GUIDO CAVALCANTI
E7 - Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira
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Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre1
e mena seco2 Amor, sì che parlare
null’omo pote3, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira, 5
dical’Amor, ch’i’ nol savria contare4:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira5.

Non si poria contar la sua piagenza6,
ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute7, 10
e la beltate per sua dea la mostra8.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza9.

1 Chi… âre: Chi è costei che avanza, che ognuno (ogn’om, impersonale) guarda con stupore, e che fa vibrare di luce (chiaritate) l’aria intorno a sé? Il pronome “la” è pleonastico (la funzione di complemento oggetto è già svolta dal relativo “che”). L’interrogativo iniziale riecheggia due passi biblici: il Cantico dei Cantici (6, 9: “Quae est ista quae progreditur?”) e Isaia, 63, 1: (“Quis est iste, qui venit?”). La domanda, che rimane senza risposta, crea un clima di mistero e di sospensione. Tanto più che, come ha notato Contini, nel Medio Evo l’esegesi cristiana riferiva questi passi biblici alla Vergine. L’incedere della donna viene quindi accostato a un’apparizione soprannaturale, come sottolinea anche l’alone luminoso di cui la figura è circonfusa (l’idea del riverbero dell’aria è sottolineata al v. 2 dall’allitterazione delle consonanti t e r).

2 mena seco: porta con sé.

3 null’omo pote: nessuno può; null’omo è un gallicismo.

4 dical… contare: lo dica Amore, perché io non saprei spiegarlo, esprimerlo.

5 cotanto… ira: a tal punto si manifesta a me (mi pare) come signora (donna, dal latino domina) della benignità (umiltà), che, in confronto a lei (ver’ lei), io chiamo “superbia” (ira) ogni altra donna. Il pronome personale “la” è pleonastico.

6 Non… piagenza: Non si potrebbe descrivere la sua bellezza (piagenza). Ribadisce il concetto della ineffabilità della bellezza femminile, già espresso al v. 6, passando però dal piano dell’impossibilità soggettiva (“i’ nol savria contare”) a quello dell’impossibilità assoluta.

7 ch’a le’…virtute: perché dinanzi a lei si inginocchia ogni nobile virtù: si riprende il tema del v. 7, in cui la donna appare già come domina: così come la benignità, ogni altra virtù non può che renderle omaggio.

8 e la beltate… mostra: e la stessa virtù della bellezza la indica come sua dea. La donna appare dunque come una miracolosa, ma sensibile manifestazione di virtù ideali, tra cui spiccano la benignità (“umiltà”) e la bellezza.

9 Non… canoscenza: La nostra mente (per il significato di questo termine si veda l’analisi del testo) non fu mai (già) così elevata, e non fu posta in noi tanta perfezione (salute) che possiamo adeguatamente (propiamente) averne conoscenza. Il pronome personale “n’” può riferirsi alla donna, ma sembra più pertinente collegarlo alle “virtù” (“umiltà” e “beltate”) di cui essa è la manifestazione sensibile.


Analisi del testo
Livello metrico
Sonetto con rime incrociate, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC. In tale schema l’omofonia delle rime è molto più serrata nelle quartine. Nelle terzine restano libere da riprese foniche le prime tre rime, con un incremento notevole dell’ariosità del dettato, affidato solo alla simmetria degli endecasillabi; la retrogradatio della seconda terzina, con perfetta dialettica, crea una nuova simmetria nella nuova succesione di rime. Le rime in C restano comunque distanziate da quattro versi.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Sul piano lessicale, è da notare il frequente ricorso a sostantivi astratti (il latinismo “chiaritate”, “umiltà”, “ira”, il provenzalismo “piagenza”, e poi “virtute”, “beltate”, “salute”, “canoscenza”), che contribuiscono a creare un’atmosfera rarefatta, nella quale il dato sensibile tende a sfumare. Siamo all’opposto della teatralizzazione dei moti dell’anima, osservata nel sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core: mentre, in quel caso, la precisione terminologica mirava a dare concretezza a moti interiori ordinariamente non rappresentabili in maniera visiva, qui un dato concreto (il passaggio della donna amata) viene trasportato in una dimensione trascendente (sottolineata sia dai richiami scritturali, sia dalla esplicita invocazione a Dio del v. 5).
Di grande rilevanza anche il ruolo delle negazioni: “null’omo” (v. 4), “i’ nol savria contare” (v. 6), “Non si poria contar” (v. 9), “Non fu sì alta” (v. 12), “non si pose” (v. 13). I due ultimi periodi del sonetto (corrispondenti alle due terzine) iniziano con l’avverbio “non”; in due casi (ai vv. 6 e 9) la negazione si riferisce al verbo “contare”: ne risulta una forte insistenza sull’impossibilità, per la parola poetica, di descrivere adeguatamente l’apparizione della donna. Con questa enunciazione di una poetica dell’ineffabile, Cavalcanti si colloca agli antipodi di Guinizzelli [qN2]).
Sul piano sintattico sono frequenti le relative e le consecutive. È presente un enjambement (vv. 3-4).

Livello tematico
Il tema di questo sonetto è quello, già guinizzelliano, della lode della donna amata. Sono molti, sia sul piano tematico che su quello formale – per esempio nelle parole-rima –, i riferimenti a Io voglio del ver la mia donna laudare [E2]. A prima vista dunque la rappresentazione della figura femminile, di cui fin dalle quartine si sottolinea la trascendenza (con l’attribuzione addirittura di tratti mariani) sembrerebbe ricondurre il componimento di Cavalcanti nell’alveo di uno stilnovismo cristiano (molti tratti, tra cui la stessa poetica dell’ineffabile, sembrano anticipare Dante). In realtà, se è vero che la donna appare come una figura superiore e inattingibile, non ci sembra che questo contraddica i presupposti averroistici del pensiero-poesia di Cavalcanti. Tutto sta a capire cosa debba intendersi per “trascendenza” in questo contesto. Più che apparire come un vero e proprio angelo, la donna è qui infatti presentata come una manifestazione sensibile dell’“umiltà” e della “beltate”: manifestazione dunque di due “virtù”, di altissimi ideali (o di forme, se vogliamo usare la terminologia aristotelica) che possono essere conosciuti solo dall’intelletto e per giungere ai quali si deve andare oltre l’impressione lasciata sui nostri sensi dal phantasma.
L’apparizione della donna ha, a ben vedere, conseguenze paradossali. Da un lato essa è la manifestazione sensibile di un mondo ideale e perfetto, che può essere conosciuto solo intellettualmente. Dall’altro però proprio la sua apparizione impedisce all’uomo di trascendere la percezione sensibile, di elevarsi alla conoscenza intellettuale della “umiltà” e della “beltate”. È questa appunto l’eterna sconfitta dell’uomo innamorato: egli deve confessarsi incapace di conoscere queste “virtù” proprio nel momento in cui, in qualche modo, le “vede”.
Appare chiaro che l’uomo sia destinato a questa sconfitta. In primo luogo, ce lo dimostra l’insistenza sull’impossibilità di rappresentare adeguatamente con la parola l’apparizione della donna: dapprima (vv. 3-4) essa toglie la parola agli uomini che la vedono; poi (v. 6) il poeta proclama la sua personale impossibilità di descrivere (“contare”) la sensazione prodotta dal suo sguardo; infine (v. 9) l’impossibilità di “contare” non è più solo dell’io lirico, ma diviene universale (“Non si poria contar”).
Le ragioni di quest’insistenza sulla poetica dell’ineffabile (un vero e proprio climax che parte dal verso 6) si chiariscono nell’ultima terzina, dove l’impossibilità di “contare” viene fatta discendere direttamente dall’impossibilità di avere “canoscenza”: in altre parole, non si può dire ciò che non si può sapere. La donna, abbiamo detto, è manifestazione sensibile dell’“umiltà” e della “beltate”; ma la compiuta conoscenza di queste idee (non sensibili, ma universali e puramente intellettuali) non può essere data all’uomo innamorato. La “mente” infatti non può giungere a quell’altezza (v. 12), all’uomo non è data questa possibilità di salvezza (“salute”, v. 13)1. E ciò perché la mente (come abbiamo chiarito nell’analisi di Voi che per li occhi mi passaste ’l core [E6]) non è l’intelletto, ma piuttosto una parte dell’anima sensitiva, e precisamente il luogo della memoria e dell’immaginazione. Secondo la filosofia averroistica l’intelletto (che può conoscere le verità universali senza il continuo supporto dei sensi) non è dato ai singoli uomini. Esiste soltanto un intelletto unico e universale, immortale, comune all’intera umanità (l’anima del singolo uomo è invece destinata a perire). È vero che per Averroè l’intelletto si congiunge (copulatur) ai singoli uomini, i quali contribuiscono alla conoscenza e possono, a loro volta, riceverla, ma per far questo essi devono saper astrarre dalla visione sensibile, andare oltre il phantasma che domina la memoria e l’immaginazione: cosa, come sappiamo, impossibile per l’uomo in preda alla passione amorosa.
Si spiega quindi perché la “mente” (che è appunto, lo ripetiamo, il luogo della memoria e dell’immaginazione) non porta l’uomo innamorato verso il luminoso cammino della conoscenza, ma piuttosto lo allontana da essa. Come si vede, ancora una volta, la terminologia di Cavalcanti è rigorosissima. La trascendenza delle verità intellettuali, di cui la donna è manifestazione sensibile, lungi dal disegnare, come qualcuno ipotizza, il ritratto di un Cavalcanti vicino all’ortodossia cattolica, sembra confermare appieno le radici averroistiche del pensiero di cui si nutre la sua poesia.

1 È significativo il fatto che il termine “salute”, desunto da Guinizzelli, sia qui presente in un enunciato negativo; lo stesso accade dell’avverbio “propriamente”, anch’esso guinizzelliano.