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi11; 36

e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo12. 39

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio13». 42

Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi14. 45

[Purgatorio, canto III, vv. 31-45]
Il canto III del Purgatorio è ambientato ai piedi della montagna. Dante e Virgilio scorgono una schiera di anime che procedono lentamente lungo la parete rocciosa. Si tratta degli scomunicati che si pentirono in punto di morte, costretti a girare fuori dal Purgatorio vero e proprio per un tempo pari a trenta volte la durata della loro esclusione dai sacramenti. In cielo splende il sole e Dante si accorge che il corpo di Virgilio, a differenza del suo, non proietta ombra. Il poeta latino gli spiega allora che quelle dell’oltretomba non sono persone in carne ed ossa, anche se esse sentono il caldo, il freddo e la sofferenza esattamente come dei veri corpi umani. La piena conoscenza di questo fenomeno – continua il maestro – è concessa solo a Dio: la ragione umana deve arrestarsi davanti ad alcune verità, che superano la capacità di comprensione perfino degli uomini più sapienti. Ma Virgilio, nell’impartire a Dante questa spiegazione, non è semplice portavoce della verità: egli riflette anche su se stesso, sulla propria esclusione dalla conoscenza ultima come conseguenza della propria estraneità alla Rivelazione.

«A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli15. 33

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone16. 36

State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria17; 39

e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto18: 42

io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato19. 45

[Purgatorio, canto III, vv. 79-93]
Le anime degli scomunicati, vedendo che il corpo di Dante proietta l’ombra, si accorgono che egli è ancora vivo e si arrestano timorose. Virgilio chiede loro notizie sulla strada da percorrere e le anime, rassicurate, cominciano a muoversi lentamente, con atteggiamento simile a quello delle pecore di un gregge.

Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ’l muso; 81

e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno20; 84

sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta21. 87

Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta, 90

restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto22. 93

[Paradiso, canto XX, vv. 67-138]
In Paradiso, nel cielo di Giove, Dante incontra gli spiriti giusti, le cui luci sono disposte in modo da raffigurare un’aquila (simbolo, come è noto, del potere imperiale). Le anime si muovono, cantano e parlano tutte all’unisono, in modo che Dante abbia l’impressione che sia la stessa aquila a rivolgergli la parola; e l’aquila gli presenta gli spiriti di cui è composta. Cinque di essi formano il suo ciglio. Due di loro sono pagani: si tratta dell’imperatore Traiano e di Rifeo, un eroe troiano celebrato da Virgilio. La salvezza in Paradiso è dunque eccezionalmente concessa anche a chi non è stato in vita né cristiano né ebreo.

Chi crederebbe giù nel mondo errante,
che Rifeo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante23? 69

Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo24». 72

Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia, 75

tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell’è diventa25. 78

E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
tempo aspettar tacendo non patio, 81

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch’io di coruscar vidi gran feste26. 84

Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso27: 87

«Io veggio che tu credi queste cose
perch’io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose28. 90

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome29. 93

Regnum celorum violenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate30: 96

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza31. 99

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la region de li angeli dipinta32. 102

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi33. 105

Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu mercede34: 108

di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa35. 111

L’anima gloriosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potea aiutarla36; 114

e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco37. 117

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda, 120

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura38; 123

ond’ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse
39. 126

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d’un millesmo
40. 129

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota
41! 132

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar; ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti
42; 135

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo»
43. 138


1 Ruppemi… desta: Un cupo boato (truono, forma frequente nell’italiano antico) mi interruppe (Ruppemi) il sonno profondo (alto, richiamo virgiliano alla «alta quies» di Aen. VI, 522 o al «sopor altus» di VIII, 27) nel cervello (ne la testa), sicché io mi ridestai (mi riscossi) come una persona che è costretta a svegliarsi (ch’è per forza desta). Alla fine del canto precedente, Dante aveva raccontato di un terribile terremoto sotterraneo che gli aveva fatto perdere i sensi quando si trovava su una delle due sponde del fiume Acheronte. Svegliatosi a causa di un boato, si ritrova ora sulla riva opposta.

2 e l’occhio… dov’io fossi: e, rialzatomi in piedi (dritto levato), girai (mossi) tutt’intorno gli occhi (l’occhio, sineddoche) riposati <dal sonno>, e guardai attentamente (fiso) per comprendere (conoscer) in quale luogo io mi trovassi.

3 Vero è… d’infiniti guai: Sta di fatto (Vero è, la formula era usata per attestare delle verità importanti ma inattese) che mi ritrovai sulla riva (proda) della valle profonda (d’abisso) e piena di dolore, che raccoglie il rimbombo (’ntrono, variante di «truono», del v. 2.) di eterni (infiniti) lamenti (guai). Passato l’Acheronte, Dante si trova nel primo cerchio dell’Inferno. Il riferimento agli «infiniti guai» non vuol dire che in questo momento Dante personaggio stia sentendo questi lamenti (il che entrerebbe in contrasto con i vv. 26-27), ma è piuttosto «una perifrasi del narratore, già esperto delle condizioni dell’Inferno» (Rossi).

4 Oscura… alcuna cosa: Essa era oscura e profonda e piena di nebbia (nebulosa), tanto che, per quanto acuissi (per ficcar) la vista (viso, latinismo da visus), io non distinguevo (discernea) in essa (vi) nulla (alcuna cosa). Porena fa notare che il verbo “ficcar” è «usato spesso da Dante per indicare uno sforzo di penetrare con lo sguardo».

5 Or discendiam… sarai secondo: «Ora scendiamo quaggiù, nel tenebroso (cieco, anche in senso morale) mondo <dell’Inferno>», cominciò <a dire> il poeta tutto pallido (smorto). «Io andrò avanti (sarò primo) e tu mi seguirai (sarai secondo)».

6 E io… conforto: E io, che mi ero reso conto (mi fui accorto) del <suo> pallore, dissi: «Come potrò venire, se hai paura (paventi) <perfino> tu, che di solito sei (suoli… esser) di conforto al mio timore (dubbiare, infinito sostantivato).

7 Ed elli a me… per tema senti: Ed egli <rispose> a me: «La sofferenza (angoscia) delle anime (genti) che sono qui sotto mi fa comparire sul volto il colore di (nel viso mi dipigne) quella sofferenza (pietà) che tu scambi (senti) per paura (tema)». Quello di Virgilio non è timore, bensì un sentimento derivante dalla dolorosa considerazione del destino delle anime del Limbo, cui egli stesso appartiene.

8 Andiam… che l’abisso cigne: «Andiamo, poiché il lungo cammino ci spinge (ne sospigne) <a partire>». Così si introdusse e così fece entrare me nel primo cerchio che circonda (cigne) l’abisso. L’Inferno è costituito da nove cerchi concentrici, sempre più stretti via via che si scende, che circondano una voragine che arriva al centro della Terra.

9 Quivi, secondo… facean tremare: In quel luogo (Quivi), a quel che si poteva capire con l’udito (secondo che per ascoltare) non vi era (non avea) altro pianto fuor che (mai che, dal latino magis quam) di sospiri, che facevano tremare l’aria (aura) eterna. A differenza delle anime incontrate in precedenza, quelle di questo cerchio esprimono compostamente la loro sofferenza, limitandosi a sospirare.

10 ciò avvenia… di viri: questo avveniva <a causa> del dolore privo di pene fisiche (martìri) che pativano (avean) <quelle> schiere (turbe: le anime del Limbo sono distinte in diversi gruppi), che erano numerose e folte, di bambini (infanti), di donne e di uomini (viri). Nel Limbo, oltre agli spiriti di cui si parlerà subito dopo, hanno sede anche le anime dei bambini non battezzati.

11 Lo buon maestro… che tu credi: Il buon maestro <disse> a me: «Tu non chiedi (dimandi) che spiriti sono quelli che stai vedendo? Ora voglio che tu sappia, prima che tu vada (andi: al tempo di Dante, era questa la forma regolare del congiuntivo del verbo “andare”) avanti (più), che essi non commisero gravi peccati (non peccaro); e che, se essi hanno dei meriti (mercedi termine usato in antitesi a "peccati"), ciò non basta <a dare loro la salvezza>, perché non ebbero il battesimo, che dà l’accesso (è porta) alla fede <cristiana> alla quale tu credi».

12 e s’e’ furon… io medesmo: «e se essi vissero (furon) prima del cristianesimo, non adorarono come si doveva (debitamente) Dio: e tra questi (di questi cotai) ci sono io stesso». Prima della venuta di Cristo la vera fede era quella ebraica, che comportava l’attesa del Salvatore; per questo, dopo essere risorto e asceso al cielo, Cristo scese nel Limbo e trasse con sé tutti gli Ebrei meritevoli di salvezza, portandoli in Paradiso.

13 Per tai difetti… in disio: Per queste mancanze (difetti indica non peccati bensì delle imperfezioni morali), non per altro peccato (rio, aggettivo sostantivato) siamo privati della salvezza (perduti), e afflitti (offesi) solo da questa <sofferenza> (di tanto), <cioè> che viviamo nel desiderio <di vedere Dio> senza speranza (speme). La pena di queste nobili anime dell’antichità consiste soltanto nella loro aspirazione inappagata di conoscere il sommo bene.

14 Gran duol… eran sospesi: Un grande dolore (duol) mi strinse il cuore quanto lo sentii (’ntesi), poiché (però che) seppi (conobbi) che in quella balza (quel limbo; Dante mantiene il valore etimologico del sostantivo, derivato dal latino limbum che significa “orlo”) erano sospesi spiriti (gente, singolare collettivo con il verbo al plurale) di grande valore.

15 A sofferir… si sveli: «La potenza (Virtù) <divina> predispone (dispone) dei corpi <immateriali> come questi (simili corpi: si sta parlando delle anime dell’oltretomba) a patire (sofferir) tormenti, caldo e freddo, e (che, pronome relativo riferito a «Virtù») non vuole che a noi si sveli il modo in cui opera (come fa)».

16 Matto è chi crede… tre persone: «È folle (Matto) chi crede che la ragione umana (nostra) possa percorrer (trascorrer) la via infinita <della verità> che unisce (tiene) una sostanza in tre persone». La ragione umana non può spingersi fino a comprendere tutti i misteri della religione, come quello della Trinità.

17 State contenti… parturir Maria: «Accontentatevi, o gente umana, di conoscere come stanno le cose (quia indica, in questo contesto, la conoscenza dei fatti senza la comprensione delle loro cause ultime, ossia del quare) perché, se aveste potuto capire (veder) tutto, non sarebbe stato necessario (mestier non era) che Maria partorisse». La ragione umana è per Dante un potente strumento di conoscenza e di verità, ma essa ha dei limiti oltre i quali opera solo la Rivelazione resa possibile da Cristo.

18 e disiar vedeste… per lutto: «e <infatti> vedeste desiderare <la conoscenza> senza poterla raggiungere (sanza frutto) a degli uomini talmente virtuosi (tai) che, <se fosse stato umanamente possibile>, sarebbe stato soddisfatto (quetato) il loro desiderio, che invece è dato loro eternamente come sofferenza (per lutto; cfr. nota 13)».

19 io dico… rimase turbato: «io parlo (dico) di Aristotele e di Platone (Plato) e di molti altri». E a questo punto (qui) chinò il capo (la fronte, sineddoche), e non parlò più (più non disse) e restò turbato. Virgilio annovera anche se stesso tra i grandi dell’antichità che avrebbero meritato la conoscenza di Dio, se solo essa fosse stata umanamente possibile.

20 Come le pecorelle… lo ’mperché non sanno: Come le pecorelle escono dal recinto dell’ovile (del chiuso) a una, a due, a tre <alla volta>, mentre (e) le altre stanno molto timide (timidette è diminutivo con funzione intensiva), rivolgendo a terra (atterrando) gli occhi (l’occhio, sineddoche) e il muso, e ciò che fa la prima lo fanno anche le altre (e l’altre fanno), addossandosi a lei se essa si ferma, docili (semplici) e mansuete (quete), e non sanno il perché… La lunga similitudine paragona l’atteggiamento delle anime del Purgatorio, che sarà descritto nella successiva terzina, alla mansuetudine di un gregge.

21 sì… onesta: allo stesso modo vidi io allora (allotta) avanzare verso di noi (muovere a venir) la prima fila (la testa) di quella schiera di anime (mandra, metafora) destinata alla salvezza (fortunata), pudica in faccia e dignitosa (onesta) nel procedere.

22 Come color dinanzi… fenno altrettanto: Non appena coloro <che si trovavano> davanti videro la luce <del sole> interrotta (rotta) dalla parte del mio fianco (canto) destro, in modo che tra me e la roccia (grotta) <del monte> c’era l’ombra, si fermarono (restaro) e si ritrassero (trasser) un po’ (alquanto) indietro, e tutti quelli che venivano dopo, non sapendo il perché, fecero (fenno) altrettanto. Dante, unico vivo tra le anime del Purgatorio, ha un vero e proprio corpo e proietta ombra; da qui lo stupore degli spiriti dell’oltretomba.

23 Chi crederebbe… luci sante: «Chi immaginerebbe mai, nel mondo soggetto al peccato (errante), che il troiano Rifeo fosse in questo cielo (tondo) la quinta delle luci sante?». L’aquila, composta dagli spiriti giusti, presenta a Dante le cinque anime luminose che costituiscono il suo ciglio. L’ultima di esse è Rifeo, un personaggio minore dell’Eneide, che Virgilio designa come «iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi» [«il più giusto che vi fu tra i Troiani e il più osservante della giustizia»] (Eneide, II, 425-426).

24 Ora conosce… il fondo: «Ora <Rifeo> conosce molto (assai) di quei misteri della grazia divina che il mondo non può vedere, anche se la sua vista (ossia quella di Rifeo) non può scorgerne il fondo» (riservato solo a Dio).

25 Quale allodetta… diventa: Come un’allodola (allodetta, dal latino alauda) che dapprima vola (si spazia; il verbo, usato in forma riflessiva, sottolinea il volteggiare libero e felice dell’uccello) cantando in cielo, e poi tace contenta della dolcezza appena emanata (ultima dolcezza) <dal suo canto> che la appaga (sazia), tale mi sembrò l’immagine <dell’aquila, che taceva contenta> per l’impronta di Dio (etterno piacere) secondo la cui volontà (disio) ogni cosa diventa ciò che essa è. L’interpretazione puntale della terzina è assai difficile e la parafrasi è discussa.

26 E avvegna che… gran feste: E sebbene (avvegna che) io fossi in Paradiso (), quanto ai miei dubbi (al dubbiar mio), <trasparente> quasi come un vetro rispetto al colore che esso ricopre (veste), <tuttavia il dubbio> non sopportò (patio, perfetto arcaico) di lasciar passare (aspettar) del tempo in silenzio, ma mi fece uscire (pinse) fuori dalla bocca con la sua urgenza (peso) <le parole> «Che cose sono queste?»: per cui io vidi grandi rallegramenti (feste) nel brillare (coruscar) <dei beati>. In Paradiso i pensieri di Dante sono trasparenti ai beati, che possono leggerli nella mente di Dio. Tuttavia lo stupore, di fronte all’incredibile notizia appena appresa, lo spinge a chiedere lo stesso spiegazioni. Il «coruscar» manifesta invece l’accrescersi della gioia delle anime del Paradiso.

27 Poi appresso… sospeso: In seguito, con l’occhio più luminoso (acceso), il benedetto simbolo (segno: si ricordi che l’aquila è anche simbolo dell’Impero) mi rispose per non tenermi ancora sospeso nella meraviglia (in ammirar).

28 Io veggio… sono ascose: «Io vedo che tu credi a queste cose (cioè alla presenza di pagani in Paradiso) perché io le dico, ma non vedi come <siano possibili>; sicché esse, se <anche> sono credute, restano incomprensibili (ascose)».

29 Fai come quei… non la prome: «Ti comporti come colui che conosce bene qualcosa di nome, ma non può conoscere la sua essenza (quiditate, sostantivo astratto derivante dal pronome interrogativo latino quid, che significa “che cosa?”) se un altro non la rivela (prome)».

30 Regnum celorum… volontate: «Il regno dei celi (Regnum celorum) si lascia conquistare a forza (violenza pate, lett. subisce violenza) da amore ardente e viva speranza, che vince la volontà divina». Il v. 94 riprende Matteo, XI, 12: «Regnum caelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud» [«Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono»].

31 non a guisa… beninanza: «<questo avviene> non alla stessa maniera in cui (a guisa che) un uomo sovrasta (sobranza, provenzalismo) un altro uomo, ma <l’amore> vince la volontà divina (lei) che vuole essere vinta e che, lasciandosi vincere (vinta), è <in realtà> la vincitrice (vince) per la propria bontà (beninanza)». La terzina, retoricamente dominata dal poliptoto e dal chiasmo («vince» - «vinta»; «vinta» - «vince») esprime il concetto che, per Dio, lasciarsi sopraffare dall’amore dell’uomo non è una sconfitta ma una vittoria.

32 La prima vita… dipinta: «La prima e la quinta anima (vita) del ciglio <dell’aquila> ti fanno (ti fa, verbo al singolare per una pluralità di soggetti) meravigliare, per il fatto che vedi la regione degli angeli (perifrasi per indicare il Paradiso) abbellito da esse». Traiano e Rifeo, entrambi pagani, non potrebbero apparentemente trovarsi in Paradiso: da qui lo stupore di Dante.

33 D’i corpi suoi… passi piedi: «Essi non uscirono dalle loro vite (D’i corpi suoi, metonimia), come tu credi, pagani (Gentili), ma Cristiani, con salda (ferma) fede, il primo (Rifeo) riguardo alla Passione futura (d’i passuri, dal latino patior, participio futuro concordato con «piedi») e l’altro (Traiano) riguardo alla Passione avvenuta (d’i passi piedi, lett. riguardo ai piedi trafitti, sineddoche riferita alla Crocifissione di Cristo; la forma «passi» corrisponde al participio perfetto di patior)». Rifeo morì essendosi convertito all’Ebraismo, che costituiva la vera religione in quanto fede in Cristo venturo; Traiano invece divenne cristiano.

34 Ché l’una… mercede: «Poiché la prima (Traiano) tornò al proprio corpo (a l’ossa, sineddoche) dall’Inferno, da cui non si torna (riede) mai a volere il bene; e ciò fu ricompensa (mercede) di una viva speranza (spene)». Nel Medioevo l’imperatore Traiano era considerato un uomo straordinariamente giusto, benché pagano. Dante accoglie una leggenda secondo cui Traiano fu richiamato in vita per le preghiere di papa Gregorio Magno e poté, grazie alla «viva speranza» di questo pontefice, convertirsi alla vera fede.

35 di viva spene… esser mossa: «di una viva speranza, che mise forza (possa) nelle preghiere fatte a Dio (da Gregorio Magno) per risuscitarla, in modo che la sua volontà (voglia) potesse essere convertita (mossa)». Per potersi convertire al «buon voler» (v. 107) era necessario che l’anima di Traiano uscisse dall’Inferno (o più precisamente dal Limbo).

36 L’anima gloriosa… potea aiutarla: «L’anima gloriosa di cui (onde) si parla (Traiano), tornata in vita (ne la carne), in cui rimase (fu) per poco tempo, credette in colui (Cristo) che poteva salvarla (aiutarla)».

37 e credendo… a questo gioco: «e, divenuta credente, si accese in tanto ardore (foco) di vero amore, che al momento della seconda morte fu degna di venire a questa beatitudine (gioco, nel senso del provenzale joc)».

38 L’altra… redenzion futura: «L’altra anima (Rifeo), per dono della Grazia che nasce (stilla, metafora, lett. sgorga) da una fonte tanto profonda (Dio) che nessuna creatura poté mai spingere il suo sguardo fino all’origine di essa (prima onda: continua la metafora della «fontana»), indirizzò in terra (là giù) tutto il suo amore alla giustizia (drittura); per cui, aggiungendo grazia a grazia (di grazia in grazia), Dio gli aprì gli occhi alla nostra futura redenzione (lo convertì cioè all’Ebraismo)».

39 Ond’ei credette… perverse: «Per cui egli credette in essa (la «redenzion futura») e non tollerò (sofferse) da allora il fetore del paganesimo, e ne rimproverava gli uomini traviati (le genti perverse)».

40 Quelle tre donne… più d’un millesmo: «Quelle tre donne che tu vedesti presso la ruota destra <del carro> (riferimento allegorico alle virtù teologali) tennero per lui luogo di (li fur per) battesimo, più di un millennio (millesmo) prima dell’istituzione del battesimo (dinanzi al battezzar)». Per comprendere la terzina, occorre sapere che negli ultimi canti del Purgatorio Dante ha assistito a una processione allegorica incentrata intorno a un carro mistico [DIV9b]. In Purgatorio, XXIX, 121-129, si dice che presso la ruota destra del carro danzavano tre donne, che rappresentano appunto la Fede, la Speranza e la Carità. Tali virtù sarebbero state infuse da Dio a Rifeo.

41 O predestinazione… non veggion tota: «O predestinazione, quanto è inavvicinabile (remota) la tua radice da quegli sguardi (aspetti, metafora che indica gli intelletti umani) che non possono vedere per intero (tota) la prima causa (Dio)!». È opportuno precisare che il concetto di predestinazione in Dante non pregiudica il libero arbitrio dell’uomo [DIV7].

42 E voi, mortali… tutti gli eletti: «E voi, mortali, siate cauti (tenetevi stretti) nel giudicare; perché noi <stessi beati>, che vediamo Dio, non conosciamo ancora tutti i prescelti <per la salvezza> (eletti)».

43 ed ènne dolce… e noi volemo: «e un simile (così fatto) limite (scemo, sostantivo) ci è (enne) dolce, perché la nostra felicità (il ben nostro) si completa (affina) in questa felicità, <cioè> che quello che vuole Dio anche noi (e noi) lo vogliamo». Il concetto per cui parte della felicità dei beati sta nel compimento del volere di Dio è espresso, con diverse sfumature, anche nei canti III e VI del Paradiso [DIV13].



DIV6a - Il testo e il problema
IL TESTO
Inferno: novità del Limbo di Dante
Il IV canto dell’Inferno è ambientato nel Limbo: un luogo che sarà spesso evocato nel seguito del poema, dato che Virgilio è condannato a tornarvi e che la sua esclusione dalla salvezza è uno dei temi ricorrenti della Commedia. Per chiarire cosa sia il Limbo e in cosa consista la novità di Dante, può essere utile riassumere per grandi linee i fatti narrati in questo canto.
Prima che Cristo risorgesse da morte e salisse al cielo, nessun uomo era mai entrato in Paradiso. Fu proprio con la discesa al Limbo del Salvatore che si aprirono per l’umanità le vie della beatitudine. Cristo portò con sé Adamo, Abele, Mosè, Noè e molti uomini e donne dell’antichità ebraica meritevoli della felicità eterna. Rimasero invece nel Limbo i pagani virtuosi, quelli che, pur non avendo commesso gravi peccati, non potevano entrare nel regno dei cieli. Tra di essi Dante distingue in primo luogo quattro poeti antichi: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano (cui va aggiunto naturalmente Virgilio). Ci sono poi, in un «nobile castello», alcuni personaggi della leggenda troiana (come Enea) e della storia di Roma (come Giulio Cesare). Un altro gruppo è costituito da numerosi autori dell’antichità classica, guidati da Aristotele, Socrate e Platone. Ma nel Limbo troviamo anche presenze inaspettate. Tra gli eroi si incontra infatti il Saladino, sultano d’Egitto dal 1174 al 1193: l’uomo che tolse Gerusalemme ai Cristiani, ma che il Medioevo celebrava per la sua giustizia e le sue virtù cavalleresche; inoltre, anche tra i filosofi ci sono degli infedeli vissuti dopo Cristo, come i due grandi commentatori di Aristotele, l’arabo Averroè e il persiano Avicenna.
L’esclusione di Virgilio dalla beatitudine celeste, abbiamo detto, è uno dei motivi più toccanti della Commedia. Una sensibilità moderna potrebbe esser tentata di imputare a Dante un’eccessiva rigidità dogmatica verso i non cristiani. E invece la soluzione da lui adottata dimostra un’eccezionale apertura culturale, come si può capire se la si confronta con la tradizione da cui parte. Dante è il primo a riservare ai poeti e ai filosofi vissuti prima di Cristo una posizione nettamente distinta da quella dei dannati. Sappiamo già come il sincretismo medievale avesse compiuto, a partire da Agostino, un sistematico recupero della cultura classica, superando l’originaria condanna espressa da san Girolamo [DIV2a]. Ma nessuno prima di Dante si era spinto a parlare di un luogo specifico dell’oltretomba, riservato ai grandi uomini delle antiche civiltà. «I teologi scolastici – spiega Sapegno – riconoscevano un limbus patrum, al quale, secondo la Scrittura, Cristo discese dopo morto per trarne le anime dei patriarchi, riscattate in virtù del suo sacrificio dalla colpa originale, e da esso distinguevano il limbus puerorum (degli infanti morti prima di ricevere il battesimo)».
Dante è il primo a creare un Limbo per i grandi spiriti dell’antichità pagana, eroi di una tradizione culturale di cui egli stesso si sentiva parte. E va anche molto oltre: non si limita a riservare questa posizione agli “infedeli negativi” (coloro che non credettero in Cristo perché vissuti prima della sua nascita), ma apre le porte perfino agli “infedeli positivi”, coloro cioè che dopo il Cristianesimo scelsero consapevolmente strade diverse da quella della Chiesa. «Dante non poteva nascondersi che uomini vissuti dopo Cristo e non ignari della fede derivata da lui, peccarono non di mancanza, ma di renitenza alla fede. Come parlare di mera infedeltà negativa […] quando nel nobile castello stanno Dioscoride e Tolomeo, Saladino e Avicenna, Galeno e Averroè, vissuti tutti dopo Cristo e non ignari di lui, i quali peccarono, dunque, non di mancanza, ma di contrarietà di fede?» (Forti). È chiaro che in Dante il desiderio di onorare gli spiriti sapienti e giusti conosce aperture ignote al suo tempo. «L’aver fatto posto, e un posto per dir così di privilegio, tra le anime del Limbo anche ai buoni pagani, e perfino ad alcuni maomettani – sottolinea ancora Sapegno – è concetto di Dante, che non trova riscontro nei teologi medievali, e in cui si riflette la sua ripugnanza, piuttosto sentimentale che ragionata, a colpire con una troppo severa condanna quelle figure di saggi e di eroi, alle quali si rivolgeva tutta la sua ammirazione di uomo, di filosofo e di poeta».

Purgatorio: l’elegia di Virgilio
Per quanto privilegiate, però, le anime del Limbo restano escluse dalla salvezza. E la riflessione sull’infelice destino di tanta «gente di molto valore» provoca in Dante, nel IV canto dell’Inferno, un «gran duol»: sentimento che non andrà inteso come sorda opposizione ai decreti divini, ma piuttosto come «perplessità della ragione, che al tempo stesso avverte la sua grandezza e la sua insufficienza, allorché non l’assista il lume della Grazia, e alla fine s’arrende, sebbene riluttante, al mistero del dogma» (Sapegno). La pena per l’esclusione è, abbiamo detto, tema poetico caratterizzante il personaggio di Virgilio. Così, quando egli nel Purgatorio si trova a spiegare a Dante la natura immateriale e tuttavia sensibile dei “corpi” dell’oltretomba, il suo ragionamento si allarga fino a proclamare l’inaccessibilità alla ragione umana di misteri ben più profondi di questo, quale ad esempio la Trinità. Ma questo ragionamento è carico di pathos, perché Virgilio lo formula pensando a se stesso: anch’egli fa parte, come Aristotele e Platone, della schiera degli antichi che avrebbero meritato la conoscenza dei misteri ultimi, se solo questa fosse stata umanamente possibile.

Purgatorio: la ragione e i misteri della fede
Di fronte a Virgilio e a Dante sta una schiera di uomini destinati alla salvezza. In terra hanno peccato, sono stati scomunicati e hanno persistito a lungo nel loro presuntuoso orgoglio. Ma si sono salvati pentendosi in punto di morte e ora, in Purgatorio, assumono un ben diverso atteggiamento verso i misteri della Grazia. Abbandonando ogni eccesso di confidenza nella propria ragione, essi hanno appreso che si deve arretrare di fronte alle verità più imperscrutabili. La ragione umana, beninteso, non è per sua natura in contrasto con la Rivelazione; la conoscenza ottenuta con essa non può mai essere erronea (Dante, in questo senso, è discepolo di san Tommaso [A4]). Ma essa incontra dei limiti e non può addentrarsi nella verità rivelata. E a quest’ultima l’uomo deve prestar fede, limitandosi a constatarla (stando dunque contento al quia) senza pretendere di conoscerne l’ultimo perché.
L’immagine del gregge, che esemplifica la mansuetudine delle anime destinate alla salvezza, non è certo nuova nella simbologia cristiana (essa indica infatti tradizionalmente i fedeli di Cristo, il buon Pastore). Ma Dante la rinnova mettendo in luce, nel comportamento di questo gregge, i tratti in cui meglio si manifesta la nuova coscienza dei limiti umani acquisita dalle anime purganti: esse infatti agiscono «non sappiendo ’l perché» dei loro gesti (v. 93), in perfetta similitudine con le pecorelle che procedono o si arrestano e «lo ’mperché non sanno» (v. 84).

Paradiso: la salvezza eccezionale
I lettori del Purgatorio sanno già come i disegni di salvezza di Dio trascendano le umane capacità di previsione. Nel I canto, all’ingresso del secondo regno, Dante e Virgilio hanno incontrato un pagano – e per giunta suicida – come Catone [DIV1b]. In Paradiso, tra i personaggi prescelti per la salvezza, trovano spazio altri due pagani: il troiano Rifeo e l’imperatore Traiano; un altro “infedele negativo” vissuto molti secoli prima di Cristo, e un altro “infedele positivo” (il principe che regnò dal 98 al 117 d.C.). La salvezza di Traiano si deve alla straordinaria speranza di papa Gregorio Magno, le cui preghiere indussero Dio a risuscitarlo per convertirlo al Cristianesimo. Quanto a Rifeo, il percorso che l’ha portato alla salvezza è stato tutto interiore: per la sua straordinaria rettitudine, Dio ha deciso di illuminarlo concedendogli la fede ebraica che, come si è detto, poteva garantire un posto nel limbus patrum e, successivamente, in Paradiso. Il fatto che Dante accosti un personaggio assai noto a uno quasi anonimo è probabilmente significativo. Non è detto infatti che Traiano e Rifeo siano gli unici pagani accolti tra i beati. Più probabile che essi siano due esempi di virtù – illustre il primo, quasi ignoto il secondo – che testimoniano come, sia pur eccezionalmente, Dio possa concedere la propria Grazia anche a uomini che in vita non hanno ricevuto i sacramenti1. Ma il disegno, dobbiamo riconoscerlo, risulta per noi imperscrutabile.

IL PROBLEMA
La regola e l’eccezione
Dante ci ha offerto dunque, nel suo poema, un’idea abbastanza precisa delle regole che presiedono alla salvezza dell’umanità, pur avendo sempre cura di lasciare spazio alle eccezioni, ben sapendo che l’uomo non può certo “prendere le misure” all’infinita sapienza e bontà di Dio. Nel Limbo la regola è che, prevalentemente, alla dannazione possono sottrarsi – se moralmente meritevoli – gli “infedeli negativi” come Virgilio. Ma insieme a loro vi sono non pochi “infedeli positivi”, senza che il poeta senta il bisogno di spiegarci come mai sono lì. Il Purgatorio, lo abbiamo accennato, comincia a contemplare – tramite la figura di Catone – impreviste possibilità di salvezza per i pagani. E queste possibilità eccezionali ci sono confermate dal XX canto del Paradiso, tramite i casi (rari, ma forse non unici) di Traiano e di Rifeo.
Questo continuo forzare i limiti dogmatici della salvezza, ricordando sempre che nessuna competenza umana può sostituirsi a quella di Dio, sembra rispondere a quel desiderio di unità, di inclusione, di sintesi che presiede alla composizione di tutta la Commedia. Dante tende sempre ad accentuare – più che la contraddizione, la discontinuità e l’esclusione – tutti gli elementi che unificano l’umanità nel comune cammino verso la verità e il bene. Egli sa che la nostra ragione non può spiegare i misteri ultimi della salvezza; ma ci suggerisce anche l’idea che i percorsi per giungere a essa siano più numerosi e meno prevedibili di quanto noi possiamo pensare2. Dante pone dei limiti alla ragione umana, ma lo fa in una direzione che costituisce l’esatto contrario del dogmatismo intollerante: questa limitazione diviene per lui rispettosa disponibilità verso tutti i possibili percorsi che – ove li assista la Grazia di Dio – possono condurre al bene supremo. Ciò non si traduce affatto, beninteso, nel relativismo: la verità è una e ci è stata rivelata da Cristo; essa però è così alta da non lasciarsi rinchiudere dalle miserie della nostra intolleranza. E quest’arretramento di fronte all’imperscrutabile sapienza divina non va neanche confuso con un atteggiamento rinunciatario nei confronti della ragione umana: essa è necessaria alla salvezza, anche se da sola si rivela insufficiente. Dante esalta sempre con commozione la sapienza e la cultura, senza però dimenticare che da esse potrebbe sorgere un atteggiamento di orgogliosa presunzione [DIV5]. Egli ci offre sempre, quando si confronta con le vette dell’antichità classica, una poesia disposta a celebrare quanto di più grande e di più nobile l’uomo abbia compiuto, detto o pensato. Nella sua poesia non viene mai meno l’amore per la saggezza e la giustizia: sia quando, mentre ne rivendica la dignità, ne lamenta con Virgilio l’umana insufficienza; sia quando ne celebra, con Traiano o Rifeo, l’insperata adeguatezza a schiudere – sempre col decisivo apporto della Grazia – le porte della felicità eterna.

1 San Tommaso, discutendo la leggenda relativa a Traiano, ne ammette la verosimiglianza e afferma esplicitamente che non si tratta di un caso isolato. «De facto Traiani hoc modo potest probabiliter aestimari, quod precibus beati Gregorii ad vitam fuerit revocatus et ita gratiam consecutus sit, per quam remissionem peccatorum habuit et per consequens immunitatem a poena; sicut etiam apparet in omnibus illis qui fuerunt miraculose e mortuis suscitati, quorum plures constat idolatras et damnatos fuisse» [«Sulla vicenda di Traiano si può ritenere probabile che sia stato richiamato in vita per le preghiere di san Gregorio e che abbia così ricevuto la grazia, attraverso la quale ebbe la remissione dei peccati e di conseguenza l’immunità dalla pena; come anche si vede in tutti quelli che furono miracolosamente risuscitati dai morti, gran parte dei quali risultano essere stati idolatri e dannati»] (Summa theologiae, III, suppl. q. LXXI, 5).

2 Lo sforzo di conciliazione e di superiore sintesi di scelte intellettuali che possono apparire tra loro contrapposte è tipico di Dante. Si pensi al destino dell’averroista Sigieri, anch’egli beato in Paradiso vicino a san Tommaso, che ne aveva avversato in vita le dottrine [DIV5].