La Divina Commedia
DIV7 - Predestinazione, libero arbitrio, profezia
*
[Paradiso, canto XVII, vv. 1-99]
I canti XV-XVII del Paradiso sono occupati da uno degli incontri più importanti dell’intera Commedia: quello tra Dante e il suo trisavolo Cacciaguida, vissuto nel XII secolo in una Firenze assai diversa da quella conosciuta dal poeta, e morto durante la seconda crociata (in una data anteriore al 1148). Il canto XV è occupato, in buona parte, dalla rievocazione nostalgica della Firenze antica, che «si stava in pace, sobria e pudica». Nel canto successivo Cacciaguida fornisce a Dante altre informazioni sulla sua famiglia e sulla decadenza della nobiltà fiorentina. Nel canto XVII, infine, Dante apprende quale sarà il suo destino di esule. Egli si accosta all’antenato con atteggiamento di timorosa riverenza, ricordando le numerose profezie di sventura che gli sono state rivolte nel corso del viaggio. E Cacciaguida, confermando queste predizioni, annuncia anche le imprese mirabili del futuro signore di Verona, Cangrande Della Scala, che darà a Dante generosa ospitalità.

Qual venne a Climené, per accertarsi
di ciò ch’avea incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi1; 3

tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito2. 6

Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa3; 9

non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca»4. 12

«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in triangol due ottusi, 15

così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti5; 18

mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto, 21

dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura6; 24

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa;
ché saetta previsa vien più lenta7». 27

Così diss’io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa8. 30

Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 33

ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso9: 36

«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno: 39

necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende10. 42

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia11. 45

Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene12. 48

Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca13. 51

La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa14. 54

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta15. 57

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale16. 60

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle17; 63

che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia18. 66

Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso19. 69

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello20; 72

ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo21. 75

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue22. 78

Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte23; 81

ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni24. 84

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute25. 87

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici26; 90

e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente27. 93

Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose28. 96

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie29». 99


1 Qual venne a Climenè… ai figli scarsi: Con quello stato d’animo con cui (Qual) si recò da Climene, per avere notizie certe sulle maldicenze che aveva udito contro di sé, colui che rende ancora <oggi> i padri poco condiscendenti (scarsi) verso i (ai) figli… La similitudine – che, come si vedrà dalla terzina successiva, descrive l’atteggiamento timoroso con cui Dante si rivolge al suo trisavolo Cacciaguida – richiama il mito di Fetonte, figlio di Apollo (identificato con il Sole) e di Climene. Costui, avendo sentito insinuare che Apollo non era il suo vero padre, si recò timoroso dalla madre per esserne rassicurato. Chiese poi conferma al padre che, per convincerlo del fatto che egli era realmente suo figlio, gli concesse addirittura il privilegio di guidare il suo carro infuocato attraverso il cielo; ma Fetonte, inesperto, finì per bruciare la terra e fu punito da Giove che lo precipitò nell’Eridano (fiume da identificare probabilmente con il Po). Da quest’episodio trarrebbe le sue origini la proverbiale riluttanza dei padri a soddisfare le richieste dei figli. Qui Dante-Fetonte – che si interroga sulle sue origini e sul suo destino – si trova insomma tra Beatrice-Climene e Cacciaguida-Apollo.

2 tal era io… mutato sito: simile a lui (tal, per l’atteggiamento di timorosa reverenza) ero io, e questa mia condizione era avvertita (tal era sentito, lett. tale ero considerato) sia da Beatrice, sia dalla santa luce (lampa, lett. fiaccola; si ricordi che delle anime del Paradiso è visibile solo la luminosità) che prima, a causa mia, aveva mutato di posizione (sito). Nel canto XV Cacciaguida, accorgendosi dell’arrivo di Dante, gli si era fatto incontro abbandonando il luogo in cui si trovava (il braccio di una enorme croce luminosa, formata appunto dagli spiriti beati).

3 Per che mia donna… interna stampa: Per cui (per che) la mia donna (Beatrice) disse: «Sfoga (Manda fuor) l’ardore (vampa, metafora) del tuo desiderio, in modo che esso esca con una forma adeguata al (segnata bene de la) sentimento interiore (interna stampa, metafora)».

4 non perché… l’uom ti mesca: «non <te lo chiedo> perché la conoscenza che noi <anime del Paradiso> abbiamo possa aumentare a causa delle tue parole (per tuo parlare), ma perché tu ti abitui (t’ausi) a esprimere il tuo desiderio (la sete, metafora), affinché esso venga esaudito (sì che l’uom ti mesca, lett. affinché ti si versi da bere; consueta forma impersonale affine a quella francese con on)». Le parole di Dante – superflue dal punto di vista pratico, perché i beati del Paradiso conoscono i suoi pensieri guardando in Dio – avranno dunque il carattere rituale di una preghiera.

5 O cara piota… son presenti: «O cara radice (piota, lett. pianta del piede) mia, che ti innalzi (insusi è un neologismo dantesco; si tratta di un verbo parasintetico, derivato dall’avverbio “suso” con l’aggiunta del prefisso “in-” e, naturalmente, delle desinenze verbali; Dante inventa spesso questo tipo di verbi, che si possono formare aggiungendo prefissi e suffissi, oltre che agli avverbi, anche ai nomi e agli aggettivi) al punto che, così come le menti umane (terrene) vedono chiaramente che in un triangolo non ci possono essere (non capere, latinismo lessicale e sintattico, in quanto l’uso dell’infinito ricalca quello delle proposizioni oggettive latine) due <angoli> ottusi (come insegna la geometria euclidea, la somma degli angoli di un triangolo è di 180°, e ogni angolo ottuso è maggiore di 90°), altrettanto chiaramente (così) vedi gli eventi umani (le cose contingenti: l’aggettivo indica, nel lessico filosofico, le cose che esistono ma non sono necessarie; in sostanza gli eventi che si verificano, ma potrebbero non verificarsi) prima (anzi) che essi siano attuati (sieno in sé), poiché tu osservi (mirando) quel punto per il quale tutti i tempi sono presenti (perifrasi per indicare l’intelletto divino)…». Le anime beate conoscono il futuro perché lo scorgono in Dio, per il quale il tempo non scorre come per noi mortali. Non esiste infatti, nell’eternità, differenza tra presente, passato e futuro.

6 mentre ch’io era… colpi di ventura: «mentre ero unito (congiunto) a Virgilio, su per il monte che purifica (cura) le anime (il Purgatorio) e mentre discendevo nel mondo dei dannati (defunto), mi furono dette sulla mia vita futura parole che mi turbano (gravi), sebbene (avvegna che) io mi senta ben stabile (tetragono, metafora: il termine indica propriamente una figura geometrica con quattro angoli, come il cubo, caratterizzata appunto dalla solidità e stabilità) di fronte ai colpi della fortuna (ventura)».

7 per che… vien più lenta: «per cui il mio desiderio (la voglia mia) sarebbe soddisfatto di sapere quale sorte (fortuna, termine ovviamente da intendere come vox media [DIV3]) mi si avvicina (appressa); poiché una freccia (saetta) prevista in anticipo arriva meno improvvisa (più lenta)». L’epifonema di quest’ultimo verso significa che una sventura, se conosciuta per tempo, può essere meglio sopportata. L’adagio deriva probabilmente da una traduzione latina delle favole di Esopo in uso nelle scuole medievali: «praevisa minus laedere tela solent» [«le frecce previste sono solite fare meno male»].

8 Così diss’io… la mia voglia confessa: Così io dissi a quella stessa anima (luce: Cacciaguida) che mi aveva parlato prima; e, come aveva voluto Beatrice, il mio desiderio (voglia) fu espresso (confessa).

9 Né per ambage… proprio riso: Non attraverso espressioni oscure come quelle degli oracoli (ambage, latinismo; Virgilio – Eneide, VI, 99 – usa questo termine per designare le parole della Sibilla Cumana), nei quali la gente pagana (folle, perché lontana dalla vera fede) si invischiava (metafora derivata dal lessico della caccia: il vischio era una sostanza appiccicosa usata per catturare gli uccelli) un tempo (già), prima che fosse ucciso l’Agnello di Dio che toglie i peccati <del mondo> (cfr. Giovanni, I, 29), ma attraverso parole chiare e con preciso discorso (latin, qui usato nel senso generico di linguaggio, e non per designare specificamente la lingua in cui parla Cacciaguida) mi rispose quell’amore paterno (metonimia che designa l’antenato), nascosto (chiuso) e <al tempo stesso> visibile (quanto al suo sentimento di gioia) per la luce (riso) di cui si avvolgeva (suo proprio). Il riso dei beati determina un incremento di intensità luminosa che rivela il loro stato d’animo, ma impedisce di riconoscerli per i loro tratti “fisici” come avveniva per le anime di Inferno e Purgatorio.

10 La contingenza… giù discende: «L’insieme degli eventi contingenti (la contingenza, cfr. nota 5), che non si estende fuori dai limiti (del quaderno, metafora che letteralmente indica un volume di quattro fogli; in Dante il numero quattro simboleggia in genere la terra [DIV14b]) del vostro mondo materiale (de la vostra matera), è tutta presente (dipinta) alla vista (cospetto) eterna <di Dio>: tuttavia <questo insieme di eventi> non trae da qui (quindi, ossia appunto dalla vista di Dio che li conosce in anticipo) la necessità, più di quanto una nave che scende giù per un fiume impetuoso (torrente) <tragga necessariamente il suo corso> dallo sguardo (viso) in cui essa si riflette (specchia)». Lo scendere di una nave lungo un torrente è causato dallo scorrere dell’acqua e non è per nulla influenzato dallo sguardo dello spettatore che la osservi. Allo stesso modo, il fatto che Dio – per il quale, come si è detto, non vige la distinzione tra presente, passato e futuro – sia spettatore di tutti gli eventi del mondo contingente, e li conosca ancor prima che essi accadano, non implica che essi siano da lui necessariamente predeterminati e non elimina, di conseguenza, il libero arbitrio dell’uomo e la sua responsabilità.

11 Da indi… ti s’apparecchia: «Da qui (Da indi, ossia dal «cospetto eterno» di Dio), così come viene all’orecchio una dolce armonia da un organo, mi viene alla vista (da intendere metaforicamente, come vista intellettuale) il tempo <futuro> che ti si prepara (apparecchia)». L’idea di dolcezza implicita nella similitudine non va naturalmente riferita al contenuto della visione del futuro, piena di eventi dolorosi per Dante, ma alla possibilità in sé di conoscere con chiarezza tutti i tempi, che inerisce alla condizione della vita beata.

12 Qual si partio… partir ti convene: «Come Ippolito dovette andare in esilio (si partio, forma con epitesi) da Atene per colpa della matrigna (noverca, latinismo) spietata e perfida, altrettanto ingiustamente (tal) ti sarà necessario (convene) andare in esilio da Firenze». Ippolito, figlio di Teseo, fu calunniato dalla matrigna Fedra per non aver ceduto alle sue voglie; il v. 47 riprende l’ovidiano «sceleratae… novercae» (Metamorfosi, XV, 497). La similitudine, che accosta Dante a Ippolito, significa che anche le accuse che porteranno il poeta all’esilio sono infondate e calunniose. Assai probabile è l’identificazione della Chiesa di Roma con la «noverca» Fedra: nel canto precedente, infatti, la Chiesa era accusata di essere stata «a Cesare noverca» (Paradiso, XVI, v. 59).

13 Questo si vuole… tutto dì si merca: «Questo si desidera e questo già si trama (cerca), e presto <il progetto> sarà attuato (verrà fatto) da chi (a chi, complemento d’agente) lo prepara (ciò pensa) nel luogo in cui continuamente (tutto dì) si fa mercato di (si merca) Gesù Cristo (ossia nella curia simoniaca del papa [DIV9a])». Fu infatti Bonifacio VIII a favorire il rientro dei Neri a Firenze e l’esilio dei Bianchi. Già nel 1300 erano in atto le sue trame, che si sarebbero completate tra il 1301 e il 1302. Si tratta di una profezia post eventum.

14 La colpa seguirà… al ver che la dispensa: «L’accusa di colpevolezza, secondo la fama (in grido), sarà lanciata come al solito contro la parte offesa (Dante, vittima di ingiustizia, sarà cioè calunniato come solitamente avviene a chi cade in disgrazia; il concetto, derivato da Boezio, è già in Convivio, I, 3: «la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata» [G23]); ma la vendetta <di Dio> sarà testimonianza alla Verità <di Dio> che la infliggerà (che la dispensa)». Cacciaguida predice che Dio renderà giustizia agli oppressi. Si è molto discusso, senza arrivare a conclusioni definitive, sul preciso significato di questi versi, che potrebbero riferirsi allo schiaffo di Anagni e alla morte di Bonifacio VIII (1303), o alla morte violenta di Corso Donati (1308).

15 Tu lascerai… pria saetta: «Tu lascerai ogni cosa amata (diletta, latinismo) più caramente, ed è questa quella freccia (strale) che l’arco dell’esilio scaglia (saetta) per prima (pria)». La metafora si può rendere con è questa la prima conseguenza dolorosa dell’esilio.

16 Tu proverai… l’altrui scale: «Tu proverai quanto ha sapore amaro (sì come sa di sale, metafora; il «sì» ha funzione rafforzativa) il pane mangiato alla mensa di altri (altrui, con riferimento all’umiliazione di chi deve mendicare il cibo), e quanto è umiliante (duro) cammino (calle, latino callus, strada o via) lo scendere e il salire per le scale di altri (per cercare protezione o ospitalità)».

17 E quel che più… in questa valle: «E quello che più ti peserà (graverà le spalle, metafora) sarà la compagnia malvagia e dissennata (scempia) insieme alla quale tu cadrai in questo abisso <di dolore> (valle, metafora che indica l’esilio, con riferimento alla liturgica “valle di lacrime”)». Allude alla coalizione di fuorusciti Bianchi e Ghibellini che Dante frequentò nei primi anni di esilio, ma che abbandonò nel 1304 a seguito della temeraria decisione di tentare un’irruzione violenta in città, conclusasi con la sanguinosa sconfitta della Lastra (cui allude la successiva terzina).

18 che tutta ingrata… la tempia: «<compagnia> che si dimostrerà (si farà) tutta ingrata, tutta folle e piena d’odio (matta ed empia) contro di te; ma, poco dopo (appresso), questa compagnia (ella), e non tu, avrà per questo comportamento (ne) la tempia arrossata <di sangue>».

19 Di sua bestialitade… per te stesso: «Il suo modo di agire (processo) fornirà la prova della sua stoltezza (bestialitade); per cui (sì che) sarà (fia) per te motivo d’onore (bello) aver fatto partito (parte) per conto tuo (per te stesso».

20 Lo primo tuo refugio… il santo uccello: «Il tuo primo rifugio e la tua prima dimora ospitale (ostello) sarà <offerto dalla> liberalità (cortesia) del grande settentrionale (gran Lombardo) che <nel suo stemma> porta sulla scala la santa aquila (santo uccello; l’aggettivo si spiega con il fatto che l’aquila è simbolo dell’Impero, e quest’ultimo è direttamente voluto da Dio)». Questo personaggio è da identificare, con ogni probabilità, in Bartolomeo Della Scala, signore di Verona dal 1301 al 1304, il quale, avendo sposato Costanza d’Antiochia, pronipote di Federico II, inserì appunto l’aquila imperiale nel suo stemma araldico. Si ricordi che “lombardi”, nel Medioevo, erano detti tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale, compresi veneti e toscani. La permanenza di Dante a Verona è attestata con certezza negli anni 1312-1318, periodo in cui il signore di Verona era Cangrande; ma il v. 70 fa pensare che Dante abbia fatto un primo soggiorno a Verona poco dopo la rottura con i fuorusciti fiorentini, presumibilmente nel 1304, sotto Bartolomeo. Non se ne hanno però notizie sicure.

21 ch’in te… più tardo: «il quale avrà nei tuoi confronti una così benevola attenzione (riguardo) che, tra voi due, nel donare (fare) e nel richiedere, arriverà primo quello che, in genere (negli altri) è più lento». Mentre di solito l’esule è costretto a supplicare prima di ottenere un beneficio, in questo caso il benefattore concederà i suoi doni prima ancora che gli siano richiesti.

22 Con lui vedrai… l’opere sue: «Insieme a lui vedrai colui che, alla sua nascita, fu segnato (’mpresso) dall’influsso di questo pianeta (questa stella: si riferisce a Marte, nel cui cielo è ambientato il canto, che si credeva predisponesse gli uomini alle imprese militari) con tale forza, che le sue azioni saranno degne di nota». Il personaggio di cui si parla è Can Francesco Della Scala detto Cangrande, fratello minore di Bartolomeo, ancora giovanissimo nel 1300, ma di cui Cacciaguida profetizza mirabili imprese. Si ricordi che in questo cielo sono premiati gli spiriti che combatterono per la fede; l’influsso di Marte impresso in Cangrande lo caratterizza dunque come una figura attiva e, al tempo stesso, fedele a Cristo. Cangrande fu signore di Verona dal 1312 al 1329. Nel 1312 l’imperatore Arrigo VII lo nominò suo vicario, facendone il difensore in Italia delle residue speranze ghibelline. Nonostante le importanti imprese compiute, l’opera storicamente documentata di Cangrande non appare gloriosa al punto da giustificare l’enfasi profetica dei versi di Dante. Questi sembrano esprimere piuttosto una speranza futura e non si configurano dunque, stavolta, come profezia post eventum.

23 Non se ne son le genti… di lui torte: «I popoli (le genti) non si sono ancora accorti di lui (ne) a causa della giovane (novella) età, poiché solo per nove anni questi cieli (rote) hanno compiuto rotazioni (son… torte) intorno a lui ». La perifrasi indica semplicemente che Cangrande, nato nel 1321, ha nove anni.

24 Ma pria che ’l Guasco… d’affanni: «Ma prima che il <papa> guascone (Clemente V, al secolo Bertrand de Got, che portò la sede papale da Roma ad Avignone) inganni il grande (alto) Arrigo VII, saranno evidenti (parran) i segni (faville, metafora che letteralmente vale scintille) della sua virtù, <che si mostreranno> nel disprezzare (non curar) il denaro (l’argento) e nel resistere alle fatiche (d’affanni, retto ancora da «non curar»)». Nel 1312 Clemente V, dopo avere attirato in Italia l’imperatore Arrigo VII, si rivolse contro di lui. Già prima di quell’anno, le virtù di Cangrande avevano destato grandi aspettative tra i contemporanei.

25 Le sue magnificenze… le lingue mute: «Le sue manifestazioni di virtù (magnificenze) saranno allora (ancora) tanto () conosciute che <perfino> i suoi nemici non potranno tacerne (tener le lingue mute)».

26 A lui t’aspetta… ricchi e mendici: «Riponi speranza (t’aspetta) in lui e nei suoi benefici; per opera sua (per lui, complemento d’agente) cambierà <vita> (fia trasmutata) molta gente, poiché ricchi e poveri (mendici) invertiranno le loro condizioni». A Cangrande sembrano qui attribuiti i poteri di distribuzione dei beni materiali tipici della Fortuna [DIV3]; la giustizia delle sue azioni sembra inoltre destinata a ristabilire l’ordine dei meriti sovvertito dai papi simoniaci, che hanno agito «calcando i buoni e sollevando i pravi» (Inferno, XIX, v. 105 [DIV9a]). Fonte di questi versi è il Magnificat, in cui Maria dice che Dio «deposuit potentes de sede et exaltavit humiles; esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes» [«ha rovesciato i potenti dai troni e ha esaltato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi»] (Luca, I, 52-53).

27 e portera’ne… fier presente: «e porterai di lui (portera’ne) <altre profezie> scolpite nella memoria (mente), e non le rivelerai»; e disse cose che appariranno incredibili <perfino> a coloro che saranno (fier) presenti <quando si realizzeranno>». Quest’ultima profezia di Cacciaguida è piuttosto indeterminata, come necessariamente deve avvenire per le profezie ante eventum.

28 Poi giunse… son nascose: Poi aggiunse (giunse): «O figlio, queste sono le spiegazioni (chiose) di quello che ti fu predetto (cioè delle «parole gravi» ascoltate durante il viaggio); ecco i pericoli (le ’nsidie) che ti attendono (son nascose) nel volgere di pochi anni (giri).

29 Non vo però… lor perfidie: Non voglio (vo’) per questo (però) che tu porti odio (invidie, verbo alla seconda persona singolare; la costruzione con il complemento di termine è ricalcata su quella latina di invideo) ai tuoi concittadini (vicini), poiché (poscia che) la tua vita è destinata a prolungarsi (s’infutura, altro verbo parasintetico; cfr. nota 5) molto più in là della punizione delle loro colpe. Cacciaguida sembra garantire a Dante che egli potrà vedere la giusta punizione dei suoi nemici.

30 Il concetto era già in Boezio, De consolatione philosophiae, V, 4: «Sicut scientia praesentium rerum nihil his, quae fiunt, ita praescentia futurorum nihil his quae ventura sunt, necessitatis importat» [«Come la conoscenza delle cose presenti non comporta in alcun modo la necessità delle cose che avvengono, così la prescienza del futuro non comporta la necessità delle cose che in futuro avverranno»].

31 Si tratta di un’anima che espia il peccato di ira, un uomo di corte vissuto prima di Dante, sul quale però possediamo poche notizie [DIV12].

32 Voi che vivete… di necessitate: Voi uomini (Voi che vivete) attribuite (recate) solo (pur) al cielo che sta in alto (suso) ogni causa, proprio (pur) come se <il cielo> facesse ruotare (movesse) insieme con sé (seco) secondo necessità (di necessitate) ogni cosa (tutto). Con l’espressione «cielo» si intendono in questo passo gli astri, che si riteneva influissero sui destini degli uomini; ma il discorso di Marco Lombardo, in quanto riguarda la libertà dell’agire umano e dunque la responsabilità, è pertinente anche alla questione che stiamo qui affrontando.

33 Se così fosse… per male aver lutto: Se fosse così (cioè se le azioni umane fossero determinate da una forza superiore) sarebbe (fora) distrutto in voi <uomini> il libero arbitrio, e non sarebbe cosa giusta avere gioia (letizia) in cambio del bene <compiuto> e pena (lutto) in cambio del male.


DIV7 - Il testo e il problema
IL TESTO
Al centro del Paradiso
Pochi canti della Commedia lasciano risonanze durature quanto questo. In esso si concentrano alcuni dei motivi poetici fondamentali dell’opera: il tema autobiografico dell’esilio e quello etico-politico dell’innocenza offesa; la fiducia invincibile in un futuro di giustizia garantito da Dio, ma che dovrà concretamente attuarsi in questa vita; l’estraneità al meschino odio di fazione, che consente a Dante di prendere le distanze dagli esponenti più facinorosi del suo partito, ma che non si traduce in una rinuncia alle proprie ragioni e in un indiscriminato (e sostanzialmente ingiusto) perdono per i colpevoli; e infine l’alto impegno etico della verità che il poeta si assumerà nei versi conclusivi del canto [DIV8]. Nella memoria del lettore, poi, sono destinati a rimanere scolpiti alcuni versi di questo canto: come quello contenente la martellante allitterazione sul pane altrui che «sa di sale», o il dettaglio umiliante sulle «altrui scale» che l’esule è costretto a scendere e salire. La particolare importanza del canto è confermata anche da un dato strutturale facilmente verificabile: esso si colloca infatti alla metà esatta del Paradiso.
Non si può certo pretendere, soprattutto di fronte a un momento di poesia così alta, di esaurire in questa trattazione tutte le implicazioni del passo. Il nostro intento è di soffermarci semplicemente su due questioni: il problema della prescienza divina – ossia la concezione secondo cui Dio conosce gli eventi del mondo prima ancora che essi accadano – in rapporto al problema del libero arbitrio; e la funzione della profezia in Dante, che qui affronteremo principalmente (ma non esclusivamente) considerando l’uso che il poeta ne fa come espediente narrativo.

Libero arbitrio e prescienza divina
Come è noto, le anime incontrate da Dante nell’aldilà possiedono la conoscenza del futuro. Questo privilegio, per i peccatori dell’Inferno, si associa alla dimenticanza del presente, sicché esso spesso si traduce per i dannati in una causa di ulteriore sofferenza. Nel Paradiso, invece, la conoscenza del futuro si spiega con la capacità concessa ai beati di leggere ogni cosa in Dio, e costituisce pertanto parte essenziale della loro felicità (cfr. nota 11).
Tale condizione, comunque, non è che un riflesso della conoscenza del futuro da parte di Dio. Quest’ultima ha implicazioni di enorme importanza. Dante tiene infatti a non confondere la prescienza divina con una predeterminazione necessaria degli eventi del mondo. Il concetto è illustrato in questo canto con una similitudine: se vediamo una nave scendere lungo un fiume impetuoso, nessuno potrà dire che il suo corso sia determinato dal nostro sguardo. Allo stesso modo, non è lo sguardo di Dio a determinare l’agire umano30. Quest’ultimo è dunque libero, perlomeno nell’ambito della «contingenza», cioè di quel complesso di eventi, propri appunto del mondo terreno, che hanno possibilità di verificarsi o no. Tale libertà concessa all’uomo, anche se non può incidere sui destini ultimi stabiliti dalla Provvidenza divina, implica la piena responsabilità morale di ciascuno di noi. La questione è affrontata teoricamente nel canto XVI del Purgatorio, in cui Marco Lombardo31 discute la diffusa credenza secondo cui gli influssi astrali determinerebbero il carattere degli uomini e le azioni della loro vita.

Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate32.

Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto33.

Se le azioni umane fossero interamente determinate da un’istanza superiore alla volontà dei singoli, insomma, non sarebbe giusto premiare le azioni buone e punire quelle malvagie. Marco Lombardo non nega del tutto gli influssi astrali, ma ne ridimensiona l’effetto sostenendo che essi possono orientare i comportamenti umani, ma non possono mai deciderli. Gli uomini sono infatti dotati dell’intelletto, che consente loro di distinguere il bene dal male, e sono dotati del «libero voler». La volontà umana si inganna spesso correndo dietro finte immagini di bene; ma, se essa è ben nutrita, può giungere a riconoscere che il vero bene sta in Dio e può agire per raggiungerlo.
Questa visione non deterministica può conciliarsi con la prescienza divina – nella prospettiva adottata da Dante – solo se si riflette sul concetto di tempo. La nostra esperienza ci presenta un tempo che scorre linearmente e nel quale si distinguono un presente, un passato e un futuro. Ma nel Paradiso – Dante fa sua l’impostazione che al problema aveva dato san Tommaso – tale distinzione non ha senso: Dio è infatti «il punto / a cui tutti li tempi son presenti»; e “passato” e “futuro”, nell’eternità, sono espressioni prive di senso. Si può dunque concludere che Dio, «più che determinare il futuro, lo constata nel presente» (Sermonti) e che tale concezione consente di affermare la prescienza divina senza escludere la libertà umana. Ma si può aggiungere che quest’equilibrio, nel pensiero filosofico cristiano, non si sarebbe sempre mantenuto. I teologi successivi infatti – che del resto trovavano in sant’Agostino spunti per un’interpretazione più restrittiva della libertà umana – continuarono a dibattere per secoli sull’argomento. E proprio la dottrina della predestinazione, come è noto, sarebbe risultata uno dei punti centrali della Riforma protestante.

Le profezie della Commedia
L’ultimo dei tre canti di Cacciaguida, abbiamo detto, rappresenta il momento in cui le diverse profezie disseminate nel poema vengono riepilogate e sintetizzate. È opportuno precisare che quando parliamo di profezia, nella Commedia, ci riferiamo ordinariamente a un semplice espediente narrativo. Dante infatti ambienta il suo immaginario viaggio nell’anno 1300, ma scrive l’opera, come è ovvio, alcuni anni dopo. Tutti gli eventi successivi al 1300 e anteriori alla stesura del poema – stesura, peraltro, protrattasi molto a lungo – sono dunque presentati, nella finzione poetica, come profezie. E tali sono per Dante personaggio, mentre si tratta, per Dante poeta, di fatti già vissuti. Si parla dunque, per questo genere di predizioni, di profezie post eventum. Riepiloghiamo qui, brevemente, le principali profezie della Commedia che abbiano attinenza con il tema dell’esilio di Dante.

Ciacco e i fatti del 1301-1302 (Inferno, VI, vv. 64-72)
Nel momento in cui è ambientato il viaggio di Dante, a Firenze sta per verificarsi una serie di importanti cambiamenti politici. Fin dal 1280 la parte guelfa era divisa in due schieramenti contrapposti, i Bianchi e i Neri. Delle due fazioni, la seconda era più vicina alla curia papale e disposta a favorirne gli interessi temporali. In un primo momento (maggio 1300), a seguito di alcuni fatti di sangue – a un certo Ricoverino dei Cerchi, di parte Bianca, venne tagliato il naso –, i Bianchi punirono i Neri cacciandoli dalla città. Ma successivamente (1301-1302) la situazione si capovolse e fu la parte Bianca – quella cui aderiva Dante – ad essere costretta all’esilio. Questa svolta politica fu determinata dall’intervento di Bonifacio VIII. Il papa, in un primo momento, sembrava tenersi al di sopra degli schieramenti e inviò un suo emissario, Carlo di Valois, con la funzione di “paciaro”. Ma nel 1301 Bonifacio mise in pratica il suo progetto di spalleggiamento dei Neri. Proprio mentre un’ambasceria dei Bianchi – di cui faceva parte lo stesso Dante – si trovava a Roma per difendere le proprie ragioni davanti al pontefice, Carlo di Valois favorì il rientro armato dei Neri. Ne seguirono vendette e proscrizioni. Dante fu condannato in contumacia: gli venne inflitto l’esilio e gli venne minacciata, in caso di rientro, la morte sul rogo.
Diversi accenni a queste vicende sono contenuti nel VI canto dell’Inferno. Qui un goloso, Ciacco, allude a una serie di fatti che Dante poeta ha già vissuto, ma che per Dante personaggio devono ancora verificarsi. Dopo aver ricordato la «lunga tencione» che da anni divideva Bianchi e Neri, egli dice infatti le due parti «verranno al sangue» (è un accenno agli incidenti del 1300) e che i Bianchi («parte selvaggia») cacceranno gli altri «con molta offensione» (vv. 64-66). Ciacco predice poi che la parte Bianca cadrà presto (1301), e che l’altra riuscirà a prevalere con l’aiuto di un personaggio che, al momento, sembra tenersi in equilibrio tra i due schieramenti («con la forza di tal che testé piaggia», v. 69: chiara l’allusione a Bonifacio VIII). Annuncia infine che quest’assetto si manterrà a lungo: la parte Nera rimarrà al potere «lungo tempo» e schiaccerà l’altra «sotto gravi pesi» (vv. 70-71).

Farinata degli Uberti (Inferno, X, vv. 49-81)
Nel X canto dell’Inferno Dante narra l’incontro con Farinata degli Uberti, capo di parte ghibellina vissuto alcuni decenni prima di lui, e fieramente avversato dagli antenati di Dante. Il poeta gli rinfaccia, in un duro scambio polemico, il fatto che il partito ghibellino – ­ definitivamente espulso da Firenze nel 1267 – non ha imparato l’«arte» di rientrare in patria dall’esilio (v. 51). E Farinata gli risponde con una profezia: prima di cinquanta mesi (e cioè entro il 1304) Dante imparerà anche lui quant’è difficile questo rientro («quanto quell’arte pesa», v. 91). Farinata allude ai tentativi dei fuorusciti fiorentini di tornare in città, conclusisi con la sanguinosa disfatta della Lastra proprio nel giugno 1304.

Brunetto Latini (Inferno, XV, vv. 61-72)
Nel canto XV dell’Inferno, tra i sodomiti, Dante incontra il suo maestro Brunetto Latini. Questi gli predice l’ingratitudine dei fiorentini, che diverranno nemici di Dante a causa del suo «ben far» (v. 64). Ma aggiunge anche che Dante otterrà in futuro un «onore» (v. 70) che non potrà mai essere intaccato dalla depravazione di costoro.

Vanni Fucci (Inferno, XXIV, vv. 140-151)
Nel canto XXIV dell’Inferno, tra i ladri, Dante incontra il pistoiese Vanni Fucci. Questi anticipa, nella consueta forma della profezia post eventum, i fatti degli anni 1301-1306. Dapprima i Neri – con l’aiuto dei Bianchi fiorentini ancora al potere – saranno cacciati da Pistoia; in seguito i Bianchi saranno cacciati da Firenze; infine si scatenerà una terribile lotta (la guerra della Taglia Guelfa, 1302-1306) tra la Pistoia bianca e la Firenze nera, che si concluderà con la caduta definitiva dei Bianchi. «E detto l’ho – conclude impietosamente il ladro – perché doler ti debbia!» (v. 151).

Currado Malaspina (Purgatorio, VIII, vv. 121-139)
Nell’VIII canto del Purgatorio Dante, in una valletta nella quale si ferma a trascorrere la notte, incontra Currado Malaspina, esponente di una famiglia della Lunigiana famosa per le sue tradizioni di cortesia e liberalità. Currado gli predice che la buona opinione che Dante ha della sua famiglia – finora semplicemente affidata al sentito dire – gli sarà confermata, prima che passino sette anni, con argomenti ben più solidi che le parole degli altri («con maggior chiovi che d’altrui sermone», v. 138). Si tratta di un’allusione a un soggiorno in Lunigiana cui l’esule Dante sarà costretto nel 1306.

Oderisi da Gubbio e Provenzan Salvani (Purgatorio, XI, vv. 133-142)
Il miniatore Oderisi da Gubbio, incontrato tra i superbi (Purgatorio, canto XI) racconta a Dante la storia di un grande signore senese, Provenzan Salvani, costretto a espiare già in vita il suo orgoglio umiliandosi e mettendosi a mendicare. Oderisi parla in modo oscuro; ma passerà poco tempo, e i fiorentini faranno sì che anche Dante possa comprendere sulla sua pelle – e possa spiegare agli altri – cosa significhi una simile umiliazione («ma poco tempo andrà, che’ tuoi vicini / faranno sì che tu potrai chiosarlo», vv. 140-141).

Bonagiunta e Gentucca
Nel canto XXIV del Purgatorio, in cui incontra il poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani, Dante – senza ben comprendere il senso delle sue parole – gli sente mormorare il nome di una donna («non so che “Gentucca”», v. 37). Si tratterebbe di una donna lucchese che ha offerto ospitalità al poeta nel corso del suo esilio.

Virgilio, Beatrice e Cacciaguida
Dante-personaggio sa già, fin dalle prime tappe del suo viaggio, che il senso di tutte queste profezie dovrà essergli rivelato in Paradiso. Quando aveva appena ascoltato le parole di Farinata (Inferno, X, 127-132) egli non aveva nascosto il suo turbamento. E allora Virgilio, alzando il dito, lo aveva ammonito a tenere a mente quella profezia, destinata a rivelare il suo significato solo quando egli sarebbe stato al cospetto di Beatrice («quando sarai dinanzi al dolce raggio / di quella il cui bell’occhio tutto vede / da lei saprai di tua vita il viaggio», vv. 130-132). Come apprendiamo dall’episodio di Cacciaguida, in effetti non è Beatrice in persona a chiarire a Dante quale sarà il suo «viaggio». È proprio lei però a delegare questa funzione al trisavolo di Dante, cosa che lo stesso poeta sottolinea ai vv. 29-30: «e come volle / Beatrice, fu la mia voglia confessa». Il canto XVII del Paradiso, dunque, costituisce il punto di arrivo di un meccanismo narrativo preparato fin dall’inizio del poema e costruito su un uso sapiente della profezia post eventum. E tuttavia, la funzione della profezia in questo canto non si esaurisce in questo.

IL PROBLEMA
L’altra forma della profezia
Proprio nel canto in cui convergono tutte le profezie retroattive della Commedia, ci troviamo di fronte a un nuovo aspetto del problema. Possiamo rendercene conto riflettendo sulla figura di Cangrande e sulle imprese future che gli sono attribuite, e che solo in parte sono riscontrabili con eventi storici avvenuti prima della stesura del poema. È vero che Dante fa più volte riferimento, parlando al futuro, a fatti storici già avvenuti (il suo esilio, la sconfitta della Lastra, l’ospitalità degli Scaligeri, l’inganno ordito da papa Clemente V contro Arrigo VII, le prime «scintille» della virtù di Cangrande). Ma è altrettanto vero che, delineando la figura di questo giovane signore, egli afferma di aver avuto notizia di mirabili imprese future che, per il momento, è necessario tacere (vv.91-93). Si tratta, stavolta, di imprese future non solo per il pellegrino che finge di aver viaggiato nel 1300, ma anche per il poeta che, parecchi anni dopo, sta scrivendo questi versi.
A questo punto dell’opera, insomma, la profezia post eventum si salda con la profezia ante eventum. Una profezia rivolta davvero al futuro e, proprio per questo, naturalmente più oscura e indeterminata. Non deve sorprendere il fatto che Dante usi il modulo della profezia anche oltre le certezze assicurategli dalla finzione narrativa. Va intanto considerato che, nella sua risentita coscienza morale, il tema del proprio esilio non ha mai avuto natura puramente individuale ma è stato presentato, fin dall’inizio, come profonda offesa della giustizia1; ciò attribuisce di per sé alla sua figura una dimensione che travalica quella puramente autobiografica. D’altra parte gli accenti profetici (da intendere stavolta in senso proprio) non sono infrequenti nella Commedia; per rendersene conto, basterà riflettere sui toni utilizzati nell’opera per trattare il tema della degenerazione della Chiesa [DIV9a, DIV9b], tema peraltro storicamente connesso assai da vicino con la disgrazia personale del poeta. L’impronta profetica, infine, è presente nel poema fin dal primo canto: l’annuncio della venuta del Veltro, il misterioso riformatore destinato a scacciare la lupa [DIV1a], costituisce appunto a tutti gli effetti una profezia ante eventum.
Alcuni commentatori, anzi, hanno visto in Cangrande proprio il Veltro. In effetti sulla figura del signore scaligero, che peraltro Arrigo VII avrebbe nominato suo vicario imperiale, possono ben concentrarsi le stesse aspettative di riforma morale e politica che Dante riferiva nel primo canto all’avvento dell’allegorico cane da caccia. Di più: il «non curar d’argento» di questo canto (v. 84) può richiamare il «non ciberà terra né peltro» di Inferno, I, 103. Ma non è possibile, proprio per la forma indeterminata di questa profezia (nonché per l’evidente distanza tra la redazione di questo canto e quella, assai più antica, del I canto dell’Inferno), dimostrare con certezza una simile identificazione.
Tuttavia l’esaltazione di Cangrande, che è del tutto eccezionale per la poesia dantesca, non può certo essere spiegata attribuendo al poeta un atteggiamento bassamente cortigiano. Ciò che si può affermare, al contrario, è che intorno alla figura di Cangrande si concentra la sostanza realmente profetica del poema dantesco. Non sembra certo casuale il fatto che le sue future imprese siano annunciate con le parole che, nel Magnificat, Maria usa per parlare del Signore (cfr. nota 26). Tale sostanza profetica consiste nella convinzione che debba esserci, già su questa terra, un futuro di restaurazione della giustizia violata; e nella parallela certezza, vissuta da Dante come un doloroso privilegio, di essere chiamato, in quanto poeta ispirato da Dio, ad annunciare questo futuro e ad aprirgli la strada tra gli uomini con l’arma profetica della parola [DIV8].


1 Oltre che alla Commedia, si può fare riferimento in tal senso alla canzone Tre donne intorno al cor mi son venute [G20] e in parte anche al Convivio [G23].