La Divina Commedia
DIV1b - Allegoria e figura – L’astronomia dantesca
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[Paradiso, canto I, vv. 37-42]
Anche all’inizio del Paradiso, come aveva già fatto nel primo canto dell’Inferno (I, vv. 37-43) Dante poeta sottolinea il fatto che il suo viaggio avvenga in primavera, stagione in cui il cielo è particolarmente propizio agli uomini. Esaminiamo con particolare attenzione le due terzine del Paradiso che precisano questa determinazione di tempo. Il loro significato letterale può essere spiegato facendo ricorso alle cognizioni astronomiche diffuse al tempo di Dante. Ma risulta evidente che a tale significato se ne debba aggiungere un secondo. Si può parlare anche in questo caso di una allegoria. Ma occorrerà precisare che si tratta di un’allegoria molto diversa da quella della lupa.

Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo[1]; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci, 39

con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta[2]; e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.[3] 42


[1]
Surge… del mondo: Il Sole (la lucerna del mondo, metafora) sorge per gli uomini (ai mortali) attraverso diversi punti dell’orizzonte (per diverse foci) <a seconda delle diverse stagioni>.

[2] ma da quella… congiunta: ma <quando sorge> da quel punto dell’orizzonte (da quella, riferito a “foce”) in cui si congiungono quattro cerchi formando tre croci <per ciascuno di essi>, <il Sole> esce con un’orbita migliore (miglior corso) e congiunto con una costellazione (stella) migliore. Come si spiegherà nell’approfondimento, i quattro cerchi del cielo – la cui intersezione forma tre croci – sono l’eclittica, l’equatore celeste, il coluro equinoziale e l’orizzonte. La costellazione con cui il Sole è congiunto nel momento in ci si svolge l’azione è quella dell’Ariete, ritenuta dai medievali particolarmente propizia agli uomini, anche perché si riteneva che sotto questo segno Dio avesse creato il mondo.

[3] e la mondana… suggella: e <il Sole, allora,> modella (tempera) e impronta (suggella) la materia (cera) del mondo (mondana) in modo da determinare il suo più benefico influsso (più a suo modo). La credenza negli influssi astrali sui destini del mondo era comunemente accettata nel Medioevo.


DIV1b - Il testo e il problema
IL TESTO
Premessa: il cielo visto dalla Terra

Le moderne nozioni di astronomia – anche le più elementari – ci avvertono che i movimenti che vediamo nel cielo sono soltanto apparenti. Noi abbiamo l’impressione che il Sole sorga e tramonti muovendosi da est a ovest, mentre sappiamo bene, ormai da alcuni secoli, che quest’impressione è determinata dal fatto che la Terra gira quotidianamente su se stessa (moto di rotazione terrestre). Allo stesso modo, vediamo sorgere e tramontare la Luna, ma sappiamo anche che – benché questa giri effettivamente intorno alla Terra – il movimento che si può osservare di notte è anch’esso determinato dalla rotazione terrestre.
Vi sono altri corpi celesti che compiono un movimento che l’occhio umano può cogliere con un’assidua osservazione (anche se a tutta prima potrebbe sembrare difficile distinguerli dalle stelle). Si tratta dei pianeti, tra i quali i più riconoscibili sono Marte, che si caratterizza per la sua luminosità e il colore rosso, e Venere, che ci appare spesso vicino al Sole (in alcuni periodi all’alba, altre volte al crepuscolo). Anche Mercurio, Giove e Saturno si comportano in maniera simile, percorrendo il cielo con orbite lente ma distinguibili da un osservatore abbastanza assiduo: essi sembrano dunque avvicinarsi ad alcuni astri e allontanarsi da altri (è per questo che già gli antichi, pur ignari dell’esistenza di un sistema solare, li definirono pianeti,  da una parola greca che significa errante, vagabondo).
Le vere e proprie stelle, invece, sembrano costituire un insieme unico: mentre i pianeti cambiano nel tempo la loro posizione reciproca, queste stelle (che sono dette “fisse”) mantengono sempre, l’una rispetto all’altra, la medesima distanza[1]. L’apparente immobilità reciproca delle stelle ha portato gli uomini a raggrupparle, in base alla loro apparente vicinanza, nelle costellazioni. In realtà tali costellazioni, tra cui rientrano le dodici dello zodiaco, sono formate da stelle spesso lontanissime tra loro e prive di alcun rapporto l’una con l’altra.
Anche le stelle fisse, osservate dalla Terra, “sorgono” e “tramontano”; se le chiamiamo “fisse” è semplicemente perché ci sembrano costituire un unico blocco. L’insieme di queste stelle sembra ruotare ogni notte, con un moto collettivo,  da levante verso ponente. Tale rotazione avviene attorno a un asse, che congiunge i cosiddetti Poli celesti. Dal nostro emisfero è visibile solo il Polo nord; esso è l’unico punto del cielo che ci appare immobile. Possiamo individuarlo osservando la Stella Polare, talmente vicina al Polo nord celeste da apparirci in pratica indistinguibile da esso.
Lo sfondo su cui tutti questi movimenti ci appaiono è la volta celeste. Per il nostro occhio, è come se il cielo fosse un enorme involucro sferico, vuoto al suo interno, al centro del quale è sospeso il nostro pianeta. Dalla Terra noi crediamo di vedere la faccia interna di quest’involucro. Naturalmente oggi sappiamo bene che quest’involucro non esiste. Se il cielo ci si presenta come un’unica superficie e tutte le stelle ci sembrano collocate sullo stesso piano, è solo perché, oltre un certo limite, l’occhio umano non è in grado di percepire la profondità dello spazio. In definitiva, il modo in cui il cielo appare agli uomini è determinato in buona parte dalle nostre illusioni prospettiche, che ci portano a raggruppare stelle tra loro lontanissime in figure di esseri mitologici, di animali o di oggetti, e a immaginare che tutti gli astri si trovino alla stessa distanza da noi.

I medievali, a differenza di noi, non avevano coscienza dell’illusorietà dei moti del cielo e delle costellazioni, o dell’inesistenza di una volta celeste. Credevano davvero che la Terra fosse al centro dell’Universo e immaginavano che i pianeti e le stelle, unite in cielo in modo da formare immagini significative, le ruotassero intorno. In cielo erano distinguibili sette astri, ciascuno con movimento autonomo (il Sole, la Luna e cinque pianeti: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno); a questi si aggiungeva il blocco costituito dalle stelle fisse. Per spiegare la diversa rotazione di questi otto elementi, si ipotizzò che esistessero altrettante sfere concentriche, sette delle quali contenevano un astro ciascuna, mentre l’ottava raggruppava tutto l’insieme delle stelle fisse.
A questi otto cieli se ne aggiungeva un altro, che non conteneva astri, detto Primo Mobile o Cristallino. La rotazione dei cieli intorno alla Terra veniva spiegata nel Medioevo sulla base della filosofia di Aristotele, le cui cognizioni astronomiche erano state sviluppate nel II secolo d.C. da Claudio Tolomeo. Aristotele concepiva Dio come il motore immobile dell’universo; l’interpretazione cristiana di questo principio voleva che i cieli fossero mossi dagli angeli per obbedire alla volontà di Dio; ogni coro angelico presiedeva alla rotazione di un diverso cielo. 



A questa rappresentazione del cosmo che poneva la Terra al centro (il cosiddetto sistema geocentrico, chiamato anche tolemaico) l’umanità credette a lungo, anche perché la Chiesa lo fece proprio e lo difese anche a dispetto delle successive osservazioni scientifiche (da qui il rifiuto del sistema copernicano e il processo a Galileo nel XVII secolo). È vero che alcuni filosofi antichi avevano ipotizzato un modello diverso, avente al centro il Sole e non la Terra[2]. Ma tali teorie, che contraddicevano la percezione immediata delle cose, non ebbero fortuna fino ai tempi moderni.

Quattro cerchi in cielo
Anche se l’astronomia antica è più complessa di quanto si potrebbe credere (alcuni fenomeni osservabili nel cielo richiedevano infatti spiegazioni sofisticate, al fine di poter essere conciliati con il sistema tolemaico), per il nostro approfondimento basta tener presente che, secondo i medievali, quei moti del cielo che per noi sono solo apparenti erano da considerarsi assolutamente reali. La Terra stava al centro dell’Universo (il che implicava anche una centralità dell’uomo nel Creato); il Sole e tutti gli altri astri le giravano davvero attorno; ed esisteva davvero una volta celeste[3], al di fuori della quale finiva il mondo fisico e cominciava l’infinità immateriale del Paradiso.
È in base a questi presupposti che possiamo individuare adesso i «quattro cerchi» di cui parla Dante in queste due terzine. 

Primo cerchio: l'Equatore celeste
Il primo di questi cerchi è l’Equatore celeste. Possiamo disegnarlo sulla volta del cielo prendendo i poli celesti come riferimento, e ricordando – alla luce delle nostre moderne cognizioni – che tali poli sono in effetti la proiezione di quelli terrestri; l’Equatore celeste non sarà altro, dunque, che la proiezione dell’Equatore terrestre sulla volta del cielo. È utile sapere, ai fini della nostra spiegazione, che nel momento degli equinozi il Sole ci appare appunto lungo la linea dell’Equatore celeste.

Secondo cerchio: l'Eclittica
Un po’ più complessa è l’individuazione del secondo cerchio. Consideriamo come riferimento le stelle fisse. Se osserviamo la posizione occupata dal Sole, giorno dopo giorno, rispetto a questo “sfondo”, possiamo accorgerci che esso non si trova mai nello stesso punto. In sostanza, il Sole si sposta ogni giorno un po’ verso est di circa un grado. Nel complesso, durante il suo moto apparente annuo rispetto alle stelle fisse, il Sole descriverà sulla volta celeste un circolo immaginario. Tale circolo è detto Eclittica. Il fatto che il Sole si muova rispetto allo sfondo delle stelle fa sì che esso, nei diversi mesi dell’anno, ci appaia congiunto con l’una o l’altra delle dodici costellazioni dello Zodiaco. L’Eclittica (il secondo dei cerchi di cui parla Dante) può dunque essere considerata la curva tracciata dal Sole nel suo moto lungo le costellazioni dello Zodiaco. L’Eclittica risulta alquanto inclinata rispetto all’Equatore celeste. I due cerchi si intersecano tra loro in due punti della volta celeste, uno dei quali, detto punto gamma, risulta di fondamentale importanza ai fini della nostra spiegazione.

Terzo cerchio: il Coluro equinoziale
Il punto gamma, posto come si è detto sulla volta celeste all’intersezione tra Eclittica ed Equatore celeste, è quello occupato dal Sole nel momento esatto dell’equinozio di primavera. Se tracciamo un circolo che, passando per il punto gamma, congiunga i due poli celesti – si tratterà, come è facile capire, di un circolo costituito da un meridiano e dal suo antimeridiano – otteniamo il Coluro equinoziale. Tale circolo è appunto il terzo dei cerchi indicati da Dante.

Quarto cerchio: l'orizzonte
Noi vediamo il Sole ruotarci intorno insieme all’intera volta celeste. Quando il Sole sorge, il giorno dell’equinozio di primavera, esso si troverà quasi esattamente al punto gamma (con una minima approssimazione: il punto verrà raggiunto nell’istante esatto in cui cade l’equinozio). Possiamo dunque dire che, al momento in cui sorge, il Sole in gamma (punto in cui si intersecano già tre cerchi: Eclittica, Equatore celeste e Coluro equinoziale) intersecherà anche l’orizzonte. Ed è proprio questo l’ultimo dei «quattro cerchi» di cui parla Dante[4].

Le tre croci
Consideriamo ora uno qualsiasi dei quattro cerchi, per esempio l’orizzonte. Esso intersecherà gli altri tre, ripetendo per tre volte una figura geometrica simile a quella della croce (anche se con diverse inclinazioni dei bracci). Se contassimo le croci che si ripetono nel punto gamma vedremmo facilmente che esse sono più di tre[5]; il verso di Dante va dunque inteso nel senso che, nel punto in questione, i quattro cerchi si congiungono in modo tale che ciascuno di essi forma per tre volte la figura della croce.



IL PROBLEMA
Premessa: un universo di segni
Una volta acquisite le fondamentali nozioni per comprendere la perifrasi astronomica, il significato letterale del testo di Dante non risulta di difficile interpretazione. Tuttavia, come subito vedremo, la spiegazione astronomica di queste figure non ne esaurisce affatto il significato. Oltre al senso letterale, infatti, il brano di Dante ne possiede un secondo, di natura propriamente religiosa. Il poeta ci dice, con un’immagine concreta, qualcosa che va ben oltre l’indicazione astronomica e cronologica che abbiamo analizzato. Ci troviamo dunque, ancora una volta, nel campo dell’allegoria. Dobbiamo però essere coscienti che la situazione è qui ben diversa da quella presentataci nel primo canto, quanto il poeta parlava della «lupa» intendendo, in realtà, un peccato. Mentre infatti la lupa era un’immagine fittizia creata dal poeta, i cerchi e le croci sono immagini reali, esistenti nel cielo; sono figure che gli astronomi tracciano non a loro arbitrio, ma osservando attentamente il moto di stelle e pianeti. Gli uomini, dunque, non creano queste figure, ma possono soltanto riconoscerle nel cielo. Il loro vero creatore è Dio, che ha disposto gli astri in modo che si disegnassero in cielo, in un dato momento dell’anno, questi cerchi e queste croci.
Per la mentalità medievale è evidente che la forma e il numero di queste figure alludano a qualcosa che va oltre la loro realtà concreta. La Natura è infatti, insieme alla Scrittura, un libro con cui Dio parla agli uomini. Proviamo dunque a decodificare i segni con cui il Creatore – cui è dato, rispetto agli uomini, il privilegio di usare come segno non solo le parole, ma anche la natura e gli eventi storici – si rivolge all’umanità.

Il numero quattro
Innanzitutto, non appare certo casuale il fatto che i cerchi di cui qui si parla siano in numero di quattro. Quattro sono gli elementi di cui è costituito il creato (aria, acqua, terra e fuoco). Sono quattro anche le virtù cardinali (Prudenza, Fortezza, Giustizia, Temperanza); virtù che si possono raggiungere basandosi sulla sapienza umana (non erano infatti negate neanche agli antichi). Il numero quattro, in sostanza, risulta fortemente connesso con la Terra e con la natura umana.

I cerchi
Il cerchio è, notoriamente, immagine di perfezione. Esso è alla base della forma approssimativamente sferica della Terra, ma soprattutto di quella dei cieli (gli antichi ritenevano infatti che le loro orbite fossero circolari e che i corpi celesti avessero forma sferica perfetta, senza le irregolarità proprie della Terra). Non a caso, Dante userà figure circolari anche nella rappresentazione di Dio (Paradiso, XXXIII, vv. 115-117) e, per spiegare l’impossibilità di una compiuta spiegazione razionale dei misteri del Cristianesimo, richiamerà con una similitudine l’impossibilità di risolvere il problema geometrico della quadratura del cerchio (Paradiso, XXXIII, vv. 133-136). Mentre il numero quattro, dunque, allude essenzialmente alla Terra, l’immagine del cerchio rimanda al cielo, a Dio e all’impossibilità di raggiungerne la perfetta conoscenza con i soli mezzi umani. Nell’unione tra il numero quattro e la figura del cerchio sembra possibile, a questo punto, scorgere un avvicinamento  tra umano e divino. Dante, che si appresta a compiere l’ascesa in Paradiso, vede in cielo i segni di una riconciliazione tra il Creatore e le creature, e ciò rafforza la sua speranza di raggiungere la salvezza.

«Giunge con tre croci»

È del tutto evidente il simbolismo religioso del tre: si tratta del numero della Trinità, e tre sono anche le virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), concesse all’uomo solo in forza della Rivelazione. Il verbo «giunge», poi, sottolinea ulteriormente la congiunzione, l’unione tra umano e divino già accennata dall’accostamento del numero quattro all’immagine dei cerchi. Non è certo un caso che questa congiunzione si attui mediante la figura della croce: solo la crocifissione di Cristo, infatti, ha reso possibile riallacciare il patto tra uomo e Dio che era stato rotto con il peccato originale. A rafforzare questo significato, sta anche il luogo in cui è ambientata la scena da cui questi versi sono tratti: all’inizio del Paradiso Dante si trova ancora in cima alla montagna del Purgatorio, e su tale cima è collocato proprio l’Eden, luogo di antica (e poi perduta) congiunzione armonica tra Dio e l’uomo. Inoltre, dobbiamo ricordare che l’azione si svolge in un tempo assai prossimo all’equinozio di primavera (stagione ritenuta particolarmente propizia all’uomo, tanto che si riteneva che Dio avesse creato il mondo proprio in tale stagione), e che il viaggio di Dante si colloca nei giorni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alla Pasqua del 1300 (il che, oltretutto, rafforza ancora il significato di figure come quella della croce).

Due tipi di allegoria
Potremmo dunque parlare, a questo punto, di un significato allegorico dei quattro cerchi e delle tre croci. Ribadiamo però che esistono due differenze essenziali tra questa allegoria e quella della lupa:
a) in primo luogo, nel caso dei cerchi e delle croci il significante
dell’allegoria è concreto e reale (nel caso della lupa, invece, si trattava di una semplice invenzione poetica)
b) in secondo luogo, è diverso l’“autore” dell’allegoria, e diverso ne è anche il linguaggio: ai poeti, infatti, è dato scrivere le loro allegorie solo usando favole di loro invenzione come significanti di un contenuto più profondo. Ma a Dio, creatore del mondo, è dato usare come significante il mondo stesso. Come scrive Charles Singleton, «le cose dell’universo creato sono cose e segni al tempo stesso. […] Il segno è nella cosa e dalla cosa è presentato. È stato Dio a porverlo. Non è l’uomo ad aggiungervelo, ricavandolo dalla sua mente e dal suo cuore. L’uomo lo scopre»[6]

Il tema dell’allegoria è trattato teoricamente nel Convivio [G28]. In quest’opera, Dante distingue un’allegoria dei poeti da un’allegoria dei teologi. La differenza fondamentale tra i due tipi di allegoria consiste proprio nel significante: nel caso dell’allegoria dei poeti, si tratta di una «bella menzogna», di una favola inventata per trasmettere una verità morale. Nel caso dell’allegoria dei teologi, invece, si tratta di un fatto reale e concreto che, oltre a valere per se stesso, è portatore di un secondo significato. Adottando la terminologia di Dante, la differenza tra l’allegoria che stiamo qui esaminando e quella della lupa può essere così riassunta: la lupa è un’invenzione di Dante che rientra nell’allegoria dei poeti; i quattro cerchi e le tre croci (che Dante non inventa, ma scopre nella natura interrogandosi sul loro significato) sono invece una delle forme dell’allegoria dei teologi[7].
Poiché la Divina Commedia è un’opera di poesia, e poiché nella poetica medievale l’allegoria occupa un ruolo fondamentale, il lettore – specie dopo avere affrontato il primo canto dell’Inferno – sarebbe portato ad attendersi che tale opera sia costruita secondo l’allegoria dei poeti. Tuttavia, come ci illustra la lettura di questi versi del Paradiso, Dante va molto oltre. Egli non si limita a inventare allegorie del genere della lupa, ma cerca di leggere nel mondo reale le allegorie che Dio stesso vi ha scritto. E infatti il mondo rappresentato da Dante nella Commedia possiede una concretezza  che rende impossibile trattarlo come il semplice significante fittizio di una “allegoria dei poeti”.
Avevamo osservato qualcosa di simile già nella lettura del primo canto dell’Inferno. Se la rappresentazione della lupa, e perfino la prima apparizione di «chi per lungo silenzio parea fioco» (Virgilio), avevano bisogno di essere letti come allegoria poetica per poter dispiegare un significato del tutto comprensibile, dal momento in cui Virgilio stesso prende la parola la situazione cambia radicalmente. Il senso letterale nella Commedia ha infatti – salvo rare eccezioni, come appunto quelle esaminate nel primo canto – una assoluta e concreta autosufficienza, il che non vieta che esso divenga anche il significante di un’allegoria. Questo nuovo tipo di allegoria – come abbiamo accennato nella precedente lettura  [DIV1a] – non impone che il senso allegorico sostituisca quello letterale (secondo la formula A al posto di L), ma consente invece che i due sensi si aggiungano l’uno all’altro, senza che l’autonomia del senso letterale sia compromessa, e anzi con un complessivo arricchimento del significato (secondo la formula A+L). In definitiva, il lettore della Divina Commedia non è costretto a ricercare continuamente il significato allegorico del poema, al fine di risolvere gli enigmi nascosti sotto il velo della lettera. Egli può gustare la lettura del poema con la certezza che il senso letterale risulterà sempre perfettamente autonomo; ma può anche approfondirla con la consapevolezza che, per la cultura medievale, nessuna realtà o evento significa solo se stessa, ma tutto allude sempre a una verità più profonda.

Alcune domande

Possiamo ora ricordare che Dante stesso, nell’Epistola a Cangrande [G30], invita a leggere il suo poema secondo l’allegoria dei teologi. Poiché in tale tipo di allegoria il senso letterale è vero, quest’affermazione non si limita a confermarci quanto abbiamo osservato circa la perfetta autosufficienza della lettera del poema. Essa ci dice molto di più. Nel brano che abbiamo esaminato, la verità del senso letterale non pone alcun problema: poiché esso si riferisce a fenomeni astronomici effettivamente osservabili nel cielo, nessun lettore può dubitare – almeno all’interno delle conoscenze dell’epoca – della loro esattezza e verità. Ma Dante, nella Commedia, non ci descrive solo il creato, ma anche e soprattutto l’oltretomba, dicendoci come è fatto e raccontando la condizione delle varie anime che in esso scontano le pene, si purificano dai peccati o ricevono il premio. Dovremo dunque pensare che Dante ritenesse letteralmente vero anche ciò che ci racconta di aver visto nell’aldilà? Dobbiamo credere che Inferno, Purgatorio e Paradiso fossero per lui non un’invenzione poetica, ma una realtà concreta, che per qualche ragione egli era in grado di conoscere e rivelare? E c’è di più: Dante ci narra di avere compiuto un viaggio lungo questi tre regni, in compagnia di Virgilio e di Beatrice. Dovremo dunque considerare letteralmente vero anche tale viaggio, e pensare che Dante abbia davvero creduto di essere andato, in carne e ossa, a visitare l’oltretomba? Se alcune di queste domande possono apparire bizzarre ai nostri occhi di moderni, cerchiamo di ricordare che nell’orizzonte della cultura medievale esse sono tutt’altro che azzardate. Dante stesso comunque ci invita, nell’Epistola a Cangrande, a credere alla verità letterale di quello che dice. Su questo tema, come è ovvio, gli studiosi dell’allegoria dantesca hanno elaborato ipotesi diverse. Cercheremo nel prossimo approfondimento di esaminarne alcune, e proveremo a proporre anche una risposta a queste domande. Con l’avvertenza che la nostra potrà essere solo una proposta interpretativa, una scelta di campo all’interno di un dibattito critico aperto; e che essa vuole costituire solo un primo approccio per chi, autonomamente, vorrà accostarsi a tale dibattito studiandolo in maniera più approfondita.


[1] Le variazioni, in realtà, esistono, ma potrebbero essere percepite solo osservando il cielo per migliaia di anni.

[2] L’ipotesi eliocentrica, nel mondo greco, era stata proposta da Aristarco di Samo (310-230 a.C.), definito per questo “il Copernico dell’antichità”.

[3] Il meccanismo dei cieli ruotanti intorno alla Terra è spesso descritto da Dante nel Paradiso. Occorre però precisare che la vera e definitiva sede dei beati non sta per Dante nei nove cieli “fisici” che girano intorno al nostro pianeta, ma nell’Empireo, un luogo immateriale e immutabile collocato fuori dallo spazio di tali sfere. La presenza dei beati nei cieli fisici si spiega come un mezzo per rendere visibili ai sensi fenomeni altrimenti impossibili da rappresentare come, ad esempio, i diversi gradi di beatitudine delle anime.

[4] A differenza degli altri tre cerchi, la cui posizione può essere segnata sulla volta celeste a prescindere  dal punto in cui si trova l’osservatore, l’orizzonte si determina a partire dal luogo in cui si trova l’osservatore. In questo  canto, l’orizzonte in questione è quello del Purgatorio, sulla cui vetta si trova Dante. Considerando però che la volta celeste compie ogni giorno un giro completo intorno alla terra, è chiaro che in ogni luogo, anche se in tempi diversi, ci sarà un momento in cui il sole (collocato, come si è detto, vicinissimo al punto gamma), dovrà  necessariamente attraversare l’orizzonte. È giusto aggiungere che l’interpretazione di questa perifrasi astronomica non è semplice; ne sono state proposte diverse spiegazioni, anche molto distanti da quella qui riportata.

[5] Gli incroci sono in effetti sei: 1) eclittica-equatore; 2) eclittica-coluro equinoziale; 3) eclittica-orizzonte; 4) coluro equinoziale-equatore; 5) coluro equinoziale-orizzonte; 6)  orizzonte-equatore.

[6] Charles Singleton, La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 47-48.

[7] L’espressione allegoria dei teologi non significa naturalmente che i teologi siano autori di questo tipo allegoria: essi si limitano a scoprirla nella realtà in quanto, come abbiamo detto, l’unico vero autore di essa è Dio. È necessario precisare che, in base a quanto Dante sostiene nel Convivio, l’allegoria dei teologi si trova propriamente nella Bibbia, e usa come significante i fatti storici (per esempio l’Esodo degli Ebrei dall’Egitto), mentre il caso che stiamo esaminando è tratto dal libro della Natura (qui si usano infatti come significanti gli astri e le creature). A noi sembra comunque legittimo usare il termine allegoria dei teologi anche in quest’ambito, perché i segni del libro della Natura e quelli del libro della Scrittura sono accomunati da due caratteristiche che li differenziano da quelli dell’allegoria poetica: essi sono segni reali e hanno come autore Dio stesso. La terminologia adottata per discutere questi argomenti può però variare da studioso a studioso. Singleton, ad esempio – uno dei massimi indagatori del tema dell’allegoria dantesca –  ritiene opportuno riservare il termine allegoria dei teologi ai casi in cui il significante sia un fatto storico (sull’esempio della Bibbia), e parlare di simbolismo quando invece il significante è costituito dagli elementi della natura.