La Divina Commedia
DIV11 - Nomina e res
*
[Paradiso, canto XII, vv. 46-81]
Il canto XII del Paradiso ha come protagonista san Domenico. Analogamente a quanto avviene nel canto precedente, dedicato a san Francesco [DIV10], il santo non prende direttamente la parola: la sua esistenza viene ripercorsa in un panegirico affidato a un esponente dell’ordine “concorrente”. Mentre nel canto XI san Francesco era stato elogiato dal domenicano Tommaso d’Aquino, qui sarà il francescano Bonaventura da Bagnoregio a tessere le lodi di san Domenico.
Prima di presentare l’elogio, Bonaventura ricorda che entrambi gli ordini mendicanti fondati nel ’200 sono stati voluti da Dio per risollevare la Chiesa in difficoltà; e, come già aveva fatto Tommaso nel canto precedente, egli concluderà il suo discorso con una riflessione critica, deplorando la decadenza dell’ordine francescano al quale egli stesso appartiene.
Il brano riportato in quest’approfondimento ripercorre un preciso momento della vita di san Domenico: la nascita e la prima infanzia, cui è dedicata una parte rilevante dell’elogio. In questi versi, il poeta si sofferma sul valore simbolico profeticamente inscritto nel nome di Domenico e in quelli dei suoi genitori.

In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire, 48

non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, 51

siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga1: 54

dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; 57

e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta2. 60

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutua salute, 63

la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede3; 66

e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto4. 69

Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo5. 72

Ben parve messo e famigliar di Cristo:
che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo6. 75

Spesse fiate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: “Io son venuto a questo”7. 78

Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice8! 81


1 In quella parte… e soggioga: In quella parte (l’occidente) dalla quale Zefiro (vento primaverile che proviene da ovest) nasce (surge) per fecondare (aprire) la vegetazione nascente (le novelle fronde) di cui si vede rivestire l’Europa, non molto lontano dalla costa su cui si infrangono le onde (al percuoter de l’onde, metonimia) <dell’Oceano Atlantico> dietro le quali, <affaticato> per la lunga corsa affannosa (foga; si ricordi che durante l’estate i giorni sono più lunghi), talvolta (cioè nel solstizio d’estate) il sole si nasconde ad ogni uomo, siede la fortunata Calaroga (città della Castiglia, detta «fortunata» proprio perché diede i natali a san Domenico), sotto la protezione del grande stemma (scudo) <dei re di Castiglia>, nel quale il leone si trova nella parte inferiore (soggiace) e in quella superiore (soggioga). Le tre terzine sono dominate dalla perifrasi. San Bonaventura introduce l’elogio di Domenico – in analogia con quanto aveva fatto san Tommaso nel canto precedente [DIV10] – partendo da una minuziosa individuazione dei luoghi in cui è ambientato il racconto. Mentre per Francesco s’era parlato di Oriente, qui il luogo è collocato all’estremo occidente del mondo conosciuto, presso le sponde dell’Atlantico. La perifrasi che indica tale luogo utilizza (come già in Paradiso, XI, vv. 50-51) precise nozioni astronomiche circa il corso che compie il sole in determinati periodi dell’anno («talvolta»). La perifrasi araldica sullo scudo di Castiglia si chiarisce invece osservando che esso era diviso in quattro quadranti: due di essi (disposti in diagonale) ripetevano la raffigurazione di un leone d’argento; gli altri due, sempre disposti in diagonale, rappresentavano ciascuno una torre. Pertanto ognuna delle due figure era presente sia nella parte superiore dello scudo che in quella inferiore.

2 dentro vi nacque… lei fece profeta: dentro <Calaroga> nacque il devoto amante (drudo) della fede cristiana, il santo campione (atleta, termine spesso utilizzato nell’agiografia) benefico con i cristiani (a’ suoi) e duro (crudo) con gli eretici (a’ nemici); e non appena (come) la sua anima (mente) fu creata, essa fu tanto () piena (repleta, latinismo) di potente (viva) virtù che, <mentre egli era ancora> in grembo alla (ne la) madre, conferì a lei il dono della profezia. La madre di Domenico, infatti, sognò di partorire un cane bianco e nero, con in bocca una fiaccola che avrebbe incendiato il mondo. I colori del cane prefigurano quelli dell’abito dei domenicani, mentre la fiaccola simboleggia l’ardore con cui la predicazione di Domenico infiammerà i cristiani.

3 Poi che le sponsalizie… de le rede: Dopo che al sacro fonte <battesimale> fu celebrato il matrimonio (le sponsalizie) tra lui e la fede, dove (u’, dal latino ubi, riferito a «fonte») essi si portarono in dono (dotar di) la reciproca salvezza (mutua salute), la donna che diede il consenso per lui (ossia la madrina che, nel rito del battesimo, risponde per conto del bambino alle domande del sacerdote) vide in sogno il miracoloso effetto (frutto) che doveva uscire da lui e dai suoi seguaci (de le rede, lett. dagli eredi). Come nella vita di san Francesco, anche in quella di san Domenico c’è un matrimonio simbolico: egli sposa infatti la fede, ricevendo da essa la salvezza (come ogni cristiano), ma anche donando salvezza ad essa (perché destinato a preservarla dalle eresie). Secondo il racconto agiografico, Domenico apparve in sogno alla madrina con una stella in fronte, che simboleggiava la missione assegnata a lui e ai suoi seguaci di guidare i cristiani verso la vera fede.

4 e perché… di cui era tutto: ed affinché egli fosse anche nel nome (costrutto, cioè vocabolo) ciò che era <nella realtà>, da qui (quinci, cioè dal cielo) discese (si mosse) un’ispirazione divina (spirito) affinché fosse chiamato (a nomarlo) con l’aggettivo possessivo <riferito a colui> al quale egli apparteneva interamente (di cui era tutto). L’aggettivo dominicus era classificato dai grammatici medievali come “possessivo” (secondo una terminologia diversa da quella in uso oggi), in quanto indica ciò che appartiene al dominus (in questo caso al Signore). Il nome di Domenico riflette dunque perfettamente la vera natura del santo e la sua completa dedizione a Dio.

5 Domenico fu detto… per aiutarlo: Fu chiamato Domenico, e io ne parlo come dell’agricoltore (agricola, latinismo) che Cristo prescelse per il suo giardino (orto) per farlo prosperare (aiutarlo).

6 Ben parve messo… che diè Cristo: Ben manifestò la sua natura (parve) di inviato (messo) e servo (famigliar) di Cristo; perché il primo sentimento (amor) che si manifestò in lui fu <rivolto> al primo precetto (consiglio) che diede Cristo (ossia alla povertà). L’ordine domenicano era accomunato a quello francescano dalla sua natura di ordine mendicante, in quanto traeva sostentamento solo dalle offerte dei fedeli, senza sfruttare proprietà fondiarie o esercitare diritti feudali. Si noti che il nome «Cristo», nella Commedia, può rimare solo con se stesso (rima identica).

7 Spesse fiate… a questo: Spesse volte (fiate) fu trovato sulla nuda terra dalla sua nutrice silenzioso (tacito) e sveglio (desto), come se dicesse: “Io sono venuto per questo”. L’istintivo desiderio di inginocchiarsi per terra rifiutando ogni comodità signorile, manifestato da Domenico fin da bambino, richiama per analogia – all’interno dell’architettura dei canti XI e XII – la decisione di san Francesco che, al momento di morire, volle essere deposto sulla nuda terra (cfr. Paradiso, XI, vv. 115-117).

8 O padre suo… come si dice: Oh padre suo veramente <degno di essere chiamato> Felice! O madre sua veramente <degna di essere chiamata> Giovanna, se <questo nome>, interpretato, significa (val) quello che si dice! Oltre al nome di Domenico, anche quelli dei genitori assumono un significato simbolico. Quello del nome Felice è evidente. Il nome Giovanna, risalendo alla sua origine ebraica (Yôchanan), veniva invece interpretato come “Grazia di Dio” o come “Dio ha fatto la grazia”; in tal senso, la madre di Domenico meritava veramente tale nome.


DIV11 - Il testo e il problema
IL TESTO
Il brano analizzato in quest’approfondimento costituisce l’inizio del racconto agiografico sulla vita di san Domenico. Anche se questo canto, come si è detto, è legato al precedente da un rigoroso parallelismo architettonico, la narrazione dell’esistenza di Domenico ha andamento diverso da quella relativa a Francesco. La vicenda del santo assisiate, invero, giungeva a Dante corredata da una serie di affascinanti particolari biografici, tra i quali assumevano la massima importanza alcuni episodi della gioventù e dell’età adulta: la rottura con il mondo mercantile simboleggiata dalle nozze con la Povertà; la ricerca dell’approvazione papale per la Regola; il viaggio in Terrasanta; il dono delle stimmate; la morte in povertà. La vita di Domenico, invece, appariva sotto questo profilo assai più scarna; ciò spiega perché il panegirico si concentra sul momento della nascita e su quello della prima infanzia, che vengono presentati come decisivi, come se in essi fosse già scritta, per divina predestinazione, tutta la futura esistenza del santo.
Anche nel caso di Francesco la nascita (indicata metaforicamente come il sorgere di un «sole») si caricava dei segni di una missione provvidenziale. Ma quest’evento occupava appena due terzine (Paradiso, XI, vv. 49-54) e cedeva subito il posto al fondamentale tema delle nozze mistiche con la Povertà. Nel caso di Domenico invece il tema della nascita è svolto per ben nove terzine (vv. 55-80) e si articola in diversi momenti: l’enunciazione del tema (vv. 55-57); i primi segni dell’eccezionalità del nascituro, che si manifestano già quando la madre è incinta di lui (vv. 58-60); gli ulteriori segni di predestinazione divina legati al battesimo, presentato metaforicamente come uno sposalizio tra Domenico e la fede (vv. 61-66); la prima infanzia del santo all’insegna della povertà (vv. 73-78). Le successive tappe dell’esistenza di Domenico (i suoi studi, la sua scelta di povertà, la sua missione di combattere le eresie1) saranno invece sintetizzate in sole otto terzine (non analizzate in questo approfondimento): è evidente la sproporzione tra i blocchi tematici, consapevolmente ricercata per conferire speciale rilievo al momento della nascita.
Nella trattazione di questo tema, inoltre, assume particolare importanza il simbolismo dei nomi: Bonaventura si sofferma sul significato del nome “Domenico”, «possessivo» che indica l’appartenenza totale del nascituro a Dio (vv. 67-72); e su quello dei nomi di Felice e Giovanna (vv. 79-81), padre e madre del futuro santo. Quest’attenzione al nome proprio, non nuova in Dante, suggerisce alcune domande: che rapporto esiste, nella Commedia e nelle altre opere dantesche, tra il nome di un uomo e il suo destino? E, più in generale, che rapporto esiste, nella riflessione di Dante sul linguaggio, tra le parole (nomina) e le entità (res) che esse designano?

IL PROBLEMA
Nomina sunt consequentia rerum?
È lo stesso Dante, nella Vita nuova, a enunciare il famosissimo principio che presiede al rapporto tra nomi e cose: nel capitolo XIII egli, riflettendo sull’Amore, sostiene che il nome di questo sentimento è «sì dolce a udire», che necessariamente i suoi effetti («la sua propria operazione») dovranno nella maggior parte dei casi essere dolci, «con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose2, sì come è scritto: Nomina sunt consequentia rerum3». Si enuncia dunque un preciso principio di corrispondenza tra nomina e res: la dolcezza del nome di Amore non può essere ingannevole, ma deve necessariamente riflettere la sostanziale dolcezza della realtà designata da questo nome.
Nella Vita nuova, la norma della corrispondenza tra nomi e cose si applica rigorosamente alla donna amata da Dante: nel capitolo II si dice infatti che essa «fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare»4 [G2]; il nome della donna, che significa “apportatrice di beatitudine”, è dunque suggerito imperiosamente dalle sue virtù, al punto che esso viene intuito anche da coloro che la vedono per la prima volta.
Il simbolismo dei nomi appare ancor più accentuato nel capitolo XXIV, in cui un’apparizione di Beatrice – nella quale la donna verrà simbolicamente identificata con Cristo [G12] – è preannunciata dal passaggio di una donna di nome Giovanna, soprannominata Primavera. Dante sente la voce di Amore parlargli nel cuore, e apprende da lui che il soprannome di Primavera era stato imposto a questa donna, per profetica ispirazione, proprio in previsione di quest’episodio: «ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà5». D’altra parte, lo stesso nome “Giovanna” ha un significato simbolico, in definitiva molto simile a “prima verrà”: «però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini6».
Si può osservare che, negli episodi della Vita nuova che abbiamo citato, il principio nomina sunt consequentia rerum opera soprattutto in relazione a figure assistite da una particolare grazia divina (come Beatrice), o in circostanze miracolose (come le apparizioni della donna nella Vita nuova). Non sorprende, dunque, che lo stesso principio ricorra nei due canti dedicati a san Francesco e a san Domenico. Nel canto XI esso trova un’applicazione solo parziale nella denominazione del luogo natale del santo, la quale richiama in qualche modo – nella forma «Ascesi» – l’idea del sorgere del sole (ma questo luogo, più propriamente, meriterebbe di essere chiamato «Oriente»; Paradiso, XI, vv. 52-54). Nel canto di san Domenico esso trova una triplice conferma: nel nome di battesimo del santo, suggerito da un’ispirazione divina, affinché il «costrutto» corrisponda alla realtà (vv. 67-69); e nei nomi dei genitori Felice e Giovanna (vv. 79-81).

Frammenti di una lingua adamitica
Nella realtà mondana dunque la corrispondenza tra nomina e res appare come un’eccezione che si presenta soprattutto in occasione di manifestazioni del soprannaturale; per comprendere come mai ciò accada, può essere utile illustrare le teorie sull’origine del linguaggio esposte nel De vulgari eloquentia.
Attribuendo verità letterale al racconto biblico, Dante collega la nascita della lingua alla creazione del primo uomo: nell’atto di plasmarlo, Dio diede ad Adamo una forma locutionis (termine che richiama il concetto aristotelico di “forma” e che si può tradurre, come suggerisce Maria Corti, con «principio generale strutturante della lingua»7). Questo principio di strutturazione operava sia a livello lessicale, determinando i vocaboli che designavano le cose («quantum ad rerum vocabula»), sia a livello di costruzione sintattica («quantum ad vocabulorum constructionem»), sia a livello morfologico («quantum ad constructionis prolationem»)8.
A questa naturale forma locutionis, ricevuta direttamente da Dio, si poteva dunque applicare in modo infallibile la regola secondo cui i nomi corrispondono perfettamente alla natura delle cose. Il principio di strutturazione della lingua adamitica, secondo le tesi sostenute nel De vulgari eloquentia, non cessò di operare con la cacciata dall’Eden: come Adamo parlarono infatti i suoi discendenti, e la loro lingua influenzò l’ebraico9. La forma locutionis scomparve invece, a causa della presunzione umana, «per divina punizione dopo il crollo della torre di Babele […]. Persosi il principio universale di organizzazione è venuto a perdersi anche il rapporto di necessità e di consequentia fra le res e i nomina. In altre parole, dopo il cataclisma lunguistico babelico, la lingua naturale e universale, persa la sua struttura portante, si sgretolò lasciando vagare come rottami di una nave affondata le voces».
La perdita di questa forma locutionis (non dunque di una singola lingua, ma del principio di origine divina che presiede alla strutturazione del linguaggio) non è – osserva ancora la Corti – un problema semplicemente linguistico, ma attiene anche alla capacità dell’uomo di comprendere a fondo il creato: «distruttosi il principio di organizzazione della lingua e il diretto rapporto fra le res e le voces, gli uomini non solo si trovarono con un materiale linguistico divenuto informe e non si capirono più, ma persero la concezione unitaria del mondo. Scomparve infatti […] la edenica omologia fra la forma data da Dio alla materia del mondo e quella data alla materia linguistica che detto mondo avrebbe specchiato in sé, di cui sarebbe stato lo speculum».
In definitiva, dunque, la lingua adamitica fu «l’unica con cui si poté leggere chiaramente quel libro che è il mondo». Dopo la torre di Babele, invece, «il destino dell’imprecisione si impossessa dell’uomo, delle sue lingue naturali, non più universali, ma come lui variabili e mortali».

Lingua storica e lingua poetica
La perdita della condizione edenica non implica però, per Dante, che il rapporto necessario tra nomina e res sia irrimediabilmente perduto. Certo, se consideriamo le lingue storiche, parlate dagli uomini e mutevoli nello spazio e nel tempo, non si può negare che in esse il rapporto tra le cose e i nomi che le designano sia arbitrario e convenzionale. Ma se parliamo della lingua poetica, la situazione appare radicalmente diversa: la poesia infatti non è per Dante frutto di una costruzione arbitraria dell’artista, ma affonda le sue radici in un’ispirazione che proviene da Dio [DIV8]. La poesia di Dante, per di più, fin dalla Vita nuova si muove in un’area che confina strettamente con l’esperienza mistica (come confermano i tre esempi che abbiamo riportato, relativi al nome di Amore, a quello di Beatrice e a quello di Giovanna-Primavera). In una poesia siffatta il linguaggio – sotto la garanzia della divina ispirazione – può ancora avvicinarsi alla sua perfezione edenica, e può quindi tornare ad operare «il rapporto di necessità e consequentia fra le res e i nomina, che c’era alla creazione del mondo, quando Adamo fabbricò le prime parole».

Dante moderno, Dante medievale

La lettura del De vulgari eloquentia può risultare interessante, dal punto di vista linguistico, per la modernità di molte tesi. Abbiamo altrove osservato [G29] che Dante in quest’opera riesce a cogliere la natura arbitraria del linguaggio, anticipando – sia pure in embrione – uno dei fondamenti della linguistica moderna; egli sa individuare la comune origine delle lingue romanze; delinea quei concetti che oggi i linguisti designano con i termini diacronia (variazione della lingua nel tempo) e diatopia (variazione nello spazio); intuisce l’importanza del mutamento storico nell’evoluzione linguistica. Tuttavia, non si deve enfatizzare la modernità delle intuizioni di Dante fino al punto di perderne di vista la profonda alterità rispetto alle nostre concezioni. La riflessione linguistica, infatti, non è mai scissa in lui da una complessiva visione del mondo: una visione che ricerca in ogni aspetto del reale un significato profondo, garantito da un’intelligenza superiore e sul quale l’uomo non cessa di interrogarsi, nella certezza che questo significato esiste e che, prima o poi, gli sarà possibile attingerlo. Una visione in cui la linguistica, al pari di ogni altra scienza, non è mai una conoscenza fine a se stessa, ma una delle tessere di un mosaico di sapere, di cui non è ancora vietato provare a ricomporre il disegno.

1 È utile ricordare, per comprendere il ruolo che Dante attribuisce alla figura di Domenico, che la battaglia antiereticale del santo fu sempre combattuta con le sole armi della predicazione. Quando nel 1213, nell’ambito della crociata contro gli Albigesi, i combattenti inviati dal papa compirono la sanguinosa conquista di Muret, Domenico rimase in chiesa a pregare; la conclusione della crociata contro gli Albigesi data al 1229, mentre Domenico era morto nel 1221. Infine, di dieci anni successiva alla morte di Domenico è l’assegnazione al suo ordine del compito di combattere le eresie attraverso il Tribunale dell’Inquisizione.

2 con ciò… cose: poiché (con ciò sia cosa che) i nomi sono (siano: «con ciò sia cosa che» regge il congiuntivo) conseguenza delle cose che essi designano (seguitino le nominate cose).

3 Nomina… rerum: I nomi sono conseguenza delle cose. Si tratta di una massima diffusa nel Medioevo da diverse tradizioni, di carattere religioso, letterario e giuridico.

4 che si chiamare: come si chiamasse.

5 ché… mosterrà: poiché io ispirai (mossi) colui che le impose il soprannome affinché la chiamasse così: Primavera, cioè “prima verrà” il giorno in cui Beatrice apparirà (si mosterrà).

6 però che… Domini: poiché (però che) il suo nome, Giovanna, deriva da quel Giovanni <Battista> il quale precedette la vera luce (Cristo), dicendo: «Io sono la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore». Anche il nome di battesimo della donna conferma dunque il suo ruolo di precorritrice: come Giovanni Battista annunciò l’arrivo di Cristo, essa annuncia l’arrivo di Beatrice. La citazione evangelica è da Giovanni, I, 23.

7 Seguiamo, per questa parte dell’approfondimento, le osservazioni contenute nel saggio di Maria Corti Dante a un nuovo crocevia (Firenze, Sansoni, 1981), da noi già utilizzato nella trattazione dei rapporti tra Dante e l’averroismo [DIV5]. Da questo saggio, salvo diversa indicazione, provengono tutte le citazioni da qui in poi riportate.

8 Cfr. De vulgari eloquentia, I, 6.

9 Quest’aspetto della questione è piuttosto complesso e non può essere qui approfondito: secondo molti interpreti, nel De vulgari eloquentia Dante sostiene che Adamo abbia parlato ebraico; ma secondo altri, tra cui la Corti, quest’affermazione non trova fondamento nel testo, in quanto Adamo avrebbe ricevuto da Dio non «una lingua concreta», ma appunto «il principio generale strutturante della lingua». Il problema della lingua adamitica, oltre che nel De vulgari eloquentia, è trattato anche in Paradiso, XXVI, 124-138. Qui Adamo afferma che la lingua da lui parlata non esisteva più già da prima della costruzione della torre di Babele: le due trattazioni della lingua adamitica, dunque, non sembrano perfettamente sovrapponibili.