La Divina Commedia
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DIV14a - L’ultimo del Paradiso La preghiera alla Vergine | |
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[Paradiso, canto XXXIII, vv. 1-39]
Il canto conclusivo del Paradiso si apre sulle parole di san Bernardo di Chiaravalle (1109-1153), mistico ardente, asceta e devoto al culto mariano: proprio a lui è affidato il compito di supplicare la Vergine affinché Dante, al termine del suo viaggio nell’oltretomba, possa finalmente contemplare Dio. Bernardo si rivolge alla Madonna con una preghiera che ricalca il tradizionale schema bipartito dell’Ave Maria: nella prima parte (vv. 1-21) si svolge la lode della Vergine; nella seconda (vv. 22-39) è contenuta la preghiera vera e propria. Il poeta arricchisce il modello ispirandosi all’innografia mariana in latino e, al tempo stesso, lo adatta ad esprimere la propria visione della realtà. Nella lode della Vergine pronunciata da Bernardo si attua una miracolosa sintesi degli opposti: molti termini che, secondo la logica umana, apparirebbero antitetici e inconciliabili possono infatti, nella logica soprannaturale del Paradiso, essere attribuiti contemporaneamente alla Vergine. È per questo che la figura retorica dominante nel brano risulta l’ossimoro. «Vergine Madre, figlia del tuo figlio1, tu se’ colei che l’umana natura Nel ventre tuo si raccese l’amore, Qui se’ a noi meridiana face Donna, se’ tanto grande e tanto vali, La tua benignità non pur soccorre In te misericordia, in te pietate, Or questi, che da l’infima lacuna supplica a te, per grazia, di virtute E io, che mai per mio veder non arsi perché tu ogne nube li disleghi Ancor ti priego, regina, che puoi Vinca tua guardia i movimenti umani: |
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1 Vergine… figlio: inizia qui la prima parte della preghiera (vv. 1-21) che sul modello della prima parte dell’Ave Maria è occupata dalla lode della Madonna. Il primo verso contiene due ossimori: Maria è contemporaneamente «vergine» e «madre» (unisce cioè due qualità inconciliabili secondo la logica umana). Essa è inoltre figlia del suo figlio in quanto, contemporaneamente, creatura di Dio e madre di Cristo (che è Dio). L’innografia mariana in latino, conosciuta da Dante, presenta spesso simili accostamenti di epiteti paradossali. 2 umile… creatura: umile e nobile (alta) più di <qualsiasi altra> creatura: altra coppia di attributi ossimorici. Il riferimento all’umiltà di Maria è nel Magnificat (Luca, I, 48), in cui la Vergine rende grazie a Dio «quia respexit humilitatem ancillae suae» [«perché guardò l’umiltà della sua ancella»]. La compresenza di “umiltà” e “altezza” è in un inno di san Bonaventura: «Te, qua numquam humilior / In creaturis legitur / Fuisse nec suavior; / Et propter hoc sublimior / Esse nulla te noscitur» [«Te, di cui si legge che, tra le creature, nessuna è stata più umile né più soave; e perciò non si conosce nessuna più sublime di te»]. 3 termine… consiglio: punto di riferimento stabile (termine fisso) dell’eterna volontà (consiglio) <di Dio>. La nascita di Cristo, da sempre predestinata dalla volontà divina, è infatti per i cristiani la data centrale dell’intera storia umana. Maria «ci appare quale essa fu ab aeterno nella mente di Dio, termine verso cui tende e da cui si diparte la storia degli uomini provvidenzialmente ordinata» (Fubini). 4 tu se’ colei… fattura: tu sei colei che innalzò (nobilitasti; la proposizione relativa è retta grammaticalmente dal pronome «colei» predicato nominale della reggente e dovrebbe quindi presentare il verbo alla terza persona; la seconda persona si spiega per l’attrazione del pronome «tu», soggetto della reggente) la specie (natura) umana al punto che il creatore (fattore) di essa (suo) accettò (non disdegnò, litote) di farsi creatura (fattura) di tale specie (sua). Anche l’unione, in Cristo, delle qualità di creatore e creatura costituisce un ossimoro; ma, nel mistero della Trinità, i due opposti coincidono perfettamente. Fonte di questi versi può essere S. Pier Damiano, per il quale il Verbo «fit factor et factura, creans et creatura» [«diviene fattore e fattura, creatore e creatura»] (Orat., LXI). 5 Nel ventre tuo… questo fiore: Nel tuo grembo (ventre) si riaccese l’amore <tra Dio e l’uomo>, grazie al cui calore, nell’eterna pace <del Paradiso> è così germogliato questo fiore. Il riferimento al fiore può spiegarsi con il fatto che, nell’Empireo, i beati sono disposti in forma «di candida rosa»; ricongiungendo il legame tra Dio e l’uomo che era stato spezzato dal peccato originale, Maria ha consentito che si aprissero le porte del Paradiso (fino ad allora negato all’umanità). Anche l’immagine del fiore, collegata agli attributi materni della Vergine, è attestata nella tradizione mistica. Secondo sant’Ambrogio «in Virginis utero […] lilii floris gratia germinabat» [«nell’utero della Vergine […] germogliava la grazia dei giglio»]; per san Bernardo «Virginis alveus floruit […] Mariae viscera […] florem protulerunt» [«L’alveo della Vergine fiorì […] le viscere di Maria […] partorirono un fiore»]. 6 Qui se’… fontana vivace: Qui (in Paradiso) sei per noi (angeli e santi) fiaccola ardente come sole di mezzogiorno (meridiana face) e giù, tra i mortali, sei fonte inesauribile (fontana vivace) di speranza. Le due proposizioni che compongono il periodo sono disposte parallelamente («Qui se’»… «e giuso […] se’») e occupano ciascuna un verso e mezzo. Le coppie di nomi e aggettivi che designano metaforicamente la Vergine sono invece disposte a chiasmo («meridiana face»… «fontana vivace»). 7 Donna… sanz’ali: Signora <del cielo> (Donna, nel senso etimologico del latino domina), sei tanto nobile (grande) e hai tanta potenza (tanto vali) <presso Dio> che, se qualcuno desidera una grazia e non ricorre a te, il suo desiderio (sua disianza) pretende di volare senza le ali (metafora per designare un’azione impossibile). Il v. 15 contiene un anacoluto, in quanto al soggetto della relativa del v. 14 («qual vuol grazia», che nella parafrasi abbiamo reso con una protasi del periodo ipotetico) se ne sostituisce uno diverso («sua disianza»). 8 La tua benignità… precorre: La tua bontà (benignità) non solo (non pur) viene in aiuto (soccorre) a chi prega (domanda), ma, molte volte, spontaneamente (liberamente) anticipa la preghiera (al dimandar precorre). Lo stesso Dante, smarritosi nella «selva oscura», aveva ricevuto il soccorso della Vergine prima ancora di doverlo richiedere [DIV8]. 9 In te misericordia… di bontate: In te si raccoglie (s’aduna) la misericordia, in te <si raccoglie> la pietà, in te <si raccoglie> la facoltà di operare cose eccelse (magnificenza) e tutta la virtù che può esserci in una creatura (quantunque è un pronome relativo indefinito, che indica una quantità indeterminata; di bontate è un partitivo). L’anafora «in te» conferisce al verso un tono incalzante; come ha mostrato Auerbach, il tu anaforico costituisce uno dei tratti distintivi dell’elogio alla divinità, ed è presente sia nella poesia classica che negli inni cristiani. 10 Or questi… salute: Ora costui (questi, ossia Dante) che, dalla più profonda cavità (infima lacuna, ossia l’Inferno, collocato al centro della terra) dell’universo fino a qui ha visitato ad una ad una le anime separate dai corpi (vite spiritali), implora da te, per grazia divina, virtù sufficiente (tanto di virtute: altra forma con pronome indefinito seguito da partitivo) da poter innalzarsi (levarsi) con lo sguardo verso la compiuta beatitudine (ultima salute, ossia la visione di Dio). Con queste terzine comincia la vera e propria preghiera (supplicatio), con la quale Bernardo chiede l’intercessione della Vergine perché sia esaudito il desiderio di Dante. 11 E io… si dispieghi: E io, che non fui acceso mai (non arsi) del desiderio di vedere Dio con i miei occhi (per mio veder), più di quanto <sono acceso dal desiderio> che possa vederlo Dante (più ch’i’ fo per lo suo), ti rivolgo (porgo) tutte le mie preghiere, e prego che non siano insufficienti (scarse), affinché tu con le tue preghiere (co’ prieghi tuoi) sciogli per lui (li disleghi) ogni impedimento (nube, metafora) dovuto alla sua natura mortale, in modo che (sì che) gli si manifesti pienamente (li si dispieghi) la suprema beatitudine (sommo piacer). 12 Ancor ti priego… affetti suoi: Inoltre ti prego, o regina <del cielo>, tu che puoi ciò che vuoi, che, dopo una simile visione (tanto veder) tu conservi puri (sani) i suoi sentimenti (affetti). Bernardo invoca la protezione della Vergine affinché Dante, tornato sulla terra, persista nella grazia senza più cadere nel peccato (è il dono della “perseveranza finale”). È probabile un riferimento al pericolo che Dante, dopo «tanto veder», possa incorrere nel peccato di superbia. 13 Vinca tua guardia… ti chiudon le mani: La tua protezione (guardia) tenga a freno (Vinca) le passioni (movimenti) umane: vedi Beatrice, e vedi quanti beati stanno a mani giunte dinanzi a te (ti chiudon le mani) a sostegno delle mie preghiere (per li miei prieghi). |
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DIV14 a - Il testo e il problema | |
IL TESTO
La preghiera alla Vergine: una lode ossimorica Dal punto di vista retorico nel brano si evidenzia, specie nella prima parte (i vv. 1-21, dedicati alla lode della Vergine), una presenza molto significativa dell’ossimoro. Questa figura retorica, come è noto, consiste nell’accostamento di due termini semanticamente opposti. A differenza dell’antitesi, che utilizza gli opposti proprio per sottolinearne la contrapposizione, l’ossimoro produce una sorprendente conciliazione di questi termini, in genere inammissibile dal punto di vista logico. E in verità, sul piano della logica umana, gli attributi riferiti a Maria apparirebbero del tutto inconciliabili: è infatti impossibile che una donna sia al tempo stesso «vergine» e «madre», così come è manifestamente impossibile che sia figlia del suo figlio; gli attributi dell’“umiltà” e dell’“altezza” appaiono anch’essi difficilmente conciliabili; ed è logicamente impossibile che il creatore («fattore») di qualcosa (nel nostro caso, dell’«umana natura») possa divenire creatura («fattura») di ciò che egli stesso ha creato. Tuttavia nella poesia di Dante e nell’innografia mariana cui essa si ispira l’ossimoro non costituisce affatto un artificio retorico finalizzato a destare sorpresa nel lettore, e non si può certo dire che esso produca enunciati illogici o contraddittori. Esso diviene, invece, il mezzo più efficace ed evidente per illustrare verità di fede al tempo stesso semplici e inspiegabili: la miracolosa compresenza di verginità e maternità nella figura di Maria o il mistero della Trinità (che tra l’altro spiega come Dio possa essere al tempo stesso “padre” e “figlio” di Maria) trovano la loro rappresentazione più evidente in questi versi sublimi e paradossali. La rappresentazione ossimorica di Maria dimostra dunque come a quest’altezza di Paradiso la logica umana non sia più sufficiente. Non a caso in quest’ultimo canto la voce della teologia (Beatrice) tace per dare spazio all’ardore mistico di san Bernardo. In questa preghiera Dante si sforza di superare e risolvere gli elementi antitetici, drammatici, oppositivi che caratterizzano e limitano l’umano. Ciò che in terra si presenta come disgiunto, scisso, irriducibile, trova in Paradiso una misteriosa e pur evidente unità. In questo senso, nell’ultimo canto del Paradiso culmina un atteggiamento intellettuale ampiamente attestato in Dante: ossia il tentativo grandioso e coerente di giungere sempre a un’interpretazione unitaria e onnicomprensiva della realtà, per quanto essa possa apparire a prima vista complessa e disgregata e per quanto profondi possano apparire i conflitti e i contrasti da cui è segnata1. La Vergine e Beatrice: unione di umano e divino Il brano è denso di metafore che sono prevalentemente connotate con il tratto semantico del «caldo». Già al v. 7 compare la rappresentazione dell’amore come fuoco, largamente attestata nella tradizione mistica e nella poesia religiosa (vedi ad esempio Jacopone, O iubelo del core [C4]) e in quella della lirica cortese e stilnovistica (come in Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre Amore [E1]). Non c’è dubbio che l’amore di cui qui si parla vada inteso come carità cristiana e non possa essere confuso con il sentimento nobile ma profano di cui parla Guinizzelli. Non è però senza importanza il fatto che Dante usi questa metafora in un contesto in cui sono messi in risalto con un realismo che trova il suo antecedente nell’Ave Maria: «et benedictus fructus ventris tui» gli attributi femminili e materni della natura umana di Maria («Nel ventre tuo si raccese l’amore», v. 7). Inoltre il «caldo» dell’amore (vv. 8-9) si collega a un’immagine di fecondità, quella della “germinazione” del fiore (attestata, quest’ultima, dalla tradizione mistica; cfr. nota ). Non è senza significato, infine, il fatto che Bernardo pronunci il nome di Beatrice, modello di perfezione femminile che, se qui cede il primo piano alla Vergine, non è per questo rifiutato o dimenticato. Non esiste infatti, in Dante, quella contrapposizione drammatica e irriducibile tra umano e divino che caratterizzava il misticismo esasperato di Jacopone e che trovava il proprio corrispondente, sul versante opposto, nella tradizione profana della lirica amorosa (dai Provenzali e dai Siciliani fino al drammatico stilnovismo averroista di Cavalcanti). Al contrario, già nella Vita nuova l’amore terreno era stato innalzato al punto da poter essere identificato senza riserve con l’amore mistico dell’anima per Dio2. È naturale dunque che nella figura della Vergine si attui al più alto grado quella sintesi tra umano e divino alla quale l’opera di Dante aveva sempre mirato [G13b]. Beatrice si colloca appena un gradino sotto la Vergine: è proprio con il suo nome qui citato per l’ultima volta nella Commedia che Bernardo conclude la preghiera, invitando Maria a posare lo sguardo su di lei che, insieme a tutti gli altri beati del Paradiso, giunge le mani perché a Dante sia impetrata la più alta grazia mai concessa a mortale. Se l’opera di Dante costituisce come abbiamo più volte sottolineato un originale e irripetibile superamento del conflitto tra amore e religione presente nella lirica cortese, tale superamento è testimoniato in modo particolarmente evidente da questo brano del Paradiso. Fiaccola e fontana (fuoco e acqua) La miracolosa catena di ossimori che apre il canto, l’unione di tratti umani e divini nella figura della Vergine e la posizione di mediatrice tra terra e cielo occupata da Beatrice, sono tutti indizi del gigantesco sforzo, da parte di Dante, di operare con la Commedia una sintesi totalizzante della cultura del proprio tempo, che consenta di recuperare, nella più profonda verità del Paradiso, ogni momento e aspetto della realtà umana. Nelle metafore che si sono prima richiamate domina il tratto semantico del “caldo” (collegato a un’idea dell’amore nella quale umano e divino trovano la loro sintesi suprema). Metafore dello stesso tenore si ripetono più volte in questo brano: ad esempio al v. 22 (che dà inizio alla preghiera vera e propria) il verbo “ardere” viene associato al caritatevole desiderio di Bernardo di ottenere per Dante la visione di Dio. È da notare però come sia presente, in questa lode alla Vergine, almeno una metafora che afferisce al campo semantico del “freddo”. Ai vv. 8-10 la Vergine è indicata come «meridiana face», ossia fiaccola di carità ardente come sole di mezzogiorno, e subito dopo come «fontana vivace» di speranza (metafora nella quale è invece implicita l’idea dell’acqua e quindi è presente il tratto semantico del “freddo”). Anche gli archetipi dell’acqua e del fuoco (che nella tradizione cortese sono spesso presentati in opposizione; si pensi a Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre Amore [E1]) possono coincidere nella figura della Vergine. Opera dunque nei versi di Dante, anche a questo livello, quella strutturazione ossimorica del testo che abbiamo già osservato a livello retorico. IL PROBLEMA Premessa: un equilibrio instabile Abbiamo detto sopra come la conciliazione del contrasto tra amore e religione sia una soluzione prettamente dantesca. L’equilibrio raggiunto dall’autore della Commedia è destinato infatti a rompersi nelle opere degli autori successivi, producendo un nuovo contrasto tra i due termini. La rottura dell’equilibrio raggiunto da Dante può essere osservata confrontando la preghiera alla Vergine, con cui inizia l’ultimo canto della Commedia, con la canzone, anch’essa indirizzata alla Vergine [H50], con cui si chiude il Canzoniere di Petrarca; opera in cui possiamo qui schematicamente affermare la cultura medievale si confronta e si scontra, in una ricerca di equilibrio via via più difficile, con la nuova cultura umanistica. Senza voler ridurre a schemi semplicistici la complessa e contraddittoria opera petrarchesca, possiamo qui osservare che in essa le istanze dell’incipiente Umanesimo che comporta la piena rivalutazione della natura umana, e che emerge con forza nel più maturo e “scientifico” rapporto che, rispetto a Dante, l’autore dei Canzoniere istituisce con i classici [DIV2a] coesistono con l’aspirazione, ancora di matrice dantesca, a trovare una sintesi tra umano e divino (a fare insomma di Laura, la donna amata, una nuova Beatrice); ma anche con una spiritualità inquieta, che guarda spesso all’ascetismo e dunque a una concezione dualistica di origine medievale, per la quale “umano” e divino” sono termini contrapposti e irriducibili e la salvezza può ottenersi solo mediante la rinuncia completa al mondo come a una via necessaria (ma difficile da percorrere) per raggiungere la salvezza dell’anima. La Commedia e il Canzoniere Va detto, in primo luogo, che il contesto in cui si inserisce l’invocazione alla Vergine di Petrarca è molto diverso da quello della Commedia. In Dante, la preghiera alla Vergine si colloca al termine di un processo ascensionale garantito da Dio (e voluto dalla Vergine stessa), testimoniato dal disegno lineare e unitario del poema: dopo essersi smarrito nella selva del peccato, il pellegrino ha attraversato l’Inferno, e, in Purgatorio, si è purificato dalle tendenze peccaminose; adesso, dopo aver conosciuto i beati del Paradiso, si appresta alla suprema contemplazione di Dio. Petrarca scrive invece l’ultima canzone nella condizione di un peccatore che si sente vicino alla morte e aspira alla salvezza, e cerca dunque di risolvere i contrasti che lo lacerano. Del resto, la struttura del Canzoniere non è certo unitaria come quella della Commedia. L’opera si presenta come una raccolta di liriche “frammentarie” (il poeta, nel sonetto proemiale, le designa come «rime sparse»; egli dà inoltre all’opera stessa il titolo latino di Rerum vulgarium fragmenta). D’altra parte, però, Petrarca cerca comunque di dare al libro una struttura unitaria: lavora ad esempio accuratamente sulla disposizione delle rime, modifica molte di esse con continue varianti, ordina i testi secondo complessi criteri simbolici (in cui un ruolo importante ha anche il ricorrere di alcuni numeri). Come si vede, dunque, la figura di Petrarca è assai complessa e contraddittoria. Né ciò si può imputare al poeta, in quanto tale contraddittorietà esprime il profondo travaglio di un’epoca di transizione. La conversione di Petrarca La lettura della canzone alla Vergine può evidenziare la compresenza di temi diversi e spesso conflittuali. Qui ci soffermeremo brevemente su due elementi contrastanti: quelli che sembrano condurre nella stessa direzione di Dante verso una conciliazione tra umano e divino (e quindi recano tracce della raffigurazione di Laura come nuova Beatrice, che ricorre spesso nelle liriche precedenti del Canzoniere); e quelli che, al contrario, accentuano il distacco drammatico tra umano e divino, imponendo al poeta una conversione radicale e il rifiuto dell’amore per Laura, creatura che con la sua bellezza terrena lo ha allontanato dall’amore per Dio. Nella canzone alla Vergine, il poeta si dichiara completamente pentito di un amore terreno che ha fatto di lui un peccatore. Ci troviamo dunque agli antipodi della concezione dantesca, nella quale invece l’amore per Beatrice conduceva verso l’amore di Dio e la beatitudine. La canzone petrarchesca proclama l’intenzione di conformare la propria esistenza a una visione pienamente religiosa, che comporta un rifiuto quasi ascetico dell’amore terreno. Questo rifiuto è espresso in modo sempre più insistente nel corso del testo anche se, all’inizio, si ha ancora l’impressione che la speranza di conciliare umano e divino non sia stata del tutto abbandonata. Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose, amor mi spinge a dir di te parole […] (vv. 1-4). La canzone inizia con una lode alla Vergine anche qui è riproposto il modello dell’Ave Maria alla quale viene attribuito un aggettivo («bella») che, nel Canzoniere, è costantemente riferito a Laura. Il riferimento alla bellezza della Vergine ritorna altre due volte; si parla più oltre dei suoi «belli occhi» (v. 22); e Maria è apostrofata come «Vergine sola al mondo senza exempio, / che ’l ciel di tue bellezze innamorasti» (vv. 53-54). Si potrebbe dunque pensare che il poeta, accostando la figura della Vergine a quella di Laura mediante il tratto della bellezza, voglia segnare una implicita continuità tra amore per la donna e amore per Maria. Ma quest’ipotesi non trova conferma nel testo. Solo una volta infatti, in questa canzone, un termine derivato dall’aggettivo “bello” viene usato con riferimento a Laura: ma il poeta specifica che quella di Laura è una «mortal bellezza» (v. 85), che lo ha condotto verso il traviamento. Nella canzone compare, inoltre, la parola «beatrice» (non più in forma di nome proprio, ma nel suo significato etimologico di “apportatrice di beatitudine”); ma essa viene adoperata esclusivamente come epiteto della Madonna, che al v. 52 è designata come «vera beatrice» (in contrapposizione implicita alla falsa beatrice, ossia Laura). Laura-Medusa e il predominio dell’antitesi La rottura operata da Petrarca rispetto alla soluzione dantesca, del resto, è dichiarata esplicitamente. Nella canzone Laura viene designata come «Medusa» (v. 111), ossia come una creatura che ha il potere di trasformare in pietra chi la guarda. Lo stesso poeta si descrive appunto come una pietra che versa inutili lacrime di dolore («un sasso / d’umor vano stillante»; vv. 112-113). La mortalità di Laura è inoltre sottolineata quasi con crudezza: Vergine, tale è terra, et posto à in doglia lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne et de mille miei mali un non sapea3 […] (vv. 93-95). Se Laura e la Vergine (che rappresentano rispettivamente il peccato e la salvezza) appaiono, nella canzone di Petrarca, come figure contrapposte, è facile immaginare come la figura retorica che meglio rappresenta la visione petrarchesca non sia l’ossimoro, che tende ad avvicinare gli opposti, ma piuttosto l’antitesi che tende a sottolinearne il contrasto. È appunto su un’antitesi tra «terra» e «cielo» (e cioè tra peccato e salvezza) che, a conclusione della prima stanza, il poeta costruisce la conclusione della propria invocazione a Maria (la preghiera vera e propria): […] soccorri a la mia guerra, bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina (vv. 12-13). Nella canzone è dato riscontrare anche diverse metafore connotate con i tratti semantici del “caldo” e del “freddo”. Petrarca, però, contrappone nettamente i termini afferenti ai due campi semantici. La Vergine è infatti invocata così: […] o refrigerio al cieco ardor ch’avampa qui fra i mortali sciocchi […] (vv. 20-21). In questo caso il “caldo” («ardor») designa la passione amorosa, rispetto alla quale Maria potrà fornire «refrigerio»: ed è evidente la connotazione moralmente negativa che in quest’ambito finisce per assumere il “caldo”. Riprese dantesche Se l’antitesi assume, in Petrarca, una rilevanza assente nel parallelo testo dantesco, non mancano tuttavia passi in cui si può notare una continuità tra i due poeti. Petrarca non manca infatti di riprendere la forma ossimorica dell’invocazione (che aveva radici, del resto, nell’innografia mariana latina, conosciuta assai bene da entrambi i poeti). Anche in questa canzone, per esempio, Petrarca si rivolge a Maria chiamandola «del tuo parto gentil figliola e madre» (v. 28), attribuendole ossimoricamente «vera et altissima humiltate» (v. 41) e «verginità feconda» (v. 58). Si potrebbe pensare a una ripresa del modello dantesco, ma occorre avvertire che tale ripresa non si spinge oltre i confini del cielo: il modello dantesco opera insomma ancora nella lode alla Vergine, ma esso viene abbandonato quando entra in questione la terra, e dunque il rapporto tra umano e divino. Laura non è più Beatrice, ma Medusa. Tra cielo e terra si spalanca un abisso evocato dal ricorrere dell’antitesi che solo il più radicale pentimento, aiutato dalla grazia, potrà colmare: Per te pò la mia vita esser ioconda, s’a’ tuoi preghi, o Maria, Vergine dolce et pia, ove ’l fallo abondò, la gratia abonda. Con le ginocchia de la mente inchine, prego che sia mia scorta, et la mia torta via drizzi a buon fine4 (vv. 59-65). […] Vergine, tu di sante lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso, ch’almen l’ultimo pianto sia devoto, senza terrestro limo, come fu ’l primo non d’insania vòto5 (vv. 113-117). Umano e divino: un distacco irriducibile? Nondimeno, mentre accentua con queste antitesi l’irriducibile distacco tra divino e umano, il poeta sembra talora gettare nuovi ponti tra queste due realtà. Così, nel rivolgersi alla Vergine, la può apostrofare come «humana et nemica d’orgoglio» (v. 117), pregandola anche di aiutarlo in nome della natura umana che lo accomuna al poeta («del comune principio amor t’induca»6; v. 118). E, allo stesso modo, insiste sull’Incarnazione come momento in cui Dio stesso ha voluto prendere natura umana: […] ricorditi che fece il peccar nostro, prender Dio per scamparne, humana carne al tuo virginal chiostro7 (vv. 76-78). Nell’invocazione con cui si chiude la canzone, infine, il poeta chiede alla Vergine di raccomandarlo a Cristo, «verace / homo et verace Dio» (vv. 135/136). Il poeta inoltre non si limita ad insistere sull’elemento umano insito nell’Incarnazione. Dichiarando il suo pentimento, egli afferma che, poiché è stato capace di amare Laura con tanta intensità, dovrà certamente dedicare ancor maggiore devozione alla Madonna: […] se poca mortal terra caduca amar con sí mirabil fede soglio, che devrò far di te, cosa gentile?8 (vv. 121-123). Potrebbe scorgersi, in questi versi, una certa dose di ambiguità: se l’amore per Laura (designato con il sostantivo «fede», di chiara connotazione religiosa) può esser visto come premessa e garanzia di un ancor più intenso amore per la Madonna, se quest’ultima, come abbiamo già visto, viene sovente designata con gli aggettivi propri di Laura, si può davvero dire che il pentimento del poeta sia completo e privo di contraddizioni, e che il distacco tra terra e cielo sia per lui definitivo e irriducibile? Un passaggio di civiltà La risposta non appare scontata. Ma essa, comunque, travalicherebbe i limiti di questo approfondimento. Ciò che qui ci interessa è soltanto mostrare come la concezione unitaria in cui culmina il poema dantesco (quella che attribuisce a Maria il merito di aver nobilitato «l’umana natura» e colloca senza esitazioni Beatrice appena un gradino sotto la Vergine stessa) fosse destinata a tramontare con la scomparsa dell’orizzonte di civiltà cui Dante appartiene. La poesia di Petrarca, che è estremamente complessa e a tratti ambigua, pone in maniera nuova, e assai più problematica, la questione del rapporto tra umano e divino. Né è un caso che con Petrarca tramontino altri aspetti della grandiosa concezione dantesca e risulti superato, ad esempio, il classicismo sincretistico che domina nella Commedia [DIV2a]). La personalità umana, dopo lo scandaglio gettatovi da Petrarca, appare molto più contraddittoria e divisa al proprio interno. La rappresentazione di una soggettività scissa apre le porte, per molti versi, alla letteratura (e in particolare alla lirica) moderna. Ma le chiude a una poesia “oggettiva” come quella di Dante, che credeva ancora possibile una rappresentazione unitaria dell’intero creato in prospettiva cristiana. |
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1 Abbiamo già osservato in diverse occasioni lo sforzo da parte di Dante di fornire un’interpretazione unitaria, coerente a significativa alla totalità del mondo. È all’interno di questo stesso sforzo che rientra la poderosa reinterpretazione figurale del mondo classico su cui ci siamo soffermati negli approfondimenti sul sincretismo medievale [DIV2a, DIV2b]; ed è sempre all’interno di questo sforzo che va letta la disponibilità dantesca a rivalutare, al termine della sua opera, perfino perigliose avventure filosofiche come quella dell’aristotelismo radicale (o averroismo), come mostra la sorprendente collocazione tra i beati dello scomunicato Sigieri di Brabante [DIV5]. 2 Si fa qui riferimento all’interpretazione della Vita nuova proposta da Singleton, che legge lo sviluppo dell’amore di Dante per Beatrice secondo lo stesso modello che si applica all’amore mistico dell’anima per Dio. In una prima fase l’amante ricerca la felicità extra nos [G13b]; in una fase successiva si accorge che essa risiede intra nos [G7]; da ultimo, la trova super nos [G15]. 3 Vergine… non sapea: Vergine, una certa donna (tale) è ormai polvere (terra, in quanto Laura è morta) ed ha gettato nel dolore (posto à in doglia) il mio cuore che, quand’era in vita, aveva tenuto nel pianto, e non conosceva uno dei miei mille mali. 4 Per te… a buon fine: Grazie a (Per) te la mia vita può essere felice (ioconda) se per le tue peghiere, o Maria, dove vi fu un grande peccato (’l fallo abondò) <d’ora in poi> ci sarà grande misericordia divina (la grazia abonda); con l’anima supplichevole (con le ginocchia de la mente inchine, metafora) ti prego che tu sia mia guida (scorta) e raddrizzi il mio cammino erroneo (via torta, lett. via storta) verso la giusta meta (a buon fine). Si notino le antitesi tra «fallo» e «grazia» (sottolineata dal ripetersi del verbo “abondare”) e tra l’aggettivo «torta» e il verbo «drizzi» (entrambi riferiti a «via»). 5 Vergine… vòto: Vergine, tu riempi (adempi) il mio cuore stanco (lasso) di lacrime sante e pie, <in modo> che almeno l’ultimo pianto sia devoto e senza fango (limo) terrestre, come il primo fu non privo di follia (non d’insania vòto). L’«ultimo pianto» è in antitesi con il «primo», e la devozione di quest’ultimo si contrappone a sua volta all’«insania» del primo. 6 Il verso potrebbe essere però interpretato in modo diverso, intendendo come «comune principio» Dio. 7 Ricorditi… chiostro: Ricordati che il nostro peccato indusse Dio, per salvarci (scamparne) a prendere la natura (carne) umana nel tuo grembo (chiostro, metafora) virginale. 8 se poca… cosa gentile: se sono solito amare con così straordinaria (mirabil) devozione (fede) una creatura umana destinata a morire (poca mortal terra caduca), cosa dovrò fare con (di) te, creatura (cosa) nobile? |