GUIDO CAVALCANTI
E9 - Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
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Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti1?

Ch’2 una paura di novi tormenti
m’aparve3 allor, sì crudel e aguta4,
che l’anima chiamò5: «Donna, or ci aiuta,
che gli occhi ed i’ non6 rimagnàn dolenti!

Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente7,
tanto che8 s’ode una profonda9 voce

la quale dice: – Chi gran pena sente
guardi costui, e vederà ’l su’ core
che Morte ’l porta ’n man tagliato in croce10–».

1 Perché…senti?: Perché non mi furono accecati (dispenti) o cavati (tolti, secondo le pratiche di tortura e punizione dell’epoca) gli occhi, così che, per effetto della loro capacità di vedere (de la lor veduta) non fosse giunta (venuta) nella mia mente la vista di colei che mi dice: «Ascoltami, se è vero che mi senti nel cuore»? L’intera quartina, formata da un’interrogativa retorica, ha il valore di un’imprecazione; ne è motivo l’esortazione imperativa del v. 4, pronunciata dall’immagine della donna, che si è insediata nel cuore e nella mente dell’amante. La mancanza del soggetto espresso di «venuta», al v. 3, esprime con efficacia la presenza del phantasma femminile come un dato di fatto ormai drammaticamente acquisito. L’espressione ha la forza disperata delle maledizioni di Giobbe, 3, 10 sgg., come ha rilevato De Robertis: «[…] poiché non ha chiuso il varco del ventre che mi portava, / e non ha nascosto la sofferenza ai miei occhi! / Perché non sono morto nella vulva, non sono spirato appena uscito dal grembo? / Perché due ginocchia mi hanno accolto, / perché due mammelle mi hanno allattato»? Vale la pena di aggiungere, per l’interpretazione del testo, anche il versetto 25, che giustifica il motivo della disperazione: «[…] perché ciò che temo mi accade / e quel che mi spaventa mi raggiunge». In tal modo l’insediamento dell’immagine della donna nella mente del poeta assume i tratti biblici di un evento ineluttabile, misterioso e terrificante.

2 Ch’: infatti; ha il valore del latino nam.

3 aparve: La stessa paura invade il cuore in relazione al sentire in Noi siàn le triste penne isbigottite [E10], vv.7-8: «La man che ci movea dice che sente / cose dubbiose [spaventose] nel core apparite».

4 aguta: acuta.

5 l’anima chiamò: l’anima esclamò, gridò. Si assiste alla frammentazione caratteristica della persona dell’amante: l’anima invoca l’aiuto della donna, perché gli occhi ed essa stessa non rimangano «dolenti», vale a dire in preda a ciò che li rende sofferenti, ma in realtà perduti, morti, come si intende dal v. 9. C’è una sorta di esorcizzazione della situazione tragica.

6 che… non: introduce una finale negativa, come il ne latino.

7 Tu…pietosamente: Tu, donna, li hai lasciati vicini a morire, al punto che Amore giunse a compiangerli pietosamente. Gli occhi, ridotti in fin di vita a causa della mirabile visione, sono compianti da Amore, secondo il rituale, finché muoiono.

8 tanto che: fino a che. Nesso consecutivo.

9 profonda voce: voce che proviene dal profondo dell’anima. La personificazione della «voce» è una delle invenzioni più originali di Cavalcanti: attore autonomo e insieme espressione del poeta, in quanto timbro della poesia. In questo caso è generata dalla desolazione dell’anima, il cui grido disperato di pietà è stato ignorato dalla donna. Ma evocata di per sé quasi come presenza autonoma, rimanda a forti suggestioni bibliche. In particolare, insieme al «chiamò» del v. 7, richiama il «De profundis clamavi» di Salmi 129, 1; attraverso la forma «s’ode» evoca Geremia 3, 21: «Sui colli si ode una voce, / pianto e gemiti degli Israeliti» e 9, 19: «[…]una voce di lamento si ode da Sion». Abbiamo già incontrato la voce, in situazione analoga, in Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core [E6], che nel canzoniere cavalcantiano segue immediatamente il testo preso in esame qui; essa torna anche in Perch’i’ non spero di tornar giammai [E11].

10 Chi…croce: chi pensa di provare una grande pena osservi costui, e vedrà il suo cuore che Morte porta in mano tagliato a forma di croce. Si tratta di un’invocazione dell’esperienza di dolore degli altri, per verificare quanto essa sia inferiore a quella provata dal poeta. Il pronome personale «’l» (v.14) è pleonastico, in quanto la funzione di complemento oggetto è rivestita dal relativo «che» (cfr. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira [E7], v. 1). Il tono è quello delle Lamentazioni di Geremia, 10, 1: «O vos qui […] attendite et videte […]»; l’immagine è quella del cuore crocifisso (De Robertis). La variante «morto» in luogo di «Morte», al v. 14 (proposta da Tanturli e Martelli), farebbe assumere a «costui» del v. 13 valore di soggetto della proposizione relativa. Il significato sarebbe allora: vedrà costui che porta in mano il suo cuore morto, tagliato a forma di croce. In tal modo si otterrebbe la figura dell’amante-martire che ostenta l’oggetto del suo martirio, come, secondo l’iconografia tradizionale, Santa Lucia fa con gli occhi. I versi finali andrebbero allora messi in relazione con i primi due: il poeta, martirizzato nel cuore, avrebbe preferito subire la sorte della santa (De Robertis). Per l’immagine del cuore segnato dagli effetti dell’amore vedi anche Tu m’hai sì piena di dolor la mente [E8], vv. 13-14.


E9 - Analisi del testo
Livello metrico
Sonetto, costituito classicamente da due quartine a rime incrociate e due terzine a tre rime, secondo lo schema: ABBA, ABBA; CDE, DCE.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Il sonetto ha un’intonazione fortemente drammatica. L’evocazione di un universo biblico di maledizione, invocazione, lamentazione, voce (attraverso le citazioni da Giobbe, Salmi, Geremia, secondo le indicazioni delle note) amplifica e generalizza gli elementi topici della sofferenza d’amore: proiettandola su uno sfondo di dolore e di desolazione esistenziale, essa presta all’esperienza soggettiva i tratti di una condizione di universale deiezione. L’interrogativo «Perché?», all’inizio del testo, corrisponde al radicale rifiuto di Giobbe della vita donata dalla divinità – vale a dire della visione della donna e dell’amore –; l’invocazione salmica dell’uomo disperato verso Dio (verso la donna) rimane inascoltata; segue quindi «il motivo della dimostrazione e della partecipazione del proprio dolore, che ritorna nei termini […] delle Lamentationes gereminiane» (De Robertis).
Tutto ciò assumerebbe il timbro monolitico dell’eloquenza biblica se Cavalcanti non animasse il sonetto in forma drammatica (cioè propriamente teatrale) secondo i suoi modi caratteristici:
1. con la presenza di varie personae: l’immagine della donna, misteriosamente accampatasi nella mente dell’amante, «l’anima», «gli occhi», «Amore», «una voce»;
2. con l’uso della sermocinatio, la figura retorica per cui il poeta fa parlare i vari personaggi della sua rappresentazione. Il gioco dei tempi verbali – dal passato remoto al passato prossimo, quindi al presente – fa sì che il drammatico concatenarsi di azioni e conseguenze, di cui i personaggi sono attori, venga rappresentato dal punto di vista del suo finale, dopo, cioè, la morte metaforica del poeta.
La tensione del testo lo rende ad una prima lettura difficilmente comprensibile. Il ritmo è spezzato da evidenti e forti enjambements. I periodi non sono fluidi e scorrevoli, come si addice ai componimenti stilnovistici, ma al contrario assumono un andamento tortuoso, in cui domina l’ipotassi; essi sono inoltre frammentati dagli inserti di discorso diretto. La sintassi segue lo svolgimento serrato di cause e di effetti affidato alle proposizioni consecutive che, inquadrate eloquentemente dall’interrogativa retorica, occupano in ordine le prime tre strofe, lasciando alla quarta la dimostrazione del dolore: «Perché non fuoro a me gli occhi dispenti / o tolti, sì che de la lor veduta / non fosse nella mente mia venuta / a dir…» (vv.1-4); «…una paura di novi tormenti / m’aparve allor, crudel e aguta, / che l’anima chiamò…» (vv. 5-7); «Tu gli ha’ lasciati , che venne Amore / a pianger…» (vv. 9-10); «…tanto che s’ode una profonda voce…» (v. 11). Lo stesso andamento sintattico si ha ai vv. 7-8, con la richiesta d’aiuto seguita da proposizione finale: «Donna, or ci aiuta, / che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti!». La logica angosciata del discorso è sottolineata dall’uso massiccio dei «che» (sono infatti sette per quattordici versi; nella seconda quartina si presentano in posizione anaforica).
La drammatizzazione teatrale del sonetto, e la presenza di tanti attori al suo interno, fa sì che in ogni strofa possiamo notare almeno tre soggetti sintattici, con un effetto di sconnessione tra le frasi a cui contribuisce, al contrario, l’ellissi del soggetto di «fosse» […] «venuta», al v. 3 (la confusione di significato aumenta per la rima paronomastica «venuta»-«veduta», ai vv. 2-3).
Complesso, infine, anche l’uso della sermocinatio: nella prima quartina interviene la donna; a partire da metà della seconda terzina parla l’anima del poeta; ma all’interno di questo discorso ce n’è uno di secondo grado, poiché l’anima riferisce le parole dette dalla «profonda voce».

Livello tematico
Il tema affrontato è lo studio degli effetti dell’innamoramento, come nel testo precedente [E8]. Il topos viene ribadito però attraverso una struttura del tutto innovativa.
Nella prima quartina l’invettiva biblica dell’interrogativa retorica ribadisce, negandolo, il meccanismo topico dell’innamoramento, dalla visione della donna tramite gli occhi alla presentazione del suo phantasma nel cuore-mente. I quattro versi hanno valore di angosciato consuntivo per quanto il poeta afferma sia accaduto in seguito alla visione.
La seconda quartina si apre infatti con un «che» (con il valore del nam dichiarativo latino) e ripropone il tema della paura: come in Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira [E7] l’apparizione della donna nello spazio esterno è interpretata come un evento soprannaturale, così la stessa comparsa del suo phantasma nella mente (cioè nell’immaginazione e nella memoria) del poeta risulta il frutto di una misteriosa e terrificante onnipotenza; in questo caso è la stessa «paura» personificata ad apparire nella mente: la prospettiva di nuovi tormenti d’amore è per il poeta tanto crudele che determina la frammentazione della sua persona; l’anima invoca il soccorso della donna per sé e per gli occhi, sottoposti a sofferenza mortale.
Con una cesura definita strutturalmente dal passaggio dalle quartine alle terzine, si espone il risultato di tale invocazione: la donna ha abbandonato l’anima e gli occhi al loro destino, tanto pietoso da aver provocato la compassione d’Amore stesso, giunto a piangere sugli occhi fin quando essi non sono morti. Nel presente rimane una voce, probabilmente sorta dal profondo dell’anima, anch’essa abbattuta da una profonda desolazione, che presenta il dolore del poeta e chiede conforto, nei modi esposti nella seconda terzina.
Chi prova dolore, vi si dice, lo confronti con quello del poeta, e vedrà che porta il cuore ferito a forma di croce, quasi martire che testimoni nella carne i segni della sua fede d’amore.
L’azione si svolge in un contesto completamente privo di spazialità e temporalità, in un clima allucinato e del tutto indeterminato, reso ancora più drammatico dalla «voce» che viene dal profondo, non ben definita e perciò tanto più inquietante. Ancora una volta l’amore non ci appare come esperienza nobilitante ma come trauma violento, che porta inevitabilmente alla frammentazione dell’io; tale frammentazione non va intesa secondo i canoni dell’esperienza lirica moderna, bensì si esprime attraverso la rigorosa fisiologia averroistica che abbiamo già precedentemente illustrato.