La Divina Commedia
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DIV9a - Contro la Chiesa corrotta: le invettive | |
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[Inferno, canto XIX, vv. 1-57]
L’ottavo girone dell’Inferno è occupato dalle anime dei fraudolenti. I loro peccati sono i più gravi in assoluto, poiché consistono in un uso distorto dell’intelligenza che Dio ha donato all’uomo. Una particolare categoria di fraudolenti occuperà anche il successivo e ultimo girone dell’Inferno, il nono: si tratta di quanti hanno tradito chi più si fidava di loro (i parenti, la patria, gli ospiti, i benefattori). L’ottavo girone è diviso in dieci bolge (Malebolge): nella prima sono puniti ruffiani e seduttori; nella seconda gli adulatori; nella terza i simoniaci; nella quarta gli indovini; nella quinta i barattieri; nella sesta gli ipocriti; nella settima i ladri; nell’ottava i consiglieri fraudolenti (tra cui Ulisse [DIV5]); nella nona i seminatori di discordie; nella decima i falsari. Le bolge formano un sistema di dieci cerchi concentrici. Ciascuna di esse ha due pareti rocciose collegate da un ponte; la parete esterna è più ripida di quella interna. Attraversando il ponte, per poter affrontare la discesa dal lato più agevole, Dante e Virgilio possono osservare dall’alto la condizione dei dannati. In seguito, scendendo lungo la parete interna, essi hanno la possibilità di avvicinarsi e di parlare con loro. Il XIX canto è ambientato nella terza bolgia. Qui sono puniti i simoniaci, ossia coloro che fecero mercato dei benefici ecclesiastici. Tra di essi ci sono numerosi papi. Protagonista dell’episodio è Niccolò III (che fu pontefice dal 1277 al 1280); ma Dante, attraverso un brillante espediente narrativo, trova il modo di annunciare la dannazione di Bonifacio VIII, non ancora morto nel momento in cui è ambientato il poema. O Simon mago, o miseri seguaci per oro e per argento avolterate, Già eravamo, a la seguente tomba, O somma sapienza, quanta è l’arte Io vidi per le coste e per lo fondo Non mi parean men ampi né maggiori l’un de li quali, ancor non è molt’anni, Fuor de la bocca a ciascun soperchiava Le piante erano a tutti accese intrambe; Qual suole il fiammeggiar de le cose unte «Chi è colui, maestro, che si cruccia Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace: Allor venimmo in su l’argine quarto: Lo buon maestro ancor de la sua anca «O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, Io stava come ’l frate che confessa Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio [Paradiso, canto XXVII, vv. 10-66] Nell’ottavo cielo del Paradiso tutti i beati cantano un inno liturgico. Dante si trova al cospetto di quattro grandi santi, tra i quali san Pietro. A un tratto la luce che avvolge quest’ultimo (il quale, come tutte le anime di questa cantica, non ha aspetto corporeo) si colora di rosso. All’improvviso il coro tace e lo stesso san Pietro rivolge una durissima invettiva contro la Chiesa corrotta. Dinanzi a li occhi miei le quattro face e tal ne la sembianza sua divenne, La provedenza, che quivi comparte quand’io udi’19: «Se io mi trascoloro, Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, fatt’ha del cimitero mio cloaca Di quel color che per lo sole avverso E come donna onesta che permane così Beatrice trasmutò sembianza; Poi procedetter le parole sue «Non fu la sposa di Cristo allevata ma per acquisto d’esto viver lieto Non fu nostra intenzion ch’a destra mano né che le chiavi che mi fuor concesse, né ch’io fossi figura di sigillo In vesta di pastor lupi rapaci Del sangue nostro Caorsini e Guaschi Ma l’alta provedenza, che con Scipio e tu, figliuol, che per lo mortal pondo |
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1 O Simon mago… state: O Simon mago, o miserabili <tuoi> seguaci che, o avari (e voi rapaci; la congiunzione «e» è paraipotattica: essa sembra introdurre una coordinata, ma il verbo e i complementi che la seguono fanno parte della relativa introdotta dal primo «che» del v. 2; il pronome «voi» è inoltre pleonastico), prostituite (avolterate) per oro e per argento le cariche spirituali (le cose di Dio), che devono <invece> essere congiunte (spose, metafora) alla carità (bontate), ora è necessario (convien) che per voi suoni la <mia> tromba (cioè che la mia opera si occupi di voi, con riferimento alla tromba dei banditori, ma probabilmente anche alle trombe del Giudizio universale), poiché state nella terza bolgia. Simon Mago è un personaggio citato negli Atti degli Apostoli (8, 9-24): un mago samaritano che pretendeva di comprare dal primo papa, san Pietro, la facoltà di comunicare lo Spirito Santo ai battezzati imponendo loro le mani. Da lui viene il nome di simoniaci, attribuito a coloro che facevano mercato degli uffici ecclesiastici. Il problema della simonia era molto sentito nel Medioevo, sia perché suscitava scandalo nelle coscienze, sia perché era connesso con le grandi questioni politiche (ad esempio la lotta per le investiture). 2 Già eravamo… piomba: Già eravamo, <una volta giunti> alla bolgia (tomba) successiva (seguente, rispetto alla seconda bolgia in cui si era concluso il precedente canto), saliti (montati) in quella parte del ponte (scoglio: le bolge sono collegate tra loro da ponti di pietra), che sovrasta perpendicolarmente (piomba) proprio (a punto) la metà del fosso. Percorrendo il ponte che scende dalla seconda alla terza bolgia, Dante e Virgilio possono dunque osservare dall’alto la condizione dei peccatori. 3 O somma sapienza… comparte: O altissima (somma) sapienza <di Dio>, quanto è grande la forza creativa (arte) che mostri in cielo, in terra e nell’inferno (nel mal mondo), e con quanta giustizia (quanto giusto, aggettivo in funzione avverbiale) la tua potenza (virtù) distribuisce (comparte) <premi e castighi>! 4 Io vidi… era tondo: Io vidi la pietra di colore grigio scuro (livida), sulle pareti (per le coste) e sul fondo, piena di fori, tutti di una stessa larghezza (d’un largo), e ciascuno di essi era rotondo. 5 Non mi parean… ogn’omo sganni: Non mi sembravano né più piccoli (men ampi) né più grandi (maggiori) di quei <fori> che ci sono nel mio bel <battistero di> San Giovanni, scavati come luogo dei pozzetti battesimali (battezzatori); dei quali <pozzetti battesimali>, non molti anni fa (ancor non è molt’anni) ne ruppi uno a causa di un uomo che vi stava soffocando (v’annegava) dentro; e questa sia la vera versione dei fatti (suggel) che disinganni (sganni) tutti (ogn’uomo). I fori nel terreno della terza bolgia sono paragonati a quelli allora presenti nel battistero fiorentino di San Giovanni, nei quali almeno secondo una delle possibili interpretazioni di questo passo venivano immersi i bambini per battezzarli. Va detto che però la parte del Battistero in cui si trovavano questi fori fu demolita nel XVI secolo, per cui è impossibile ricostruirne con certezza la struttura. L’episodio autobiografico citato da Dante può essere così ricostruito: non molti anni prima di scrivere il poema probabilmente nel 1300, quando rivestiva la carica di Priore Dante aveva fatto rompere un pozzetto per salvare un uomo che vi si era incastrato dentro. L’episodio, anche per via delle vicissitudini politiche di Dante, aveva dato luogo a infondate maldicenze circa un suo presunto intento sacrilego. 6 Fuor de la bocca… dentro stava: Fuori dall’apertura (de la bocca) di ciascun <foro> uscivano (soperchiava, verbo al singolare per una pluralità di soggetti) i piedi e <la parte inferiore> delle gambe, fino alle cosce (infino al grosso) di un peccatore, e il resto del corpo (l’altro) restava sottoterra (dentro). 7 Le piante… e strambe: Le piante dei piedi erano entrambe infiammate a tutti <i peccatori>; per cui le articolazioni (giunte) guizzavano con tanta forza, che avrebbero spezzato funi di vimini (ritorte) e corde d’erba (strambe). 8 Qual suole… a le punte: Come il fuoco acceso sulle (fiammeggiar de le) cose unte è solito muoversi soltanto (pur) lambendo la superficie esterna (su per la strema buccia), lo stesso accadeva sui piedi (tal era lì) dai talloni alle punte. 9 Chi è… succia? «Chi è, maestro, quello che manifesta afflizione (si cruccia) muovendosi a scatti (guizzando) più degli altri condannati alla sua stessa pena (suoi consorti)», dissi io, «e che (cui, complemento oggetto) una fiamma più rossa (roggia) sta bruciando (succia, perché la fiamma si alimenta della pelle, quasi succhiandone gli umori)?». Dante ha individuato un dannato la cui pena appare più tormentosa di quella degli altri. Virgilio non gli rivelerà subito la sua identità, che emergerà solo ai vv. 67-72 (qui non riportati). Si tratta di papa Niccolò III, al secolo Giovanni Gaetano Orsini, che tenne il seggio pontificio dal 1277 al 1280 e si caratterizzò per un atteggiamento simoniaco e nepotistico. 10 Ed elli a me… de’ suoi torti: Ed egli <rispose> a me: «Se tu vuoi che io ti conduca là sotto, lungo quel pendio (ripa) che è meno scosceso (che più giace), sarai informato da lui della sua identità (di sé) e dei suoi peccati (torti)». 11 E io… quel che si tace: E io <risposi>: «A me piace (m’è bel) tutto quello (Tanto) che (quanto) piace a te: tu sei il mio signore, e sai che non mi allontano (parto) dalla tua volontà, e sai <anche> quello che io non dico (quel che si tace, cioè il mio pensiero)». 12 Allor venimmo… e arto: Allora giungemmo sull’argine che divide la terza bolgia dalla quarta (argine quarto: finito di attraversare il ponte, Dante e Virgilio giungono infatti dalla parte opposta, dove il pendio è meno scosceso; cfr. nota 10); ci girammo e discendemmo alla nostra sinistra (a mano stanca: forma popolare, derivata dal fatto che la sinistra è solitamente meno abile della destra) lì sotto, nel fondo foracchiato e stretto (arto, dal latino artus). 13 Lo buon maestro… con la zanca: Il buon maestro non mi fece ancora scendere (dipuose) dal suo fianco (de la sua anca: Virgilio stringe Dante a sé tenendolo sollevato) finché (sì, usato spesso nel ’200 e ’300 in funzione di congiunzione temporale) mi condusse (giunse) al foro (al rotto) di colui che mostrava la sua disperazione (si piangeva) attraverso il polpaccio (zanca è voce di origine orientale; in francese indicava il gambale e successivamente, per metonimia, il polpaccio; in alcune parlate regionali italiane l’etimo sopravvive nella forma cianca). 14 O qual che se’… fa motto: «O chiunque tu sia, che tieni la parte superiore (’l di su, ossia la testa) rivolta verso il basso (di sotto), o anima malvagia (trista) conficcata in terra (commessa) come un palo», io cominciai a dire, «se ci riesci parla (fa motto)». L’inciso «se puoi» sottolinea beffardamente la condizione di questi peccatori, che trovandosi con la testa sottoterra non possono parlare facilmente. 15 Io stava… la morte cessa: Io stavo <chino> come il frate che confessa il perfido assassino che, dopo che è stato conficcato (fitto) <nella terra>, lo richiama perché <in questo modo> ritarda (cessa) la morte. Dante si china per udire le parole che Niccolò griderà da sottoterra. La similitudine fa riferimento al supplizio della propagginazione, con cui si punivano gli omicidi: essi venivano conficcati a testa in giù in una buca, che veniva progressivamente riempita di sabbia in modo che soffocassero. Prolungando la confessione, il condannato poteva dunque differire di un po’ la morte. Il termine «assessin» proviene dal plurale arabo hashashin, che designava una setta di ismailiti che commettevano delitti sotto l’effetto disinibente dell’hashish. 16 Ed el gridò… lo scritto: Ed egli gridò: «Sei proprio (ritto, con valore avverbiale) tu già qui (costì), sei proprio tu già qui, o Bonifacio? La profezia (lo scritto) si sbagliò (mi mentì) di parecchi anni». L’azione della Commedia è ambientata nel 1300, mentre Bonifacio VIII morì nel 1303. Ma Niccolò III, non potendo vedere il volto della persona che si avvicina, cade in un equivoco e crede che sia giunto nella bolgia proprio Bonifacio, di cui ha già appreso in anticipo la sicura dannazione. Attraverso quest’espediente narrativo Dante riesce dunque a mandare all’Inferno il personaggio-simbolo della degenerazione della Chiesa, aggirando l’ostacolo costituito dalla data in cui egli immagina di aver compiuto il viaggio. Secondo quanto Niccolò III spiegherà nella parte successiva del canto, all’arrivo del prossimo papa simoniaco egli scivolerà più in basso e sarà sommerso per intero sottoterra. Lo stesso Bonifacio, d’altra parte, non è destinato a rimanere a lungo con i piedi fuori dalla fossa: infatti dopo di lui arriverà il papa francese Clemente V. 17 Sei tu sì tosto… farne strazio: «Ti sei saziato così presto (tosto) di quella ricchezza (aver) per la quale non avesti pudore di (non temesti) sposare (tòrre) con l’inganno la bella donna (ossia la Chiesa) e poi di prostituirla (farne strazio)?». Si riprende la metafora matrimoniale dei vv. 2-4; ma in questo caso la donna è identificata con la Chiesa (tradizionalmente indicata come sposa di Cristo); il suo matrimonio con il papa (che, in quanto vicario di Cristo, deve esserne il marito) appare come frutto di un inganno. Probabile il riferimento alle trame con cui Bonifacio indusse ad abdicare il suo predecessore, Celestino V. 18 Dinanzi a li occhi… cambiassersi penne: Dinanzi ai miei occhi le quattro luci (face: si tratta di Adamo e dei tre apostoli Pietro, Iacopo e Giovanni) stavano accese, e quella che era giunta prima (san Pietro) incominciò a divenire (farsi) di colore più acceso (più vivace) e diventò nel suo aspetto (sembianza) tale quale diventerebbe Giove, se esso e Marte fossero uccelli e se potessero scambiarsi le penne. La complessa, e un po’ tortuosa, similitudine paragona in via ipotetica i pianeti agli uccelli, in quanto questi ultimi possono perdere le penne che li rivestono, e immagina ancora che due uccelli si scambino vicendevolmente le penne, invertendo così i loro colori. Si ricordi che Giove appare di colore bianco e Marte di colore rosso; ed è proprio questa dal bianco al rosso la mutazione cromatica che segnala l’indignazione di san Pietro. 19 La provedenza… udi’: La provvidenza, che in quel luogo (quivi, ossia in Paradiso) distribuisce (comparte) il turno (vice) e il compito (officio), aveva fatto fare (posto) silenzio da ogni parte del coro dei beati, quando io udii <queste parole>. 20 Se io mi trascoloro… tutti costoro: «Se io cambio colore (i santi sono visibili sotto forma di luce, e quella di san Pietro è divenuta rossa) non meravigliarti; perché, mentre io parlerò (dicend’io), vedrai cambiare colore a tutti questi (gli altri santi)». 21 Quell’ ch’usurpa… là giù si placa: «Colui che usurpa in terra il mio ufficio (il luogo mio), il mio ufficio, il mio ufficio che è vacante (vaca) agli occhi del Figlio di Dio, ha trasformato la sede del mio martirio (cimitero mio) in una fogna (cloaca) <piena> di violenza (sangue, metonimia) e di scandalo (puzza, metafora); per cui il perverso (Satana) che cadde dal cielo (di qua sù), si rallegra (si placa) all’Inferno (là giù)». San Pietro che ricalcando il linguaggio delle profezie bibliche ripete per tre volte il sintagma «il luogo mio» sottolinea qui l’indegnità morale di Bonifacio VIII: egli certamente riveste l’ufficio di papa, ma procura infamia al Vaticano, luogo del martirio del santo. Dunque, di fronte al giudizio di Dio, è come se il soglio pontificio fosse vacante. 22 Di quel color… cosperso: Io vidi allora tutto il cielo cosparso (cosperso) di quel colore <rosso vivo> che tinge (dipigne) la nuvola al tramonto (da sera) e all’alba (da mane), a causa del sole che si trova di fronte (avverso). Il rosseggiare delle nuvole all’alba e al tramonto si spiega con il fatto che i raggi del sole, basso sull’orizzonte, le investono frontalmente. L’espressione «sole avverso» è ripresa da Ovidio: «adversi solis ab ictu» [«per l’impatto del sole di fronte»] (Metamorfosi, III, 183). 23 E come donna… possanza: E come una donna virtuosa che rimane consapevole della sua innocenza (sicura) riguardo alle proprie azioni (di sé), e tuttavia, ascoltando, si vergogna (timida si fane; il verbo presenta epitesi) per il peccato (fallanza) altrui, così Beatrice mutò aspetto; e credo che in cielo vi sia stata una simile eclissi, quando la suprema potenza (Cristo) patì <la morte>. Lo spegnersi della luminosità nel volto di Beatrice viene paragonato all’eclissi che oscurò il mondo alla morte del Salvatore. 24 Poi procedetter… non si mutò piùe: Poi le sue parole continuarono (procedetter) con una voce tanto alterata (trasmutata) rispetto a quella di prima (da sé) che l’aspetto non cambiò più (piue, forma con epitesi). 25 Non fu la sposa… molto fleto: «La Chiesa (sposa di Cristo, metafora) non fu fondata (allevata) con il mio sangue, quello di Lino, quello di Anacleto (i papi del I secolo d.C., tutti martirizzati) per essere utilizzata come mezzo di arricchimento (ad acquisto d’oro); ma, al fine di acquistare questa vita beata (esto viver lieto) <del Paradiso> Sisto, Pio, Callisto e Urbano (papi dei secoli II e III, che anch’essi patirono il martirio) versarono il loro sangue dopo molto pianto (fleto, latinismo)». 26 Non fu nostra intenzion… disfavillo: «Non fu nostra intenzione che parte del popolo cristiano sedesse alla destra dei nostri successori (che una fazione avesse, cioè, il favore dei papi; probabile riferimento ai Guelfi) e un’altra parte <sedesse> dal lato opposto (che la fazione opposta quella dei Ghibellini fosse avversata dai papi: la collocazione dei cristiani a destra e a sinistra dei papi costituisce una tragica parodia del Giudizio universale); né <fu nostra intenzione> che le chiavi (simbolo del potere papale) che mi furono concesse <da Cristo> diventassero emblema (signaculo) in una bandiera (vessillo) che combattesse contro altri cristiani (battezzati; si riferisce a qualcuna delle numerose imprese guerresche del papato: contro i Colonnesi, contro Manfredi, contro fra’ Dolcino, contro i Ghibellini romagnoli ecc.); né <fu nostra intenzione> che io divenissi l’immagine di un sigillo (quello utilizzato nei documenti ufficiali della Chiesa) apposto su benefici (privilegi) venduti <con la simonia> e <di conseguenza> falsi (mendaci), cosa di cui (ond’) io spesso arrossisco <di vergogna> e mi infiammo <di indignazione> (disfavillo)». 27 In vesta di pastor… perché pur giaci: «Sotto l’aspetto (in vesta) di pastori si vedono lupi rapaci qua e là per tutti i pascoli (paschi: indica metaforicamente le chiese assegnate agli indegni pastori); o aiuto di Dio, perché ancora (pur) sembri dormire (giaci)»? La metafora dei lupi si rifà a Matteo, VII, 15: «intrinsecus autem sunt lupi rapaces» [«ma interiormente sono lupi rapaci»] e naturalmente richiama la lupa del primo canto del poema; l’implorazione finale richiama l’«Exsurge, quare obdormis, Domine?» [«Alzati, Signore, perché dormi?»] di Salmi, 43, 23. 28 Del sangue nostro… tu caschi: «I Caorsini (Cahors era la città da cui proveniva Giovanni XXII, papa dal 1316 al 1334) e i Guasconi (ossia i conterranei di Clemente V, papa dal 1305 al 1314) si preparano a bere il nostro sangue (cioè a fare strazio della Chiesa costruita grazie al sacrificio dei martiri): o istituzione nata bene (buon principio), a quale brutta (vil) fine è necessario (convien) che tu arrivi (caschi)! » Essendo il viaggio di Dante ambientato nel 1300, quella di san Pietro su «Caorsini e Guaschi» è una profezia post eventum e consente di datare con sicurezza a dopo il 1316 la composizione di questo canto. 29 Ma l’alta provedenza… sì com’io concipio: «Ma la provvidenza divina (alta), che attraverso Scipione (l’Africano, vincitore di Annibale) difese a Roma la supremazia (gloria) sul mondo, interverrà (soccorrà) presto (tosto), come io prevedo (concipio, latinismo). » I riferimenti di san Pietro alla storia romana fanno pensare a un prossimo intervento del potere imperiale. Si tratta in questo caso di una profezia ante eventum, che non avrebbe trovato realizzazione nella storia successiva. 30 e tu, figliuol… non ascondo: «e tu, figliolo, che a causa del tuo corpo umano (mortal pondo, lett. peso mortale) tornerai di nuovo (ancor) sulla terra (giù), scrivi queste cose (apri la bocca) e non nascondere ciò che io non nascondo». L’invettiva si chiude con la solenne investitura di Dante come portavoce delle verità rivelate da san Pietro; la poesia dantesca si carica dunque di una vera e propria funzione profetica. |
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DIV9a - Il testo e il problema | |
IL TESTO
I brani sopra presentati si inseriscono in due contesti profondamente diversi. Il primo appartiene al basso Inferno e descrive una delle schiere dei dannati di Malebolge, luogo in cui è punito l’uso distorto e malvagio dell’intelletto umano. In questa cornice non sorprende la scelta di un registro stilistico “comico”, atto a sottolineare la degradazione dei peccatori rappresentandoli in una situazione ridicola, che appare tanto più grottesca se la si mette a confronto con l’altissima dignità di cui essi furono rivestiti in terra. Dante dà fondo, in questo primo episodio, a tutte le risorse del suo sarcasmo. Si può dire che nei suoi versi confluiscono «sdegno di parte, odio, vendetta di vinto», ma occorre ricordare che questi sentimenti sono sempre «coincidenti con la causa del bene e del giusto»; e ciò gli offre «la possibilità felice e inebriante di vendicarsi pur giudicando in nome di Dio, di cantare le note del suo sdegno mentre pur canta le note dello sdegno divino» (Petronio). In questo quadro si inserisce l’espediente narrativo, di insolita perfidia, che qui Dante inventa e che gli consente di dannare Bonifacio VIII prima ancora che egli sia morto. Se è chiaro infatti che la composizione di questo canto è successiva alla morte del pontefice, ciò che conta per il poeta è il fatto che l’azione sia ambientata nel 1300, anno in cui il papa era ancora in vita ed era dunque impossibile collocarlo all’Inferno. Dante, tuttavia, approfittando della grottesca postura da lui attribuita ai simoniaci e ricordando che le anime dell’Inferno conoscono il futuro, fa in modo che Niccolò III incappi in un ben congegnato malinteso: il papa da poco dannato crede di avere già vicino il suo successore; e si stupisce non già per la sua condanna eterna cosa che egli già attende, avendola letta nell’infallibile libro del futuro quanto per il fatto che Bonifacio sia giunto all’Inferno con qualche anticipo sulle previsioni. Ma in Dante, si è detto, sdegno ed avversione personale non sono mai disgiunti da un serio e profondo impegno etico: perciò l’episodio infernale non si limita all’uso del registro comico: già all’inizio il tono è solenne e il riferimento alla «tromba» che suona per i peccatori ha il carattere, per questi ultimi, di un sinistro e apocalittico presagio. Nei versi successivi come meglio vedremo nel prossimo approfondimento [DIV9b] il poeta farà diretto ricorso all’Apocalisse per esprimere la sua condanna contro la Chiesa corrotta. Assai diverso è il contesto in cui si inquadra il brano del Paradiso, nel quale l’invettiva non sembra inserirsi con naturalezza tra ciò che precede e ciò che segue, ma costituisce un inciso che richiede un’attenta modulazione per poter essere incastonato tra le musiche celestiali. Quando san Pietro inizia a parlare, le anime hanno appena smesso di intonare un canto di gloria rivolto a Dio. La luce che avvolge il Santo si colora di rosso, ed egli prorompe in una requisitoria che all’inizio utilizza per usare l’espressione di Grabher «parole che hanno il carnale peso del male e della nausea» («fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza»; vv. 25-26), per acquisire poi progressivamente una biblica solennità, come sottolinea la tessitura retorica del discorso. Balza subito all’occhio, in tal senso, il ricorso enfatico alle anafore. Nel brano sopra riportato, ben quattro versi cominciano con delle negazioni («non», «né»), e due con la congiunzione avversativa «ma». Ma sono anche metafore, enumerazioni, iterazioni, apostrofi a conferire al passo un tono retoricamente sostenuto. Questa sostenutezza serve, ancora una volta, a bollare di eterna infamia i papi avversati da Dante; e salda ancor di più i motivi personali del suo risentimento con la forza di un giudizio morale pronunciato senza mezzi termini in nome di Dio. IL PROBLEMA Nonostante la profonda diversità di collocazione e di tono, i due brani presentano alcune analogie di fondo. Entrambi sono strutturati intorno a uno schema logico segnato da forti opposizioni, dal lacerante contrasto tra termini inconciliabili che si esprime talora sotto la forma retorica dell’antitesi, e che comunque domina e struttura la rappresentazione anche a un livello più profondo. La prima di queste opposizioni binarie è riscontrabile già all’inizio del XIX canto dell’Inferno. Da una parte infatti si afferma che le «cose di Dio» devono essere «spose» della bontà; dall’altra si accusano i simoniaci di prostituirle in cambio di denaro («per oro e per argento avolterate»). Si delinea dunque l’opposizione di fondo tra la Chiesa quale dovrebbe essere secondo il messaggio cristiano e la Chiesa quale è divenuta, dopo che il malcostume del clero e la simonia dei papi l’hanno trasformata in una struttura di potere lontanissima dai suoi valori più autentici. La logica dell’opposizione, del contrasto, del capovolgimento domina l’episodio anche a livello figurativo. Essa è icasticamente sintetizzata nella rappresentazione di questi papi, messi letteralmente a gambe all’aria ed eternamente fissati in questa innaturale posizione. Quella che era stata, in vita, la solennità dei gesti propri della loro dignità si rovescia adesso nella ridicola impotenza di un paio di polpacci che scalciano l’aria infernale. D’altronde, il capovolgimento fisico rientra nella legge del contrappasso: «il simoniaco come scrive Francesco D’Ovidio ebbe l’animo rivolto ai beni della terra anziché alle cose celesti, ed è conficcato nella terra […]. Capovolse l’ufficio suo traendo vantaggi materiali per l’appunto dalle cose spirituali […] ed è capovolto». A questa stessa logica del capovolgimento va riferito anche il fatto che una fiamma bruci i piedi di questi peccatori, senza peraltro consumarli. Niccolò, come molti altri papi della stessa risma, «avrebbe dovuto aspirare all’aureola del santo, e un nimbo di fuoco gli succia i piedi: un’aureola a rovescio»1. Perfino la similitudine tra la bolgia piena di fori e il battistero di san Giovanni non sembra un semplice pretesto per una precisazione autobiografica: il luogo in cui sono confitti i papi simoniaci assomiglia ancora una volta, in forma capovolta a un luogo sacro della cristianità, al più sacro anzi per Dante, che proprio lì ebbe il battesimo. E capovolta, di nuovo, appare la situazione quando Dante, chino verso terra per ascoltare le parole del peccatore, si paragona al frate che confessa l’assassino (invertendo i ruoli e quasi conferendo a se stesso quella dignità ecclesiastica che in vita il papa usurpava). Un comico capovolgimento, infine, si può leggere nelle parole di papa Niccolò. Appena pensa di aver davanti Bonifacio VIII, la sua rabbia prende i toni di una predica stizzosa ma ipocrita, in cui il vecchio papa simoniaco sembra fare la morale al nuovo, rimproverandogli quei peccati dei quali egli stesso aveva dato esempio illustre. Non c’è molto spazio, in mezzo a quest’umanità stravolta da basso Inferno, per ricordare ciò che la Chiesa avrebbe dovuto essere. La sua funzione ideale è appena accennata all’inizio del canto, ai vv. 2-3, dalle parole di Dante poeta. Il XXVII canto del Paradiso distribuisce invece con maggiore equilibrio gli elementi positivi e quelli negativi, articolando la logica contrappositiva sull’alternanza di due serie di temi: quelli con i quali san Pietro richiama la vera finalità della Chiesa e quelli con i quali ne denuncia l’attuale corruzione (anche se l’intento polemico e l’attenzione per il reale porta alla prevalenza dei temi negativi). È naturale che quest’articolazione logica si rispecchi, a livello formale, in una significativa ricorrenza dell’antitesi. Nelle prime due terzine del discorso di san Pietro, l’elemento negativo e quello positivo si alternano con perfetto equilibrio: la Chiesa, sposa di Cristo, «non fu» allevata con il sangue di Cristo «per essere ad acquisto d’oro usata», «ma per acquisto d’esto viver lieto» i primi papi sparsero il loro «sangue». Segue un’elencazione di esempi di degenerazione, prima introdotti dalla congiunzione «non» (v. 46), poi per due volte dal «né» (v. 49, v. 52), quindi inseriti in periodi autonomi disposti ciascuno in una terzina (vv. 55-60). La tensione accumulata da questa serie prorompe finalmente nel «ma» del v. 61, in cui si annuncia (sotto forma di profezia ante eventum) la rigenerazione del mondo prossima, necessaria e tuttavia dai contorni ancora incerti garantita dalla bontà divina. Se l’antitesi presiede alla strutturazione dei blocchi che costituiscono nel suo complesso l’invettiva di san Pietro, essa non manca nemmeno all’interno di essi. La ritroviamo infatti ai vv. 46-48, in cui si vede «parte» del popolo cristiano sedere «a destra mano» dei papi, e «parte da l’altra»; o al v. 55, dove i «lupi rapaci» sono contrapposti ai «pastor» (pur presentandosi con le loro vesti); e, da ultimo, nella contrapposizione tra il «buon principio» della Chiesa e il «vil fine» cui essa è pervenuta. L’antitesi più ricca di implicazioni, presente in entrambi i brani qui esaminati, è però quella tra matrimonio e adulterio. Di un matrimonio (quello tra le «cose di Dio» e la «bontate») parla infatti Dante poeta all’inizio del XIX dell’Inferno; della Chiesa come «sposa di Cristo» parla san Pietro nel XXVII del Paradiso. La metafora della Chiesa come sposa di Cristo ha nella Commedia uno sviluppo assai significativo, che trova uno dei suoi momenti principali nel canto XI del Paradiso: quello in cui, raccontando la vita di san Francesco, Dante tratta il tema delle nozze tra Cristo e la Chiesa ponendo il lettore di fronte a una serie di circostanze concatenate in modo assai convincente: Cristo fu sposo della Chiesa, ma fu anche sposo della Povertà; e quest’ultima, rimasta vedova per oltre undici secoli, trovò nuovamente marito solo ai tempi di Francesco. È il caso di riflettere sul fatto che, con riferimento a Cristo, nell’XI del Paradiso si parli solo in apparenza di due spose diverse. Qui Dante non insinua, è ovvio, un’impensabile bigamia di Nostro Signore: il complesso di metafore del canto conduce, viceversa, ad affermare che la Chiesa e la povertà sono e devono rimanere, se si vuol restare fedeli a Cristo, esattamente la stessa cosa [DIV10]. E si tratta di un assunto assai impegnativo. Si può dunque comprendere e lo si comprende ancor meglio se si rimane dentro la metafora amorosa di quanta corruzione sia capace l’intromissione della ricchezza all’interno della Chiesa di Cristo: per causa sua, il casto amore matrimoniale si degrada a prostituzione, ad adulterio. Questi tre temi (le nozze, l’adulterio, il denaro) ricorrono infatti nei momenti-chiave dei brani che abbiamo letto: all’inizio del XIX dell’Inferno («O Simon mago, o miseri seguaci / che le cose di Dio, che di bontate /deon essere spose, e voi rapaci / per oro e per argento avolterate»); e all’inizio del discorso di san Pietro («Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata»). E la rappresentazione della degradazione della Chiesa sotto forma di prostituzione sarà al centro di altri passi del poema. Ci riferiamo alla conclusione dello stesso XIX dell’Inferno e al canto XXXII del Purgatorio, accomunati a loro volta dall’esplicita citazione dell’Apocalisse; e da una interpretazione di quest’ultima che collega il pensiero di Dante alla linea più rigorosamente pauperistica dello schieramento francescano [DIV9b]. |
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1 Francesco D’Ovidio, Studi sulla Divina Commedia, Milano-Palermo, Sandron, 1901, p. 365. |