La Divina Commedia
DIV5 - Dante e l’averroismo
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[Inferno, canto X, vv. 52-72]
Per coloro che non credettero all’immortalità dell’anima – di solito designati, nel Medioevo, con il termine “epicurei” – la legge del contrappasso stabilisce una pena per analogia: questi peccatori, «che l’anima col corpo morta fanno», saranno in eterno sepolti nelle tombe di un cimitero posto all’ingresso della città di Dite. I loro sepolcri saranno chiusi solo dopo il Giudizio universale; Dante li vede dunque scoperchiati, e può riconoscere dentro di essi alcuni illustri cittadini di Firenze. Tra questi c’è Farinata degli Uberti, capo ghibellino e nemico della famiglia Alighieri, e tuttavia ammirato dal poeta per le sue virtù civiche. Insieme a lui è sepolto il consuocero, il guelfo Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido. Farinata è una figura energica e quasi statuaria, che si mostra fuori dal sepolcro «da la cintola in sù» ed evidenzia, nelle parole e negli atti, la sua antica energia di combattente. Cavalcante appare invece come un vecchio fragile, che si alza a stento sulle ginocchia per poter guardare fuori dalla tomba. Riconosciuto Dante, gli chiede notizie del figlio, del cui ingegno si mostra ancora paternamente orgoglioso. Equivocando le parole di Dante, egli si convince erroneamente che Guido possa essere morto. Avendo in vita negato la trascendenza, questi peccatori restano legati a sentimenti e affetti puramente terreni. È per questo che Cavalcante, al pensiero della morte del figlio, viene meno dal dolore ricadendo sul fondo della tomba.

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata1. 54

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 57

piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?»2. 60

E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»3. 63

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena4. 66

Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?»5. 69

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora6. 72

[Inferno, canto XXVI, vv. 19-24]
L’ottavo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti tutti i peccati basati sulla frode contro chi non si fida, è diviso in dieci bolge. Nell’ottava sono puniti i consiglieri fraudolenti; l’anima di ciascuno di essi è interamente avvolta da una fiamma. Prima di descrivere la loro condizione, Dante-poeta informa il lettore che la colpa di questi peccatori è connessa con il loro “ingegno”. Questo termine designa un complesso di qualità intellettuali, in sé sicuramente positive, e delle quali Dante stesso sa di essere in possesso. Ma proprio per questa consapevolezza egli avverte ancor di più il bisogno di frenare la propria fiducia in esse: il dono di Dio, infatti, potrebbe condurlo a un folle e peccaminoso orgoglio e finirebbe per ritorcersi contro di lui, portandolo alla dannazione. La riflessione sull’“ingegno” costituisce un indizio di grande interesse per la comprensione dell’episodio di Ulisse (narrato in questo stesso canto). Non è un caso che di «altezza d’ingegno» parlasse, nel X canto, l’averroista Cavalcante (v. 59). Dante, consapevole dei rischi che comporta un’eccessiva fiducia nell’intelligenza umana, intende subordinare l’ingegno alla «virtù» (termine da intendere in senso propriamente religioso). Solo la sottomissione della propria intelligenza alla guida divina potrà consentirgli un giusto uso di questo dono.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21

perché non corra che virtù nol guidi7;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi8. 24

[Inferno, canto XXVI, vv. 85-142]
Tra le fiamme in cui sono avvolte le anime dei consiglieri fraudolenti ce n’è una che presenta un aspetto singolare: ha una punta biforcuta, in quanto al suo interno sono rinchiuse due anime. Si tratta di Ulisse e Diomede, eroi omerici che compirono insieme numerosi inganni (tra cui il più famoso è quello del cavallo di Troia) e che insieme sono ora destinati alla dannazione. Dante fornisce, del mito di Ulisse, una versione diversa da quella omerica (si ricordi che egli ignorava il greco e conosceva solo approssimativamente l’Iliade e l’Odissea). Il poeta immagina infatti che, dopo il ritorno a Itaca, Ulisse riparta per un ultimo viaggio oltre le colonne d’Ercole, alla scoperta dell’inesplorato emisfero australe. Ulisse convince i compagni alla partenza in nome del desiderio di conoscenza, che distingue l’uomo dagli animali, e dell’amore per la «virtù» (termine che, nelle sue parole, ha un significato molto diverso da quello religioso prima usato da Dante). Ma il «folle volo» di Ulisse è destinato a terminare con un naufragio: quando saranno vicini alla montagna del Purgatorio – luogo negato all’umanità dopo la cacciata dall’Eden – l’eroe e i suoi compagni, per volontà divina, saranno sommersi dalle acque.

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica9; 87

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando10 90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse11, 93

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta, 96

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore12; 99

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto13. 102

L'un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna14. 105

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi, 108

acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta15. 111

“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia 114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente16. 117

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”17. 120

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti18; 123

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino19. 126

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo20. 129

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, 132

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna21. 135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto22. 138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso»23.

[Purgatorio, canto I, vv. 115-136]
La stessa montagna presso cui Ulisse ha fatto naufragio sarà lo scenario del primo canto del Purgatorio. Dante vi perviene, però, per una via diversa, non fidando solo sul proprio ingegno, ma obbedendo al disegno divino che gli è stato svelato da Virgilio. Prima di iniziare l’ascesa al monte, il pellegrino si sottopone a un rito di purificazione. Virgilio lo cinge con un giunco, pianta flessibile che simboleggia l’umiltà. Il luogo in cui si svolge questa cerimonia non è mai stato raggiunto da alcun essere umano che abbia poi potuto far ritorno. Dante, sottolineando questa circostanza, marca la differenza tra la propria vicenda e quella di Ulisse, tra un viaggio che obbedisce ai decreti divini e un «folle volo» ispirato dal presuntuoso orgoglio dell’ingegno umano.

L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina24. 117

Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano25. 120

Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada, 123

ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose26:
ond’io, che fui accorto di sua arte, 126

porsi ver’ lui le guance lagrimose:
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose27. 129

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto28. 132

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque29:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque 135

subitamente là onde l’avelse30.

[Paradiso, canto X, vv. 133-138]
Nel cielo del Sole, la quarta delle sfere che girano intorno alla Terra, Dante incontra gli spiriti sapienti e i grandi dottori della Chiesa. Tra questi è san Tommaso d’Aquino, il dotto domenicano che commentò Aristotele conciliandone la dottrina con il cristianesimo. Dodici spiriti sapienti, ciascuno dei quali ha l’aspetto di una luce, e che sono disposti in forma di corona, compiono tre giri di danza intorno a Dante e Beatrice. San Tommaso nomina a Dante gli altri spiriti che formano la corona, e li indica uno dopo l’altro procedendo in senso orario. Lo spirito che si trova alla sua sinistra (l’ultimo, dunque, ad essere nominato) è quello di Sigieri di Brabante, un pensatore averroista che era stato scomunicato nel 1277, ma che ora Dante riabilita collocandolo nello stesso cielo di san Tommaso.

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo31: 135

essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
sillogizzò invidiosi veri32». 138


1 Allor… levata: Allora si alzò (surse) <fino> all’apertura (vista) scoperchiata <della tomba> un’anima (ombra) accanto a (lungo) questa (cioè a quella di Farinata degli Uberti, con il quale Dante aveva animatamente dialogato nei versi precedenti), <visibile> fino al mento: credo che si fosse sollevata (levata) sulle ginocchia. Il personaggio appena comparso è Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta stilnovista Guido; egli ha riconosciuto Dante – amico di Guido – dal precedente dialogo con Farinata. Di Cavalcante, Boccaccio dice che «seguì l’opinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse».

2 Dintorno… non è teco: Guardò intorno a me, come <se> avesse desiderio (talento) di vedere se qualcun altro era con me (meco: Cavalcante si aspetta di vedere il figlio Guido); e quando (poi che) la sua supposizione (sospecciar, dal latino suspicio) fu del tutto svanita (spento; quando ebbe cioè la certezza che Guido non si trovava lì), piangendo disse: «Se tu puoi andare attraverso (per) questo oscuro (cieco) luogo di pena (carcere) grazie all’altezza del tuo ingegno, dov’è mio figlio? E perché non è con te (teco)?». Anche adesso che sta all’Inferno Cavalcante – in coerenza con le convinzioni che nutriva da vivo – riesce a concepire lo straordinario viaggio di Dante solo come frutto delle sue qualità umane (l’«altezza d’ingegno») e non sa riconoscerne l’ispirazione divina. Di conseguenza si stupisce che il figlio Guido, non inferiore per ingegno all’amico, non lo accompagni nel viaggio.

3 E io a lui… disdegno: Ed io <risposi> a lui: «Non compio questo viaggio (non vegno) con le mie sole forze (Da me stesso); colui che mi attende là (Virgilio) mi conduce (mena) attraverso questo luogo (per qui), verso colei che (cui; il pronome è riferito a Beatrice, e rappresenta contemporaneamente il complemento di direzione retto dal verbo «mena» e il complemento oggetto del verbo «ebbe») il vostro Guido forse disprezzò (ebbe a disdegno). Il disprezzo di Guido non riguarda ovviamente la persona di Beatrice, ma ciò che essa allegoricamente rappresenta, ossia la teologia. Anche Guido infatti, come il padre, era di convinzioni “epicuree” (o, più precisamente, averroistiche). L’antica amicizia con Guido non aveva impedito a Dante, nel giugno 1300, di decretarne – in qualità di membro del consiglio dei Priori – il temporaneo esilio insieme ad altri esponenti estremisti delle fazioni in lotta. Guido era ancora in vita nel momento in cui Dante ha ambientato quest’episodio (ossia nell’aprile del 1300), ma era certamente morto quando il poeta scrisse la Commedia (la morte di Cavalcanti risale infatti all’agosto 1300, poco dopo il ritorno dall’esilio). Il colloquio con Cavalcante e il riferimento al suo «disdegno» verso Beatrice (e ciò che essa rappresenta) sembrano dunque rivelare una certa freddezza di Dante nei confronti di Guido.

4 Le sue parole… piena: Le sue parole e il genere (modo) della <sua> pena mi avevano già rivelato (letto) il nome di costui; perciò (però) la <mia> risposta fu così precisa (piena).

5 Di subito… lume: Alzatosi (drizzato) all’improvviso (Di subito) gridò: «Come hai detto? Egli non vive ancora? La dolce luce (lume) <del sole> non colpisce (fere) i suoi occhi?». Cavalcante conserva, anche nella tomba, l’atteggiamento che ebbe in vita e – come mostra anche il gesto repentino del drizzarsi – reagisce con l’intensità emotiva di un genitore ferito nei propri sentimenti più umani: non avendo egli mai creduto all’immortalità dell’anima, il sospetto che il figlio possa essere morto lo conduce alla disperazione.

6 Quando s’accorse… non parve fora: Quando si accorse di un certo indugio (dimora) che io facevo prima di rispondere (dinanzi a la risposta), ricadde disteso (supin) e più non fu visibile (parve) fuori <dalla tomba>. Dante è sorpreso delle domande di Cavalcanti: egli crede infatti che i dannati conoscano le cose del mondo, e non sa spiegarsi come Cavalcanti possa credere che il figlio sia morto. Nel seguito del canto, si chiarirà che i dannati conoscono il lontano futuro, ma ignorano o dimenticano il presente; ciò spiega l’errore di Cavalcante.

7 Allor mi dolsi… nol guidi: Allora mi addolorai, e ora torno ad addolorarmi (ridoglio), quando rivolgo (drizzo) la memoria (mente) a ciò che io vidi; e tengo a freno il mio ingegno più di quanto sono solito fare, affinché non si lasci andare (non corra) senza la guida della virtù. Lo spettacolo che appare nell’ottava bolgia conduce Dante a tenere a freno le proprie facoltà intellettuali («’ngegno»): l’episodio di Ulisse gli insegnerà infatti che l’intelligenza umana, non sottomessa a Dio, può portare alla dannazione.

8 sì che… nol m’invidi: <freno il mio ingegno> in modo che, se il favore degli astri (stella bona) o una causa (cosa) più perfetta (la grazia di Dio) mi ha dato un dono (ben: si riferisce alle sue qualità intellettuali, allo «’ngegno»), io stesso (ch’io stessi; il «ch’» è ripetizione del «che» del verso precedente) non lo (nol) vanifichi (m’invidi, lett. contenda a me stesso) <abusando di esso>.

9 Lo maggior corno… affatica: La punta (corno) più alta dell’antica fiamma (è la fiamma a due punte dentro cui stanno le anime di Ulisse e Diomede, eroi dell’antichità; la punta più alta corrisponde a Ulisse, il maggiore dei due personaggi) cominciò ad agitarsi (crollarsi) mormorando, proprio (pur) come quella <fiamma> che (cui) il vento scuote (affatica); «vento» è soggetto e «cui» complemento oggetto. A parlare, da qui alla fine del canto, sarà Ulisse.

10 Indi… disse: Poi, scuotendo (menando) la punta (cima) da una parte e dall’altra (qua e là), come se fosse la lingua che parlasse, emise una voce (gittò voce di fuori) e disse: «Quando…». Il fortissimo enjambement – posto alla fine della terzina – che separa la prima parola del discorso di Ulisse dalla sua prosecuzione suggerisce l’idea della fatica con cui l’anima chiusa nella fiamma pronuncia il suo discorso.

11 mi diparti’… la nomasse: mi allontanai (dipartii) da Circe, che mi trattenne (sottrasse) per più di un anno là presso Gaeta, prima che Enea chiamasse quel posto (la nomasse) in questo modo ()… La maga Circe, figlia del Sole, trattenne Ulisse nel suo viaggio di ritorno verso Itaca presso il monte Circeo. Il luogo avrebbe in seguito preso il nome di Gaeta per volontà di Enea, in onore della sua nutrice Caieta, che morì appunto lì. Dante segue in questi versi il racconto di Ovidio (Metamorfosi, XIV, vv. 154-440).

12 né dolcezza… del valore: né l’affetto paterno (dolcezza) per mio figlio (Telemaco), né la devozione filiale (pieta, dal latino pietas) per il vecchio padre (Laerte), né il doveroso (debito) amore coniugale che avrebbe dovuto rallegrare Penelope, poterono spegnere in me l’ardente desiderio che io ebbi di fare esperienza del mondo, dei vizi e delle virtù umane. L’uso dell’aggettivo «umani» (grammaticalmente concordato con «vizi», ma logicamente anche con «valore») assume grande rilevanza, perché specifica la natura puramente terrena della conoscenza ricercata da Ulisse.

13 ma misi me… non fui diserto: ma mi avviai (ma misi me; l’accento ritmico sulla quarta sillaba mette in evidenza il pronome personale di prima persona, in posizione di evidenza perché posposto al verbo e perché su di esso culmina anche l’allitterazione della m) attraverso (per) il profondo mare aperto, solo con una nave (legno, metonimia) e con quella piccola compagnia (compagna) dalla quale non fui abbandonato (diserto).

14 L’un lito e l’altro… intorno bagna: Vidi entrambe le coste (L’un lito e l’altro) <del Mediterraneo> fino alla Spagna e fino al Marocco, e <vidi> la Sardegna (l’isola de’ Sardi) e le altre isole che (complemento oggetto) quel mare (soggetto) circonda (intorno bagna).

15 Io e ’ compagni… Setta: Io e i miei compagni eravamo vecchi e stanchi (tardi, nel senso di rallentati, appesantiti dall’età) quando giungemmo a quello stretto passaggio (foce; si riferisce allo stretto di Gibilterra) dove Ercole segnò i suoi confini (riguardi) affinché nessun uomo li varcasse (l’uom più oltre non si metta); alla mia destra superai Siviglia (Sibilia; in effetti la città non si trova sul mare: il suo nome indica per sineddoche la regione dell’Andalusia), dall’altro lato avevo già superato Cèuta (Setta, città dell’Africa settentrionale). Lo stretto di Gibilterra veniva identificato con le colonne d’Ercole, considerate il confine del mondo esplorabile. È probabile che il mito medievale dell’insuperabilità delle colonne d’Ercole fosse connesso con l’occupazione araba della Spagna.

16 O frati… sanza gente: «O fratelli», dissi, «che attraverso (per) moltissimi (cento milia, lett. centomila, è un’iperbole) pericoli siete giunti all’<estremo> occidente, a questo così breve tempo in cui i sensi saranno desti (vigilia de’ nostri sensi, lett. veglia dei nostri sensi) che ci resta (è del rimanente, espressione ricalcata sul latino de reliquo est), concedete (non vogliate negar, litote) la conoscenza (esperienza), del mondo disabitato (sanza gente: si riteneva che oltre le colonne d’Ercole si stendesse l’emisfero delle acque, privo di terre emerse e non abitato da uomini) <che si ottiene> viaggiando verso ovest (di retro al sol, lett. seguendo il corso del sole).

17 Considerate… canoscenza: Riflettete sulla vostra natura (semenza): non foste generati (fatti) per vivere come animali (bruti), ma per perseguire la virtù e la conoscenza.

18 Li miei compagni… ritenuti: Con questo breve discorso (orazion picciola) resi (feci) i miei compagni così desiderosi (aguti) di intraprendere il viaggio (al cammino) che, in seguito (poscia) sarei riuscito a fatica a trattenerli.

19 e volta nostra poppa… dal lato mancino: e, avendo diretto la nostra poppa verso levante (nel mattino: essendo la barca indirizzata ad ovest, la poppa è volta verso est) usammo i remi come ali per il nostro viaggio (volo, metafora) temerario (folle: l’aggettivo indica l’atteggiamento di chi fa eccessivo affidamento nelle capacità umane), procedendo sempre di più verso la nostra sinistra (dal lato mancino; indica la direzione di sud-ovest).

20 Tutte le stelle… del marin suolo: La notte ci mostrava (vedea; metaforicamente è la notte stessa a “vedere”) già tutte le stelle dell’emisfero australe (altro polo), e <ci mostrava> il cielo dell’emisfero boreale (’l nostro) tanto basso che non si innalzava (non surgea più) sulla superficie (suolo) marina; il cielo visibile nel nostro emisfero, insomma, era ormai sotto la linea dell’orizzonte.

21 Cinque volte… non avea alcuna: Per cinque volte la luce (lo lume) sulla parte inferiore della luna (di sotto da la luna: dalla terra infatti è visibile solo l’emisfero inferiore della luna) era tornata ad essere visibile (c’erano dunque state cinque lune piene, quindi erano trascorsi cinque mesi), e per altrettante <volte> si era oscurata (casso: c’erano insomma state cinque lune nuove), dal momento in cui avevamo iniziato l’audace viaggio (alto passo), quando ci apparve una montagna, scura (bruna) per la distanza, e mi parve tanto alta, quanto non ne avevo mai vista nessuna. Si tratta della montagna del Purgatorio, sulla cui cima si trova il Paradiso terrestre.

22 Noi ci allegrammo… il primo canto: Noi gioimmo, ma (e) presto (tosto) <la nostra allegria> si trasformò (tornò) in dolore (pianto), perché dalla terra sconosciuta (nova) nacque una tempesta (turbo), che (e) colpì (percosse) la parte anteriore (’l primo canto) della nave (legno).

23 Tre volte… richiuso: Per tre volte <la tempesta> la (il, riferito al «legno») fece girare insieme a tutte le acque; alla quarta <volta, fece> alzare (levar) la poppa verso l’alto (in suso) e <fece> andare (ire) verso il basso la prua (prora), come piacque a Dio (altrui), finché il mare si richiuse sopra di noi.

24 L’alba… marina: Il chiarore dell’alba si sostituiva all’oscurità della notte (l’ora mattutina: il mattutino è l’ultima delle ore canoniche notturne) che scompariva (fuggia) davanti ad esso, in modo che da lontano riconobbi il tremolare del mare.

25 Noi andavam… invano: Noi procedevamo per la pianura solitaria (è il terreno che si estende dai piedi della montagna del Purgatorio fino alla riva del mare), come chi ritorna verso la strada perduta, in modo tale (che), fino a quando non l’ha raggiunta (’nfino ad essa), ha l’impressione di camminare (ire) inutilmente.

26 Quando… pose: Quando giungemmo (fummo) in un luogo in cui (là ’ve) la rugiada resiste al (pugna col) sole, per il fatto di trovarsi (per essere) in un punto (in parte) dove, a causa dell’ombra (ad orezza) si scioglie (dirada) con difficoltà (poco), il mio maestro (Virgilio) pose con delicatezza entrambe le mani aperte (sparte) sull’erbetta. Virgilio si appresta a purificare Dante, lavandogli il volto con la rugiada del Purgatorio. Anche Enea, prima di entrare nei Campi Elisi, si cosparge di acqua (Eneide, VI, v. 636).

27 ond’io… mi nascose: per cui io, che fui pronto a comprendere (accorto) il suo operato (di sua arte), avvicinai (porsi) verso (ver) lui le guance bagnate di lacrime: lì mi scoprì interamente (mi fece tutto discoverto) quel colore <del volto> che l’inferno mi aveva nascosto. Il viaggio nell’Inferno ha coperto Dante di sporcizia; sul piano allegorico questo è dunque un rito di purificazione dal peccato.

28 Venimmo poi… poscia esperto: Giungemmo poi sulla spiaggia (lito) deserta, che non vide mai navigare le sue acque da un uomo che abbia poi (poscia) fatto l’esperienza di ritornare. L’unico uomo che avesse tentato di avvicinarsi alla montagna, Ulisse, era stato infatti travolto dalla tempesta. A differenza del viaggio di Ulisse, quello di Dante è destinato a un esito felice perché non fa affidamento esclusivo sull’ingegno umano, ma nasce dall’umile sottomissione alla volontà di Dio.

29 Quivi… altrui piacque: Qui <Virgilio> mi cinse <con un giunco>, come piacque a Dio (altrui). Il consiglio di cingere Dante con un giunco era stato dato a Virgilio da Catone; il giunco è una pianta flessibile, che si lascia piegare dai flutti del mare, e rappresenta allegoricamente la virtù dell’umiltà. L’espressione «com’altrui piacque» potrebbe riferirsi a Catone, ma è meglio riferirla a Dio, della cui volontà Catone è l’esecutore; l’espressione è infatti – non certo a caso – identica a quella di Inferno, XXVI, 141, utilizzata per designare la volontà divina che determinò il naufragio di Ulisse.

30 oh maraviglia… l’avelse: oh, miracolo! perché (ché) quell’umile pianta che egli scelse, rinacque identica (cotal) immediatamente (subitamente) nello stesso luogo () dal quale (onde) egli l’aveva strappata (avelse, latinismo). Il giunco che rinasce da dove è stato strappato è una reminiscenza virgiliana: accade lo stesso al ramo d’oro staccato da Enea, su suggerimento della Sibilla, prima di entrare nell’oltretomba (cfr. Eneide, VI, 143-144). Allegoricamente il rinascere dell’«umile pianta» può significare che da un atto di umiltà se ne genera un altro; l’immagine di rinascita si collega inoltre al tema della Resurrezione, fondamentale per la poesia del Purgatorio (anche perché l’ascesa al monte comincia proprio a Pasqua).

31 Questi… venir tardo: Questa, con la quale (onde) il tuo sguardo (riguardo) ritorna verso di me <completando il giro>, è la luce che avvolge un’anima che, immersa in pensieri dolorosi (gravi), credette di arrivare troppo tardi alla morte. Sigieri di Brabante, pensatore averroista, fu protagonista di una disputa teologica contro san Tommaso, in cui sosteneva, con argomenti filosofici, la mortalità dell’anima individuale. Per conciliare tale posizione con la fede sostenne la tesi della doppia verità, che gli consentiva, come credente, di rinnegare ciò che la filosofia aveva dimostrato. Nel 1277 il suo pensiero fu comunque condannato dal vescovo di Parigi; seguì anche la scomunica. Sigieri fu ucciso a Orvieto nel 1283. Il v. 135 potrebbe far riferimento a un passo del De anima intellectiva, in cui Sigieri sostiene che «vivere sine litteris mors sit et vilis hominis sepultura» [«vivere senza studi letterari è morte e vile sepoltura dell’uomo»]; insomma, l’impossibilità di proseguire i propri studi sembrò a Sigieri peggiore della morte.

32 essa… invidiosi veri: questa è l’anima eternamente beata di Sigieri che, tenendo lezione (leggendo) nella Via (Vico) della Paglia (de li Strami: è il nome italianizzato dela Rue du Fouarre, la strada di Parigi dove si trovavano le scuole di filosofia e dove Sigieri insegnava) sostenne sotto forma di sillogismo (sillogizzò) verità che gli procurarono persecuzioni (invidiosi veri). Per il significato di questa inclusione di Sigieri tra i beati, si rimanda all’approfondimento.


DIV5 - Il testo e il problema
IL TESTO
Parole e concetti chiave
I passi che presentiamo in questo approfondimento appartengono a diversi canti della Commedia. A una lettura superficiale, essi potrebbero apparire tra loro slegati. Tuttavia alcuni concetti e parole chiave, che in essi ricorrono, possono dimostrare la loro intrinseca connessione.

Inferno, X e XXVI: l’“ingegno” e la “virtù”
Tale connessione è particolarmente evidente se si esaminano i primi due brani, tratti rispettivamente dal X e dal XXVI canto dell’Inferno. In entrambi ricorre, sempre con riferimento alla persona di Dante, il sostantivo “ingegno”. Nel X canto Cavalcante dei Cavalcanti, uomo di convinzioni epicuree e padre di Guido, riconosce le qualità intellettuali di Dante (al punto da supporre che solo a tali qualità, e senza alcun intervento soprannaturale, si debba il suo privilegio di visitare l’Inferno). All’inizio del XXVI canto è lo stesso Dante-poeta a fare riferimento al proprio «’ngegno», avvertendo che qui, più che altrove, gli sarà necessario tenere a freno questo dono della natura, e sottometterlo alla «virtù». Già nel canto X, alla lusinghiera asserzione di Cavalcanti circa l’ingegno di Dante, quest’ultimo aveva risposto ridimensionando i propri meriti («Da me stesso non vegno») e sottolineando come il suo viaggio fosse frutto di un’ispirazione superiore, rifiutata invece da Guido. Si può dunque capire come qui Dante, indicando nella «virtù» il freno all’orgogliosa fiducia nel proprio «’ngegno», faccia riferimento a un concetto di natura religiosa, connesso con l’ispirazione divina del poema. Solo quest’ultima, infatti può garantire il buon esito di un’opera che potrebbe, altrimenti, apparire temeraria o addirittura sacrilega.


Inferno, XXVI: virtù, viaggio, follia, punizione («com’altrui piacque»)
Dopo la descrizione dell’ottava bolgia (che abbiamo qui omesso), compare nel XXVI canto il personaggio di Ulisse. Nella versione che del mito dà Dante, egli è protagonista di un viaggio temerario (il «folle volo»), intrapreso in nome della fiducia nella natura umana, per desiderio di conoscenza e di «virtute». È però evidente che la «virtute» di cui parla Ulisse è cosa diversa dalla «virtù» invocata pochi versi prima da Dante: se infatti, nella prospettiva del poeta cristiano, la «virtù» costituisce il necessario freno alla pericolosa esuberanza dell’ingegno, in Ulisse l’invocazione alla virtù conduce a un’azione temeraria, al superamento dei confini solennemente segnati da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta». Fidando nella propria «virtù» puramente umana Ulisse giunge a un luogo vietato all’umanità, ossia alla montagna del Purgatorio; ma il suo viaggio termina in un naufragio, di cui è evidente il significato di punizione divina («com’altrui piacque»).
Diverse parole-chiave di quest’episodio sembrano sottolineare l’implicito rapporto (di analogia e di contrapposizione) tra il viaggio di Ulisse e quello di Dante. Il viaggio di Ulisse è infatti designato come «folle volo» (v. 125); nel secondo canto dell’Inferno, quando Dante manifestava a Virgilio i propri dubbi circa l’opportunità di intraprendere il proprio cammino, egli manifestava appunto il timore che tale viaggio potesse essere «folle» [qLDIV2a, v. 35]. Ulisse indica il proprio cammino come «alto passo» (v. 132). E, sempre nel secondo canto dell’Inferno [qLDIV2a, v. 12], Dante usa la stessa espressione per designare la strada su cui sta per incamminarsi.

Purgatorio, I: un rito di umiltà («com’altrui piacque»)
Nel primo canto del Purgatorio, il luogo è di nuovo quello del naufragio di Ulisse. Dante però vi giunge con intenzioni e spirito diversi rispetto a quelli dell’eroe greco. Libero dall’eccessivo orgoglio per le proprie qualità umane, egli si sottopone anzi a un rito di purificazione, cingendosi di un giunco (simbolo di umiltà). Non è certo un caso se la formula «com’altrui piacque» ritorna anche alla fine di questo canto: si tratta di un indizio che obbliga il lettore a mettere a confronto il diverso destino dei due viaggiatori, giunti allo stesso luogo ma pervenutivi per vie così diverse. Né sembra un caso che la perifrasi con cui negativamente si allude a Ulisse («omo, che di tornar sia poscia esperto»; Purgatorio, I, v. 132) si concluda sulla stessa parola che designava la più ardente ispirazione di Ulisse (quella, cioè, di «divenir del mondo esperto»: Inferno, XXVI, v. 98).

Paradiso, X: un beato averroista
Solo l’ultimo dei quattro brani che abbiamo proposto (e cioè il breve riferimento a Sigieri contenuto nel X canto del Paradiso) non appare collegato ai precedenti da richiami testuali o dalla ripresa di concetti chiave. Sottolineiamo però che il passo risulta interessante perché in esso Dante colloca tra i beati un pensatore averroista, Sigieri di Brabante. L’importanza di questo passo ai fini del nostro approfondimento potrà essere chiarita solo al termine del discorso.

IL PROBLEMA
Dante e l’averroismo: gli studi di Maria Corti
Come ha dimostrato Maria Corti in un importante saggio1, il filo che congiunge questi passi sta proprio nel comune riferimento alla dottrina filosofica del cosiddetto “aristotelismo radicale” (termine con cui la Corti designa quello che viene solitamente chiamato “averroismo”). Ciò risulta evidente per il X canto dell’Inferno (tra i cui protagonisti c’è appunto un averroista come Cavalcante dei Cavalcanti) e per il X del Paradiso. Meno evidenti – ma assai più suggestivi – sono i riferimenti all’averroismo contenuti nel canto di Ulisse. Il contributo della Corti ha consentito di dimostrare come, nelle parole dell’eroe greco, siano presenti sottili e significativi riferimenti a questa scuola filosofica. Evidentemente Dante, che nel canto X aveva pronunciato una condanna severa dell’averroismo, avvertiva ancora la necessità di fare i conti con questa filosofia, alle cui tentazioni di orgoglio intellettuale non doveva egli stesso sentirsi del tutto estraneo. Il primo canto del Purgatorio – con i suoi richiami all’episodio di Ulisse e l’opposizione che consente di delineare tra il viaggio dell’eroe greco e quello di Dante – conferma la fondamentale importanza di questa tematica per la poesia della Commedia. L’episodio di Sigieri dimostra come il rapporto con l’averroismo non potesse chiudersi con un semplice rifiuto, ma dovesse arrivare a una soluzione più aperta, capace di recuperare il contributo di questa corrente di pensiero nella comune ricerca umana della verità.

Influssi averroistici sull’opera di Dante
Per chiarire l’importanza dell’aristotelismo radicale nella formazione di Dante, non basta fare solo riferimento alla sua amicizia con Guido Cavalcanti (che costituisce comunque un modello per il giovane Dante, come dimostra tutta la prima parte della Vita nuova). Maria Corti ha dimostrato che pensatori appartenenti a questa corrente erano quasi certamente presenti nella “biblioteca” di Dante. Il poeta era infatti particolarmente attento alle “avanguardie” del proprio tempo, «anche se operavano in una perigliosa area speculativa». A testimoniare l’influenza di questa corrente di pensiero sta in particolare il De vulgari eloquentia, in cui si combinano diverse influenze filosofiche. Tra di esse c’anche quella dei logici “modisti”; il massimo rappresentante di questa corrente, Boezio di Dacia, costituisce – insieme a Sigieri di Brabante – uno dei principali esponenti dell’aristotelismo radicale.

Sui contatti tra Dante e gli aristotelici radicali si possono avanzare diverse supposizioni. È possibile che Dante abbia preso parte a Firenze ad incontri cui partecipavano studiosi provenienti da Parigi (dove l’aristotelismo radicale era particolarmente diffuso). È possibile che la «donna gentile», di cui il Dante della Vita nuova si innamora dopo la morte di Beatrice, possa indicare proprio una filosofia, lontana dalla teologia, che a un certo punto della sua vita ha attratto l’interesse del poeta. Quel che è certo, comunque, è che il De vulgari eloquentia contiene spunti di teoria linguistica riconducibili a Boezio di Dacia. Alcuni passi dell’opera dantesca sembrano infatti contenere citazioni testuali dai Modi significandi di questo studioso2. Né è da escludere che anche altre opere di Dante risentano di influssi della stessa matrice. Alcuni studiosi – nota ancora la Corti – sostengono che Dante debba a Sigieri di Brabante «la chiarezza nel separare sia, in ambito speculativo, la filosofia dalla teologia sia, in ambito politico, il potere laico da quello ecclesiastico».

L’averroismo nella Commedia: il rifiuto (Inferno, X)
Quando Dante scrive il X canto dell’Inferno, egli mostra un chiaro rifiuto dell’aristotelismo radicale. Quest’ultimo è rappresentato da Cavalcante, il cui riferimento all’«altezza d’ingegno», secondo la Corti, «è ben pertinente dentro l’universo dell’aristotelismo radicale, dove quasi ad ogni pagina si incontra la celebrazione della forza e dell’altezza dell’ingegno: per Sigieri e per Boezio solo con l’intellectus speculativus si sale nel sapere e si raggiungono le più alte conquiste». A questa celebrazione orgogliosa dell’ingegno, Dante contrappone l’ortodossa successione Virgilio-Beatrice, ossia ragione-teologia.

L’averroismo nella Commedia: una figurazione simbolica (Inferno, XXVI)
Tra i dannati dell’Inferno che non sono vissuti nel Duecento, Ulisse è di gran lunga il più importante. In apparenza, la sua collocazione tra i consiglieri di frode sembrerebbe dovuta solo ai molteplici inganni da lui orditi (tra cui il più famoso è quello del cavallo di Troia). Ma a questi inganni Dante accenna solo in due terzine (vv. 59-63), mentre il centro del canto è senza dubbio l’episodio del viaggio. Dovremo dunque pensare che il viaggio di Ulisse costituisca una vicenda a sé stante e non intimamente connessa alla sua dannazione? O dobbiamo addirittura arrivare ad opporre il Dante-poeta (che celebra e ammira il coraggio e l’intraprendenza mostrata da Ulisse nell’ultimo viaggio) al Dante-teologo (che lo deve collocare all’inferno per espisodi che, alla sua fantasia, sono in sostanza apparsi secondari)?
Se si segue il ragionamento della Corti, una conclusione del genere appare errata. Al contrario, è proprio nell’episodio centrale del canto che va trovata la ragione profonda della dannazione di Ulisse e della sua collocazione in questa bolgia. La studiosa ipotizza infatti che Ulisse, sul piano figurale, incarni i «sublimi curiosi», ossia «quel gruppo di pensatori tesi a mettere, come si è visto, in crisi con una vis speculativa originale e quasi autonoma il sapere tradizionale»: in altre parole, proprio quegli aristotelici radicali cui Dante si era tanto ispirato nei suoi studi precedenti alla Commedia. I riscontri forniti dalla Corti a sostegno della sua tesi sono assai convincenti. Le parole più celebri di Ulisse («fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza») appaiono addirittura come traduzione della Quaestio V dei Modi significandi di Boezio di Dacia. Il primo verso risulta preso dall’affermazione «videtur homo sine sapientia esse quasi brutum animal» [«è chiaro che l’uomo senza sapienza è quasi un animale bruto]; il secondo risente dell’affermazione del filosofo secondo cui la natura umana si realizza «in operatione boni et cognitione veri» (il primo termine è traducibile con «virtute», mentre il secondo corrisponde evidentemente a «conoscenza»).
A conferma di questa convinzione, la Corti dimostra che l’intera struttura del canto si chiarisce rileggendolo alla luce della trama dei richiami al contesto culturale dell’epoca. Ad esempio, «il motivo del viaggio marino e del colare a picco della nave è precisamente riferito in ambito cristiano ai filosofi che si allontanano dalla fede». Inoltre «Dante conosce senza dubbio la Epistola di S. Giacomo, nella quale ci sono almeno due metafore applicate alla lingua, quest’organo pericoloso della oralità su cui il medioevo dei predicatori ha costruito la teoria dei “peccati della lingua”». Per San Giacomo «la lingua è fuoco, la lingua è nell’uomo quello che è il timone della nave e se non è mossa da Dio, la lingua è mossa dal Maligno3 […]. È chiaro che con un simile punto di vista chi parla, magari da una cattedra parigina ponendosi a una distanza eccessiva dalle codificazioni dogmatiche, parla per bocca del Maligno, ha dunque la lingua appuntita e di fuoco». I riferimenti a San Giacomo possono illuminare molti dei motivi poetici di questo canto: la navigazione, l’immagine della lingua e l’immagine del fuoco sono infatti tre elementi fondamentali della figura di Ulisse e delle pene dell’ottava bolgia.
Ma perché Dante colloca Ulisse proprio in quel punto dell’Inferno, assai più in basso degli eretici? Secondo la Corti – che riprende gli studi di Juri Lotman – «c’è una logica profonda nel fatto che i peccati che consistono in azioni ingiuste siano considerati da Dante meno gravi dei casi di un uso falso dei segni: delle parole (la calunnia, l’adulazione, i consigli fraudolenti), dei valori (falsificatori delle monete, alchimisti, ecc.), dei documenti (falsificatori), della fiducia (ladri), delle idee e dei segni di merito (ipocriti e simoniaci). Ma peggiori di tutti sono i trasgressori degli accordi e dei doveri, i traditori. Le azioni ingiuste causano un unico male. La rottura dei rapporti segnici già fissati distrugge le basi stesse della società umana e fa della terra il regno di Satana, l’Inferno». Ne segue la necessità di una condanna per «i filosofi che separano la conoscenza scientifica da quella etica e religiosa, mettendo in crisi l’intero sistema segnico culturale». Questa condanna, però, non impedisce a Dante di avvertire ancora il fascino di quei pensatori che hanno tanto segnato il suo tempo e perfino la sua opera.

L’averroismo nella Commedia: la rivalutazione di Sigieri (Paradiso, X)
Con l’episodio di Ulisse si verifica, dunque, non più il «rifiuto netto» dell’aristotelismo radicale, quanto piuttosto «un’affascinante figurazione simbolica». Nel X canto del Paradiso troveremo infine una «motivata rivalutazione dell’ultimo Sigieri», pronunziata addirittura da S. Tommaso, ossia da un pensatore che aveva animatamente disputato con lui, sostenendo tesi radicalmente diverse a proposito dell’immortalità dell’anima. Secondo la Corti, in questo duello dialettico i due pensatori finirono per influenzarsi reciprocamente, al punto che Sigieri arrivò ad abbandonare le proprie convinzioni sull’esistenza di un’unica (e super-personale) anima razionale (il monopsichismo). Nell’ultimo Sigieri si ha dunque una evoluzione verso l’ortodossia e un avvicinamento progressivo alle posizioni tomistiche. Ma il rapporto è bilaterale, perché «Sigieri influenza profondamente col suo razionalismo la formazione di S. Tommaso». Quando Dante scrive il Paradiso sono passati molti anni dall’uccisione violenta di Sigieri (avvenuta a Orvieto nel 1283). Ormai Sigieri ha assunto «il ruolo simbolico di rappresentante del pensiero filosofico laico», ed è possibile misurare meglio i suoi punti di convergenza con S. Tommaso. Dunque «Sigieri merita […] di trovarsi nei cieli ed è giusto e coerente con la storia umana e la storia della filosofia che sia S. Tommaso a presentarlo […]. Nelle sventure della sua vita Sigieri ebbe dalla sorte un grande dono, l’omaggio intellettuale dei due uomini più grandi del suo secolo, S. Tommaso e Dante». Chiarire fino in fondo le ragioni di quest’omaggio non è semplice, né è operazione che si possa compiere in questa sede. Resta il fatto che Dante, giunto alla sua ultima fatica, ha voluto – come osserva Bruno Nardi – «rialzare la memoria d’un onesto pensatore, grandemente stimato dai suoi contemporanei, la quale giaceva sotto il peso dei colpi inferti dall’invidia, e mostrarci riconciliati nel cospetto della verità eterna due grandi pensatori a lui cari, senza settarismo di scuola».


1 Maria Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Sansoni, 1981.

2 Secondo la Corti, la definizione dantesca del volgare “aulico” contenuta nel De vulgari eloquentia è ripresa quasi testualmente dalla definizione che Boezio di Dacia, nei Modi significandi, dà dei prima principia. Per Dante, infatti, nella regia («aula») che è la «comunis domus» di ogni parte del regno, deve trovarsi «quicquid tale est ut omnibus sit comune nec proprium ulli». Queste parole di Dante sembrano ricalcate sulla definizione che Boezio di Dacia dà dei prima principia come «omnia ea, quae sunt omnibus communia et nulli propria». Quando poi Dante definisce cosa sia per lui il volgare «curiale», dice che le sue “membra” sono unite gratioso lumine rationis; in questo passo egli sembra rifarsi al concetto di Boezio di Dacia secondo cui la struttura razionale di tutti gli idiomi (constructio) obbedisce ratione modorum significandi, ossia alle «regole generali di una razionale organizzazione delle parti del discorso».

3 Possiamo osservare che quest’immagine malefica della lingua di fuoco può richiamare, per contrasto, l’immagine di una lingua di fuoco benefica: quella dello Spirito Santo disceso sugli Apostoli.