DANTE ALIGHIERI
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G15 - Oltre la spera che più larga gira |
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[Vita nuova, cap. XLI]1 […].
Oltre la spera che più larga gira passa ’l sospiro ch’esce del mio core: intelligenza nova, che l’Amore piangendo mette in lui, pur su lo tira2. Quand’elli è giunto là dove disira, vede una donna, che riceve onore, e luce sì, che per lo suo splendore lo peregrino spirito la mira3. Vedela tal, che quando ’l mi ridice, io no lo intendo, sì parla sottile al cor dolente, che lo fa parlare4. So io che parla di quella gentile, però che spesso ricorda Beatrice, sì ch'io lo ’ntendo ben, donne mie care5. |
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1 Cap. XLI: omettiamo sia la prosa introduttiva, sia la “divisione” del sonetto, che in questo capitolo è particolarmente lunga e contrariamente a quanto di solito avviene viene collocata prima del testo poetico. 2 Oltre la spera… lo tira: Il sospiro che esce dal mio core passa al di là della sfera celeste (spera) che ha la più larga circonferenza (che più larga gira; si tratta del Primo Mobile, il più esterno e dunque il più grande dei nove cieli mobili; passando al di là di questa sfera il sospiro raggiunge l’Empireo, sede dei beati); una eccezionale (nova) capacità di intendere (intelligenza), che l’Amore mette in esso tramite il pianto (piangendo, gerundio non riferito allo stesso soggetto della reggente: chi piange è qui Dante), lo tira continuamente (pur) verso l’alto (su). Nella “divisione”, Dante chiarisce che questo «sospiro» deve essere identificato con il suo pensiero, designato metonimicamente tramite un suo effetto («Ne la prima <parte> dico ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d’alcuno suo effetto»). 3 Quand’elli… la mira: Quando esso (cioè il sospiro) è giunto nel luogo desiderato, vede una donna che viene onorata e splende (luce, verbo) tanto che, a causa del suo splendore, lo spirito pellegrino (che si identifica con il «sospiro» di v. 1) la contempla (mira). 4 Vedela… parlare: <Il sospiro> la vede così perfetta (tal) che, quando me lo riferisce, io non lo capisco (intendo), tanto parla profondamente (sottile) al <mio> cuore dolente, che lo spinge a parlare. Dall’alternanza dei complementi di termine in dipendenza dei verba dicendi di questa terzina («’l mi ridice», v. 9; «parla sottile / al cor dolente», vv. 10-11) comprendiamo che il sospiro-pensiero parla al cuore e, contemporaneamente, al poeta: si può dunque dire che la persona del poeta si identifichi qui per sineddoche con il proprio cuore. Il cuore «fa parlare» il sospiro «in quanto è dal suo rimpianto che è nata l’”intelligenza nova” d’amore e il bisogno di esprimerla» (De Robertis). 5 So io… mie care: Io so <solo> che parla di quella <donna> gentile, poiché (però che) spesso ripete il nome di (ricorda) Beatrice, sicché io intendo bene questo (lo, cioè l’oggetto del discorso), o mie care donne. È questa la prima (e l’ultima) volta che il nome di Beatrice viene inserito in un testo poetico della Vita nuova. L’invocazione finale alle donne rimanda al destinatario privilegiato delle rime in lode di Beatrice, individuato già in Donne ch’avete intelletto d’amore [G8b]. Inoltre, come il narratore spiega nella prosa introduttiva (che abbiamo omesso), questo sonetto è stato scritto su invito di due «donne gentili» desiderose di leggere le poesie di Dante. |
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G15 - Analisi del testo | |
Livello metrico Sonetto, con schema ABBA, ABBA; CDE, DCE. Le quartine presentano il classico schema a rime incrociate. Le terzine presentano le rime in una disposizione asimmetrica; ma le rime in C sono collegate dall’assonanza («ridice» : «sottile» : «gentile : «Beatrice»), con effetto quasi di rima baciata. Livello lessicale, sintattico e stilistico Nell’ultimo sonetto della Vita nuova metrica e sintassi tendono a coincidere: le due quartine e le due terzine sono tutte chiuse da un punto fermo. Due enjambements si incontrano tra il terzo e il quarto verso di ciascuna delle quartine. Nella prima quartina dominano i verbi di moto, che da un lato descrivono il moto perenne dei cieli («gira», v. 1), dall’altro lo straordinario moto ascensionale del «sospiro» che esce dal cuore di Dante («passa», v. 2; «tira», v. 4). Una volta placatosi il moto ascensionale (con il «giunto» di v. 5), nella seconda quartina e nelle terzine si succedono due fondamentali serie verbali: a) da una parte i verba videndi («vede», v. 6; «mira», v. 8; «Vedela», v. 9), che si collocano tra la seconda quartina e la prima terzina, collegate tra loro con il sistema delle coblas capfinidas («la mira» - «Vedela», vv. 8-9); b) dall’altra parte i verba dicendi («ridice», v. 9; «parla», v. 10; «parlare», v. 11; «parla», v. 12; «ricorda», v. 13), che si collocano a cavallo tra la prima e la seconda terzina, anch’esse tra loro collegate dal sistema delle coblas capfinidas («parlare» - «parla», vv. 11-12). Soggetto di entrambe le serie verbali è sempre il «sospiro» di v. 1, designato a v. 8 come «peregrino spirito». Il passaggio dalla serie dei verba videndi a quella dei verba dicendi è segnato da una proposizione consecutiva (vv. 9-10), costrutto sintattico generalmente connesso con la poetica dell’ineffabile [G13b]. Un’altra serie di verbi ha come soggetto «io». Si tratta di verbi che hanno tutti attinenza con il termine «intelligenza» di v. 3: «io no lo intendo» (v. 10); «So io» (v. 12); «io lo ’ntendo ben» (v. 14). Infine, sono due i verbi che hanno come soggetto Beatrice; il primo in verità esprime un’azione di cui la donna è solo destinataria («riceve onore»); il secondo, «luce» (connesso con il sostantivo «splendore»), immerge la donna in un fulgore abbagliante, che solo al «peregrino spirito» è dato di guardare. Livello tematico Una forma più alta di conoscenza Il sonetto utilizza gli strumenti espressivi del cavalcantismo, rappresentando il suo tema per mezzo della consueta teatralizzazione dell’interiorità del poeta. Lontanissimo da Cavalcanti è però il significato complessivo della poesia. Gli attori in scena sono qui il sospiro uscito dal cuore (che, come chiarisce la “divisione”, deve essere identificato metonimicamente con il pensiero di Dante) e il suo stesso cuore (che si identifica, stavolta per sineddoche, con il poeta). Dapprima il sospiro-pensiero esce dal cuore per elevarsi fino all’Empireo. A spingerlo verso l’alto è Amore, che fa leva sul pianto per far nascere in lui, quasi per reazione e slancio di superamento del dolore, la «intelligenza nova». È probabile che tale pianto si debba al pentimento di Dante per essersi allontanato dalla lode di Beatrice (un traviamento di cui Dante si è pentito a seguito di una visione in cui gli è apparsa la sua donna, narrata al cap. XXXIX). Giunto all’Empireo, il sospiro-pensiero ha una visione di Beatrice. Poi, tornato presso il cuore, gli riferisce la sua visione, parlando però in modo così profondo che il cuore-poeta può intendere soltanto il nome di Beatrice. Attraverso la sofferenza e il pentimento, dunque, il poeta è finalmente giunto alla forma più alta della conoscenza. Il percorso della Vita nuova è iniziato con la ricerca di un bene che si trova extra nos (il saluto di Beatrice); è passato attraverso la fase in cui l’amore per Beatrice creatura eletta che simbolicamente rimanda a Dio trova la propria ricompensa in se stesso (intra nos); ora esso si conclude con l’ascesa dell’anima al di sopra di se stessa (super nos) e l’illuminazione mistica. Le tre fasi dell’opera di Dante coincidono in sostanza con i tre stadi dell’amore mistico. Si tratta però adesso di vedere come quest’ultima forma di conoscenza possa diventare poesia. L’inadeguatezza dell’espressione Le due dramatis personae, il sospiro e il cuore, possono identificarsi in sostanza con due momenti della creazione poetica: a) il sospiro-pensiero rappresenta il momento dell’ispirazione, che la ha natura visionaria di un raptus mistico (come già lasciava intendere, benché in forma implicita, il capitolo XIX della Vita nuova, con cui si inaugurava la poetica della lode [G8a]). Questa ispirazione raggiunge vertici inusitati di profondità intellettuale («intelligenza nova, v. 3); b) il cuore rappresenta invece il momento cosciente e razionale dell’espressione. Il cuore-poeta tenta invano di “intendere” ciò che lo spirito gli «ridice»; nonostante l’uso di numerosi verba dicendi, è chiaro che lo spirito-pensiero usa, per descrivere la miracolosa perfezione di Beatrice nell’Empireo, un linguaggio non umano: esso si esprime in modo così «sottile» (v. 8) che il cuore-poeta non può intendere nulla di più del nome della donna. Tra visione e espressione, ispirazione e parola poetica si apre dunque un solco, che è tanto più profondo quanto più lontana dal mondo terreno è la visione estatica che la poesia vorrebbe rappresentare. Il testo si chiude dunque sull’impossibilità di comprendere a fondo con la ragione, e tanto più di esprimere con la parola, il contenuto della visione. Il tema dell’impossibilità di parlare compiutamente dell’altezza di Beatrice era già presente in numerosi componimenti “in vita” della donna (si vedano Donne ch’avete intelletto d’amore [G8b] e Tanto gentile e tanto onesta pare [G13b]). Ma qui l’espressione poetica della visione risulta ancora più ardua: adesso Beatrice è apparsa al pensiero di Dante non più in terra, ma direttamente nella gloria del cielo. Non è un caso che questo sia l’ultimo testo poetico della Vita nuova. Dante, ormai intenzionato a dedicarsi integralmente alla lode di una Beatrice divenuta a tutti gli effetti una santa del Paradiso, dovrà attraversare una maturazione poetica che lo condurrà ben al di là dei presupposti del suo «libello»: il frutto di questa maturazione sarà, evidentemente, la Divina Commedia. |
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