La Divina Commedia
DIV13 - Beatitudine, felicità, giustizia
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[Paradiso, canto III, vv. 10-90]
Nel canto III del Paradiso Dante incontra, per la prima volta, delle anime beate: si tratta di coloro che, cedendo alla violenza, non adempirono i propri voti. L’aspetto incorporeo di queste anime, del tutto nuovo per il poeta-pellegrino, lo disorienta: egli crede di aver di fronte dei semplici riflessi, simili a quelli che si creano su vetri trasparenti; pertanto si gira per vedere, dietro le sue spalle, le figure da cui essi nascono. La scena si svolge nel cielo della Luna, il più vicino alla Terra. Nel Paradiso, gran parte dell’azione è infatti ambientata nelle sfere che girano intorno alla Terra, contenenti stelle o pianeti. Questi cieli – che hanno consistenza fisica, anche se non sono corruttibili come i corpi terrestri – non sono però la vera sede dei beati. Le anime si mostrano a Dante in questi luoghi solo per consentirgli di percepire con i sensi i diversi gradi della loro beatitudine (che non sarebbero visibili in un luogo immateriale come l’Empireo). Dante apprende dunque che non tutte le anime del Paradiso godono allo stesso modo della visione di Dio. Per ciascuna di esse il godimento è proporzionale ai meriti acquisiti in vita. Se questi sono stati imperfetti, minore dovrà essere anche la ricompensa. Ma nessuno dei beati prova invidia per la condizione altrui: il sentimento della carità, che è essenziale per l’esistenza paradisiaca, induce ciascuno di essi ad amare la decisione di Dio.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi, 12

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille1; 15

tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte2. 18

Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi; 21

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi3. 24

«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo pueril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida, 27

ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto4. 30

Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che li appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi5». 33

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga6: 36

«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai, 39

grazioso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte»7.
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti: 42

«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte8. 45

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella, 48

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda9. 51

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati. 54

E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto10». 57

Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti: 60

però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino11. 63

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?12». 66

Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco13: 69

«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta14. 72

Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne; 75

che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri15. 78

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse16; 81

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia17. 84

E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face18». 87

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove19. 90


[Paradiso, canto VI, vv. 112-126]
Il sesto canto del Paradiso è interamente occupato dal discorso dell’imperatore Giustiniano, di cui Dante esalta in particolare l’opera di giurista e legislatore (fu autore del Corpus Iuris civilis, che tramandò il diritto romano costituendo uno dei principali fondamenti giuridici del mondo moderno). L’incontro avviene nel cielo di Mercurio, occupato dagli spiriti che operarono il bene non per puro amore di esso, ma per desiderio di gloria. Ciò spiega la loro condizione di inferiorità rispetto ad altre anime che amarono il bene in modo più disinteressato. Si ripropone dunque lo stesso problema prima toccato da Piccarda. La spiegazione proposta da Giustiniano è analoga, ma diverso è il linguaggio: mentre in Piccarda la piena soddisfazione di tutte le anime a prescindere dai diversi gradi di beatitudine si spiegava in nome della carità, in Giustiniano essa si spiega in nome della giustizia.

Questa picciola stella si correda
di buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda20: 114

e quando li disiri poggian quivi,
sì disviando, pur convien che i raggi
del vero amore in sù poggin men vivi21. 117

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi22. 120

Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia23. 123

Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote24. 126


1 Quali… pupille: Come (Quali) i lineamenti (postille: il termine, derivante dal latino post illa, indica propriamente le note a margine di un manoscritto e, metaforicamente, le linee che tracciano i contorni di un’immagine) dei nostri volti (visi) si riflettono (tornan) attraverso (per) vetri trasparenti e limpidi (tersi), ovvero attraverso acque limpide e immobili, non tanto () profonde che i fondi appaiano scuri (sien persi; l’aggettivo indica un colore intermedio tra il purpureo e il nero, ma più vicino a quest’ultimo), tanto evanescenti (debili sì) che una perla (di colore bianco) su una fronte bianca crea un contrasto maggiore di questo (non vien men forte, litote) ai nostri occhi (pupille)… Le due complesse terzine fanno parte di una similitudine (che sarà completata nella terzina successiva) tramite la quale si descrive l’aspetto delle anime del Paradiso che Dante vede per la prima volta. Tali anime sono così evanescenti da apparire come il debole riflesso di un’immagine su un vetro o su un limpido specchio d’acqua. Esse, rispetto allo sfondo su cui appaiono, creano un contrasto minimo, perfino inferiore a quello tra due oggetti ugualmente bianchi (la «perla» e la «fronte»: i canoni di bellezza dell’epoca prediligevano un incarnato molto chiaro, e spesso le donne portavano una perla sulla fronte).

2 tali vid’io… e ’l fonte: altrettanto tenui ed evanescenti (tali) io vidi più facce pronte a parlare; per cui io incappai (corsi) nell’errore contrario a quello che fece nascere (accese) l’amore tra l’uomo (Narciso) e la fonte (l’uso del maschile è un latinismo). Si cita qui, capovolgendolo, il mito di Narciso il quale, specchiandosi in un fonte, credette che la sua immagine riflessa fosse un vero corpo e se ne innamorò. In questo caso invece Dante vede delle immagini che gli sembrano solo un riflesso, senza capire che esse sono vere anime. Il mito è narrato da Ovidio, Metamorfosi, III, 407-510. Il riferimento è soprattutto al v. 417: «corpus putat esse, quod umbra est» [«scambia per un corpo ciò che è ombra»].

3 Subito sì… ne li occhi santi: Non appena (Subito sì com’) io mi accorsi di esse, considerandole (quelle stimando, con anticipazione del complemento oggetto) immagini riflesse (specchiati sembianti), girai (torsi) gli occhi per vedere a chi appartenessero (di cui fosser); ma (e) non vidi nulla, e li girai di nuovo (ritorsili) in avanti, rivolti (dritti) verso lo sguardo (lume) della <mia> dolce guida (Beatrice) che, sorridendo, splendeva (ardea, verbo metaforicamente collegato a «lume») nei suoi occhi santi.

4 Non ti maravigliar… di voto: «Non ti sorprendere per il fatto che io (perch’io) sorrida», mi disse <Beatrice>, «in seguito al (appresso il) tuo puerile pensiero (coto, sostantivo derivato dal verbo latino cogito) poiché (poi) ancora <il pensiero> non poggia (fida) il piede sulla verità (sopra ’l vero), ma ti fa girare (te rivolve) a vuoto, come al solito (come suole): quelle che tu vedi sono vere anime (sustanze, termine della filosofia scolastica), confinate (rilegate) in questo cielo (qui) per inadempienza (manco) di un voto.

5 Però parla… li piedi: Perciò (Però) parla con loro, e ascolta (odi) e credi <a ciò che ti dicono>; poiché (ché) la veritiera (verace) luce <di Dio> che riempie questi spiriti di gioia (li appaga) non permette loro di allontanare i passi (torcer li piedi) da sé. Le parole dei beati del Paradiso sono insomma veritiere, perché direttamente ispirate dalla luce di Dio.

6 E cio a l’ombra… smaga: E io mi rivolsi (drizza’mi) all’anima (ombra) che sembrava più desiderosa (vaga) di parlare (ragionar), e cominciai, quasi come una persona che (cui, complemento oggetto) un eccessivo desiderio (troppa voglia) consuma (smaga, provenzalismo).

7 O ben creato… vostra sorte: O anima (spirito) creata per la salvezza (ben creato) che, <davanti> ai raggi (rai) della vita eterna senti una dolcezza che, se non la si prova (non provata), non si può mai capire (non s’intende), mi sarà (fia) gradito (grazioso) se mi fai contento <rivelandomi> il tuo nome e la vostra condizione (sorte). Il v. 39 sembra riecheggiare il concetto espresso nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita nuova, cap. XXVI): «che ’ntender no la può chi no la prova» [G13b, v. 11].

8 Ond’ella… sua corte: Per cui ella, pronta e con occhi ridenti, <disse>: «La nostra carità non chiude (serra) le porte (metafora che significa non dice di no) a un giusto desiderio (voglia), più di quanto (se non come) <chiuda le sue porte> quella <carità di Dio> la quale vuole che tutto il Paradiso (sua corte, metafora) assomigli a sé». I beati insomma si conformano alla carità di Dio, la quale non nega soddisfazione a un giusto desiderio, come è appunto quello espresso da Dante.

9 I’ fui nel mondo… più tarda: «Io fui nella vita terrena (nel mondo) monaca (vergine sorella); e se la tua memoria (mente) guarda bene <dentro> se stessa, il fatto che io sia (l’esser) più bella non mi nasconderà a te (non mi ti celerà), ma tu riconoscerai che io sono Piccarda che, collocata (posta) qui insieme a questi altri beati, sono beata nel cielo più lento (la spera più tarda: il cielo della luna è più lento degli altri perché, essendo il più vicino alla terra, è quello che percorre lo spazio più breve nella sua rotazione)». Piccarda Donati era sorella del poeta Forese (amico di Dante, che l’ha incontrato nel XXIV del Purgatorio tra i golosi) e di Corso Donati, capo dei Neri e nemico del poeta. Secondo la tradizione, la giovane si era fatta monaca contravvenendo alla volontà dei fratelli, che volevano darla in sposa a Rossellino della Tosa, gentiluomo fiorentino di parte nera. Corso la fece rapire e la costrinse a forza a rompere il proprio voto. Una leggenda, non confermata, vuole che sia morta pochissimo tempo dopo le nozze. Va ribadito che Piccarda, come tutti gli altri spiriti del Paradiso, è «posta» nel cielo della Luna solo temporaneamente, affinché Dante possa percepire visivamente i diversi gradi della beatitudine. Tutti i beati hanno infatti la loro definitiva sede nell’Empireo.

10 Li nostri affetti… in alcun canto: «I nostri sentimenti (affetti), che sono accesi solo dal desiderio di piacere allo Spirito Santo, sono felici (letizian) in quanto sono conformi (formati) all’ordine <universale> da Lui disposto (del suo ordine). E questa condizione (sorte: si riferisce alla minore beatitudine delle anime del primo cielo), che sembra tanto umile (giù è qui usato con valore di aggettivo) ci è stata assegnata (n’è data) per questo (però, prolettico), <cioè> perché i nostri voti rimasero trascurati (negletti) e privi di effetto (vòti, ossia vuoti; l’aggettivo forma paronomasia con il precedente sostantivo «voti») in qualche parte (canto)». Dal discorso di Piccarda Dante apprende che non tutte le anime del Paradiso godono della stessa beatitudine, perché essa è proporzionale ai meriti: coloro che mancarono ai propri voti hanno naturalmente meriti minori perché, anche se la mancanza derivò da costrizione o da minaccia, essi avrebbero sempre potuto opporsi eroicamente alla violenza affrontando il martirio.

11 Ond’io a lei… latino: Per cui io <risposi> a lei: «Nelle vostre mirabili sembianze (aspetti) risplende (traluce) non so quale elemento soprannaturale, che vi rende irriconoscibili (trasmuta) rispetto alle immagini mentali di voi (concetti) che si formarono prima (primi, con riferimento ai ricordi depositatisi nella memoria quando queste persone erano in vita): perciò (però) non fui veloce (festino, latinismo) a ricordare; ma ora ciò che tu mi dici mi aiuta, in modo che ravvisarti mi è più facile (latino: a Roma “parlare latino” significava “parlare chiaro”, e l’aggettivo – con il significato di chiaro, facile, comprensibile – è passato anche al volgare medievale)».

12 Ma dimmi… più farvi amici: «Ma dimmi: voi che siete felici in questo cielo, desiderate un luogo più alto per vedere meglio (più) <Dio> e per amarlo più da vicino (più farvi amici)?». L’esistenza dei diversi gradi di beatitudine pone a Dante un problema: la felicità del Paradiso è forse in qualche luogo imperfetta, dato che sembra possibile desiderarne una ancora maggiore?

13 Con quell’altr’ombre… nel primo foco: Dapprima sorrise un poco insieme a quelle altre anime (ombre); poi (da indi) mi rispose tanto lieta che mostrava di (parea, con il consueto significato di apparire evidentemente e non solo di sembrare) ardere nel primo fuoco della carità (ossia nel fuoco dell’amore divino; si ricordi il «primo amore» di cui si parla in Inferno, III, 6).

14 Frate… non ci asseta: O fratello (epiteto francescano: Piccarda era infatti una clarissa), la forza (virtù) della carità, che ci fa volere solo quello che abbiamo e non ci dà desiderio (asseta) di altro, appaga completamente (quieta) la nostra volontà.

15 Se disiassimo… ben rimiri: Se desiderassimo essere in una condizione superiore (più superne), i nostri desideri sarebbero (foran) discordi dalla volontà di colui che ci distribuisce (cerne, latinismo) nei cieli; <cosa> che vedrai non poter avvenire (capere, latinismo che significa trovare spazio, aver luogo) in questi cieli (giri, nel senso di sfere), poiché (s’) qui è necessario (necesse, termine tecnico-filosofico latino) vivere in carità, e se ben consideri (rimiri) la natura di essa (cioè della carità). La dimostrazione di Piccarda è sillogistica: a) in Paradiso è necessario vivere in carità (premessa maggiore); b) la carità impone di volere tutto ciò che vuole Dio (premessa minore); c) tutte le anime del Paradiso vogliono ciò che vuole Dio (conclusione).

16 Anzi è formale… voglie stesse: Anzi, è essenziale (formale, altro termine tecnico del linguaggio filosofico) a questa beata condizione (esse, infinito latino del verbo essere) il conformarsi (tenersi dentro) alla volontà (voglia) divina, per cui le nostre stesse volontà si trasformano in (fansi) una sola.

17 sì che… ne ’nvoglia: per cui, il modo in cui (come) noi siamo <distribuiti> (sem) di gradino in gradino (di soglia in soglia) lungo questo regno (il Paradiso), piace a tutto il regno (ossia, per metonimia, alla comunità dei beati) come piace al re (Dio) che ci fa volere ciò che vuole lui (che ’n suo voler ne ’nvoglia).

18 E ’n la sua… natura face: E nella sua volontà è l’appagamento dei nostri desideri (nostra pace): egli è quel fine (mare, metafora spiegabile pensando al corso dei fiumi) verso il quale tende (si move) tutto ciò che la volontà divina (ella) crea <direttamente> o che la natura fa nascere. Si ricordi che, mentre i corpi mortali e la materia terrestre sono opera della natura, Dio crea direttamente gli angeli, i cieli e l’anima dell’uomo.

19 Chiaro mi fu allor… non vi piove: Mi fu allora chiaro il fatto che (come) ogni luogo (ogni dove, avverbio sostantivato) in cielo è paradiso, anche se (etsi, congiunzione latina) la grazia del cielo non vi discende (piove) <sempre> allo stesso modo. La dimostrazione di Piccarda convince Dante che, sebbene la beatitudine non sia uguale per tutte, le anime del Paradiso sono lo stesso perfettamente felici, perché amano il volere di Dio e si conformano ad esso.

20 Questa picciola stella… li succeda: Questo piccolo pianeta (stella: si tratta di Mercurio, il pianeta del secondo cielo) si adorna (correda) di anime buone che sono state attive affinché ne conseguisse per loro (li succeda) onore e fama. Le anime premiate in questo cielo non amarono dunque tanto il bene in sé, quanto i vantaggi morali che esso poteva comportare per loro.

21 e quando li desiri… men vivi: e quando i desideri si rivolgono in questa direzione (quivi, cioè verso «onore e fama») in tal modo deviando <dal loro vero oggetto> (che deve essere il bene in sé e dunque Dio), certamente (pur) è necessario (convien) che i raggi del vero amore (quello rivolto esclusivamente a Dio) giungano (poggin) meno ardenti (men vivi) verso l’alto (ossia verso Dio). Giustiniano enuncia qui le ragioni per cui i beati di questo cielo godono della visione di Dio in misura minore rispetto ad altri.

22 Ma nel commensurar… né maggi: Ma nel commisurare i nostri premi (gaggi, termine di origine tedesca che giunge a Dante attraverso il francese gage) con il merito è parte della nostra felicità (letizia), perché non li vediamo né minori né maggiori. Per Giustiniano dunque la felicità non consiste soltanto nel premio in sé, ma anche nella consapevolezza che esso corrisponde perfettamente al merito.

23 Quindi addolcisce… ad alcuna nequizia: Attraverso questa consapevolezza (Quindi, lett. Da qui) la viva giustizia (di Dio) addolcisce talmente in noi il desiderio (l’affetto) <di un premio maggiore> che <tale desiderio> non può mai deviare (torcersi) verso alcun sentimento perverso (nequizia, come sarebbe l’invidia per chi ha una beatitudine maggiore).

24 Diverse voci… tra queste rote: Diverse voci <in un coro> creano una dolce musica; allo stesso modo diversi gradi di beatitudine (scanni; il termine indica letteralmente i seggi riservati ai beati), nella nostra vita <eterna>, creano una dolce armonia tra questi cieli (rote).


DIV13 - Il testo e il problema
IL TESTO
I due brani che qui esaminiamo, affini per i temi trattati, si collocano a poca distanza l’uno dall’altro nei primi canti del Paradiso. L’episodio di Piccarda costituisce il primo incontro tra Dante e un’anima beata. Nelle due cantiche precedenti il pellegrino si era sempre trovato di fronte ad anime che avevano aspetto umano e soffrivano spesso tormenti fisici: è vero che queste anime non avevano una vera e propria struttura fisica, ma esse – come è spiegato in Purgatorio, XXV – creavano intorno a sé una sorta di corpo fatto d’aria, un’“ombra” capace di provare sensazioni e di soffrire parimenti. In Paradiso invece l’elemento corporeo è del tutto abolito e si pongono, per il poeta, nuovi problemi di raffigurazione. La poesia dell’ultima cantica ricorrerà principalmente alla rappresentazione delle anime sotto forma di luce, di puro fulgore spesso accompagnato da una musica di sovrumana bellezza. Ma, in questo terzo canto, gli spiriti del cielo della Luna non sembrano aver perso del tutto il loro aspetto fisico, sia pur trasfigurato da «non so che divino», se è vero che Dante, sia pure a fatica, riesce alla fine a riconoscere Piccarda. Per introdurre questo nuovo aspetto delle anime, il poeta ricorre al mito di Narciso: un mito che i moderni sono soliti evocare per designare il culto di se stessi, l’esagerata ammirazione per la propria persona, ma di cui, nel Medioevo, si sottolineava spesso un altro aspetto: la confusione tra la realtà e il suo specchio, l’incapacità di distinguere il vero dall’immaginario. La situazione di questo canto è però capovolta rispetto a quella narrata da Ovidio: mentre Narciso, nelle Metamorfosi, si innamora di un’immagine scambiandola per realtà, qui Dante crede di avere davanti dei semplici riflessi e non si accorge che essi sono, invece, le vere anime.
Nella strutturazione del Paradiso, altro problema importante è costituito dalla distribuzione delle anime lungo i cieli. Questi sono, secondo la concezione tolemaica, nove sfere che girano intorno alla terra, e contengono pianeti o stelle. Nelle prime sette di queste sfere (le ultime due, il Cielo delle stelle fisse e Cielo cristallino, sono occupati solo da schiere angeliche), Dante incontrerà i beati. Ciò non significa, però, che queste anime abbiano la loro vera sede all’interno di queste sfere: la sede di tutte le anime beate è l’Empireo, un cielo immateriale che si estende senza limiti di spazio al di fuori delle sfere rotanti. Tuttavia, come Beatrice spiegherà nel IV canto del Paradiso, i beati si mostrano a Dante come se fossero distribuiti nei cieli per consentirgli di percepire con i sensi una realtà che altrimenti gli sarebbe incomprensibile, ossia l’esistenza di diversi gradi di beatitudine. L’intelletto umano infatti ha bisogno di rappresentazioni sensibili, senza le quali non riuscirebbe a pervenire alla conoscenza intellettuale. Per lo stesso motivo, argomenterà ancora Beatrice, le Sacre Scritture hanno “materializzato” Dio stesso, dandogli «e piede e mano» (Paradiso, IV, v. 45), senza naturalmente che questa raffigurazione corporea vada intesa letteralmente.
Sono numerose – e non tutte possono essere approfondite in questa sede – le questioni sollevate dai versi oggetto di questo approfondimento. Tra di esse, merita almeno un cenno il tema del rapporto tra volontà e costrizione. Le anime del cielo della Luna (un astro che ci appare con aspetto sempre diverso, e che dunque ben si presta a simboleggiare la volubilità umana) godono di un grado di beatitudine minore rispetto alle altre perché non portarono a compimento i loro voti. Il fatto che tale inadempienza sia stata dovuta a costrizione, come nel caso di Piccarda, non costituisce per loro una completa giustificazione. Come spiegherà Beatrice nel canto successivo, quando si cede alla violenza avviene sempre «che la forza al voler si mischia» (Paradiso, IV, v. 107): l’azione compiuta sotto minaccia comporta insomma un certo consenso, anche se non libero, da parte di chi agisce per paura. Se la persona che subisce violenza fosse decisa a resistere a qualsiasi costo, la sola violenza non potrebbe costringerla a compiere un’azione («ché volontà, se non vuol, non s’ammorza»; Paradiso, IV, v. 76). Di ciò è testimonianza, ad esempio, il martirio di san Lorenzo (che fu bruciato sulla graticola) o l’eroismo di Muzio Scevola (che sacrificò la sua mano). Si delinea dunque, in questo canto e nel successivo, un’etica eroica, che comporta la necessità di una coerenza assoluta con i propri principi e di una resistenza passiva, ma invincibile, a ogni genere di costrizione. La mancanza di un simile eroismo non comporta per le anime la perdita della beatitudine, ma implica senza dubbio che tale beatitudine sia minore di quella concessa ad altri spiriti.

IL PROBLEMA
L’esistenza di diversi gradi di beatitudine pone Dante di fronte a un nuovo problema, che si ripresenterà anche nel canto di Giustiniano: come conciliare la perfetta felicità delle anime del Paradiso con il fatto che alcune di esse godono meno di altre della visione di Dio? Il problema si risolve affrontando la questione della felicità in una prospettiva che non sia puramente individualistica. In questo senso gli argomenti di Piccarda e quelli di Giustiniano sono diversi ma convergenti: Piccarda pone la questione – in forma sillogistica – a partire dal principio strutturante del Paradiso, ossia la carità. Questa comporta l’adeguamento della volontà delle anime alla volontà di Dio, la piena e gioiosa sottomissione al suo volere e la completa accettazione delle sue decisioni. Il ragionamento della clarissa Piccarda si completa attraverso quello di Giustiniano, l’imperatore-legislatore. È lui a introdurre il tema della giustizia come componente essenziale della felicità. Non può darsi piena felicità nel raggiungimento di ciò che si desidera per se stessi se tale raggiungimento non corrisponde a un principio di giustizia: parte essenziale della felicità risiede infatti nella consapevolezza che il premio ottenuto è perfettamente commisurato al merito. Il problema della felicità si pone dunque nella Commedia non in una prospettiva puramente soggettiva (o, peggio ancora, egoistica), ma su basi oggettive e universali. Come è parte della felicità la carità (che è amore per Dio e per il prossimo) lo è anche la giustizia. E che la giustizia divina non si debba porsi in conflitto con quella umana, ma piuttosto in continuità con essa, lo dimostra il fatto che tale ragionamento sia affidato a un imperatore-legislatore come Giustiniano, dunque a una figura altamente simbolica di un potere politico che – ispirato da Dio, ma non sottoposto al potere della Chiesa – ha appunto il compito di garantire pace e giustizia al mondo. La prospettiva di Dante si pone dunque come una prospettiva totalizzante, in cui il destino ultimo del singolo individuo non può essere scisso dal destino del resto dell’umanità. La similitudine musicale contenuta nelle parole di Giustiniano conferma la tendenza dantesca a una rappresentazione del mondo che non isoli mai l’individuo dal contesto in cui vive, ma lo immerga profondamente in esso (facendone dunque non un solista, ma una delle voci di un armonioso canto polifonico).
La metafora musicale evocata da Giustiniano e la metafora del mare prima accennata da Piccarda (Paradiso, III, 86) sembrano rinviare a due immagini presenti nel primo canto del Paradiso. Anche lì (v. 78) si faceva riferimento a una «armonia» musicale (anche se essa appare in quel contesto come il prodotto del movimento delle sfere celesti e non come effetto del canto dei beati). Più significativa appare la metafora del mare: Beatrice parla infatti nel primo canto di un ordine provvidenziale dell’universo, raffigurando quest’ultimo come il «gran mar dell’essere», nel quale tutte le creature si muovono, per approdare a «diversi porti» (Paradiso, I, vv. 112-113), ossia alle diverse mete finali del loro viaggio esistenziale. Beatrice specifica che il fine assegnato alle creature inferiori è naturalmente diverso da quello fissato per gli angeli e per gli uomini, le creature destinate ad avvicinarsi di più al creatore. Ma se la gerarchizzazione dell’ordine universale illustrata da Beatrice nel primo canto dipende a priori dalla natura di ogni essere – in una concezione del creato che pone l’uomo al centro –, a partire dal canto III si introduce una seconda gerarchizzazione, che opera all’interno del genere umano, e che colloca gli uomini più o meno vicini al loro creatore a seconda dei loro meriti effettivi (una gerarchizzazione dunque che non opera più a priori, bensì a posteriori, in quanto dipende dal concreto operato di ogni uomo). L’esistenza umana appare a Dante come un processo tendente a realizzare un fine, che è insieme di carattere intellettuale (conoscenza di Dio) e morale (pratica del bene): dalla capacità e volontà di ciascun uomo di raggiungere tale fine dipenderà la sua maggiore o minore beatitudine. Ma una minore beatitudine non comporterà comunque alcuna forma di infelicità: il riconoscimento della giustizia dell’ordine universale implica l’accettazione, da parte di ciascun essere destinato alla salvezza, del proprio destino ultimo individuale; destino che dovrà essere amato sia in quanto voluto da Dio, sia in quanto riconosciuto come intrinsecamente giusto.