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[Paradiso, canto XXXIII, vv. 40-145] Li occhi da Dio diletti e venerati, indi a l’etterno lume s’addrizzaro, E io ch’al fine di tutt’i disii Bernardo m’accennava, e sorridea, ché la mia vista, venendo sincera, Da quinci innanzi il mio veder fu maggio Qual è colui che sognando vede, cotal son io, ché quasi tutta cessa Così la neve al sol si disigilla; O somma luce che tanto ti levi e fa la lingua mia tanto possente, ché, per tornare alquanto a mia memoria Io credo, per l’acume ch’io soffersi E’ mi ricorda ch’io fui più ardito Oh abbondante grazia ond’io presunsi Nel suo profondo vidi che s’interna sustanze e accidenti e lor costume, La forma universal di questo nodo Un punto solo m’è maggior letargo Così la mente mia, tutta sospesa, A quella luce cotal si diventa, però che ’l ben, ch’è del volere obietto, Omai sarà più corta mia favella, Non perché più ch’un semplice sembiante ma per la vista che s’avvalorava Ne la profonda e chiara sussistenza e l’un da l’altro come iri da iri Oh quanto è corto il dire e come fioco O luce etterna che sola in te sidi, Quella circulazion che sì concetta dentro da sé, del suo colore stesso, Qual è ’l geomètra che tutto s’affige tal era io a quella vista nova: ma non eran da ciò le proprie penne: A l’alta fantasia qui mancò possa29; l’amor che move il sole e l’altre stelle30. 1 Li occhi… le son grati: Gli occhi <della Vergine>, amati (diletti) e venerati da Dio, fissi in colui che aveva pregato (ne l’orator, ossia san Bernardo), ci (ne) dimostrarono quanto le siano gradite le preghiere devote. 2 indi… tanto chiaro: poi si indirizzarono alla luce eterna <di Dio>, nella quale non si deve pensare che, da parte di (per) <ogni altra> creatura, si possa rivolgere (s’invii) lo sguardo (l’occhio) in modo così diretto (tanto chiaro). A nessuna creatura (né uomo né angelo) è concesso di guardare Dio come alla Vergine. 3 E io… in me finii: E io, che mi avvicinavo (appropinquava, verbo usato intransitivamente come il latino adpropinquo) alla meta ultima (al fine) di tutti i desideri (la visione di Dio è il massimo bene che si possa desiderare), così come dovevo <fare>, portai al culmine (finii) in me stesso l’ardore del desiderio. L’avvicinarsi al bene supremo accende e esalta il desiderio di Dante. L’espressione «fine di tutti i disii» riprende San Tommaso, che definisce Dio «ultimus finis humanae voluntatis» [«fine ultimo della volontà umana»] (Summa theologiae, II, ii, 122, 2). 4 Bernardo… qual ei volea: Bernardo mi faceva cenno, sorridendo, affinché io guardassi in alto (suso); ma io mi ero atteggiato (era) già spontaneamente (per me stesso) come (tal qual) egli voleva. 5 ché la mia vista… è vera: perché la mia vista, divenendo pura (sincera), sempre di più (e più e più) penetrava nel (entrava per lo) raggio dell’alta luce <di Dio> che deriva solo da se stessa (che per sé è vera, a differenza di tutte le altre luci, che dipendono da quella divina). Le facoltà di Dante si affinano progressivamente; ciò gli consente di volgere con sempre maggior sicurezza lo sguardo verso Dio. 6 Da quinci innanzi… oltraggio: Da questo momento in poi (Da quinci innanzi) la mia visione (veder, infinito sostantivato) fu maggiore (maggio) di quanto possa mostrare la parola, che è inadeguata (cede) a tale visione, così come (e) la memoria è inadeguata a tale dismisura (oltraggio, dal francese antico outrage – a sua volta derivato dal latino ultra – è da intendere senza la connotazione negativa che il termine possiede nell’italiano attuale). Il poeta confessa una duplice inadeguatezza: né la sua memoria né la sua parola potranno rendere appieno la visione, che ne travalica di gran lunga le capacità. Nelle terzine successive (vv. 58-66) egli ribadirà questo concetto con una serie di similitudini. 7 Qual è colui… nacque da essa: Quale è colui che vede <qualcosa> in sogno (sognando), in modo tale che dopo il sogno gli rimane impressa la sensazione (passione), ma tutto il resto non ritorna (riede, dal latino redire, ritornare) alla memoria (mente), tale sono io (il pronome si riferisce a Dante poeta, impegnato a ricordare e a raccontare), poiché è quasi interamente svanita (cessa, latinismo) la mia visione, e ancora mi gocciola (distilla, metafora) nel cuore la dolcezza (il dolce, aggettivo sostantivato) che nacque da essa. Lo stesso San Bernardo, di cui Dante ha fatto un personaggio di questo canto, descriveva la visione mistica come un excessus mentis seguito da amnesia. 8 Così la neve… di Sibilla: Così la neve si scioglie (disigilla) al sole; così la sentenza della Sibilla, scritta sulle (ne le) foglie leggere (lievi), si disperdeva al vento. La prima similitudine è in stretto rapporto con la terzina precedente: la neve rappresenta il sogno o la visione, che non ricordiamo già più quando siamo svegli, ma che ancora ci versa in cuore qualche goccia della sua dolcezza («distilla»), come neve che si sciolga al sole. La seconda similitudine proviene da Virgilio: la Sibilla Cumana era una sacerdotessa di Apollo che scriveva le sue profezie sulle foglie, disponendole in ordine nel suo antro. Ma quando qualcuno ne apriva la porta, il vento rimescolava tutte le foglie: la profezia diveniva così incomprensibile proprio nel momento in cui qualcuno si apprestava a leggerla. 9 O somma luce… a la futura gente: O immensa luce <di Dio> che tanto ti innalzi (levi) rispetto a ciò che l’uomo può concepire (da’ concetti mortali), presta nuovamente alla mia memoria (mente) un tenue ricordo (un poco) di come <allora ti> manifestavi (di quel che parevi), e rendi (fa) la mia lingua tanto potente che io possa mostrare ai posteri (a la futura gente) almeno una scintilla (favilla) della tua gloria. Nell’Epistola a Cangrande Dante – con riferimento al canto I del Paradiso – spiega il termine «gloria» con «divinum lumen» o «divinus radius»: vi è dunque un’identificazione tra «gloria» e «luce». 10 ché per tornare… di tua vittoria: poiché si avrà un concetto più adeguato (più si conceperà) del tuo splendore (di tua vittoria) per il fatto che esso torni un po’ (per tornare alquanto) alla mia memoria, e per il fatto che esso risuoni (per sonare) un po’ in questi versi. Di nuovo Dante insiste sull’insufficienza di memoria e lingua, chiedendo a Dio di compensarla almeno in parte con la propria ispirazione. 11 Io credo… fossero aversi: Io credo che, a causa della luminosità (acume) del vivo raggio <di Dio> che io seppi sostenere con lo sguardo (ch’io soffersi, dal verbo latino suffero, che significa tollerare), sarei rimasto abbagliato (smarrito) se i miei occhi si fossero distolti (aversi, latinismo) da esso. A differenza della luce fisica, che può accecare chi la guarda, quella di Dio impedisce di distogliere da essa lo sguardo (da intendersi, nel contesto di questo canto, come sguardo intellettuale). 12 E’ mi ricorda… valore infinito: Io mi ricordo (E’ mi ricorda, costruzione impersonale) che per questo <motivo> io osai ancora di più (fui più ardito) tenere lo sguardo fisso (a sostener), fin quando portai a congiungersi (giunsi) il mio sguardo (l’aspetto mio) con l’infinita virtù (valore infinito) <di Dio>. Il progressivo potenziarsi delle facoltà visive conduce Dante alla visione intellettuale di Dio. 13 O abbondante… vi consunsi: O immensa (abbondante) grazia <di Dio>, per la quale (ond’) io osai (presunsi, verbo qui usato senza nessuna connotazione negativa) penetrare con lo sguardo nella (ficcar lo viso per la) luce eterna <di Dio>, fin quando (tanto che) adoperai fino all’estremo delle sue possibilità (consunsi) la capacità visiva (veduta)! Come prima aveva spinto all’estremo «l’ardor del desiderio» (cfr. nota ), adesso Dante conduce la vista al massimo della sua capacità. 14 Nel suo profondo… si squaderna: Vidi che nella sua profondità (Nel suo profondo, riferito alla «luce etterna») si raccoglie internamente (s’interna), legato con amore in unità (in un volume, metafora) tutto ciò che per l’universo si disperde (squaderna, metafora). La molteplicità dell’universo, che a noi appare dispersa e priva di ordine come i fogli di un volume squinternato, si raccoglie invece, nella profondità di Dio, in perfetta unità. 15 sustanze e accidenti… semplice lume: <vidi che nella sua profondità si congiungono> le sostanze (nella filosofia aristotelica, tutto ciò che esiste per sé), gli accidenti (tutto ciò che inerisce alla sostanza ma non riguarda la sua essenza) e le loro relazioni reciproche (lor costume), come se fossero amalgamati (conflati, latinismo) insieme, in modo tale che ciò che io racconto è solo un misero barlume (semplice lume). 16 La forma universal… ch’i’ godo: So di aver visto (credo ch’i’ vidi) il principio (forma) universale di questa unione (nodo) <del molteplice nell’uno>, perché, dicendo <ora> questo, sento che godo più intensamente (più di largo). Dante non ricorda più questa «forma universal» ma, nell’atto in cui ne parla, prova una gioia che lo convince di averla vista; cfr. vv. 58-63. 17 Un punto solo… l’ombra d’Argo: Un istante solo (un punto solo: quello in cui ha visto la «forma universal di questo nodo») è per me causa di una dimenticanza (letargo) maggiore, di quanto venticinque secoli <siano stati causa di dimenticanza> di fronte all’impresa che portò Nettuno ad ammirare l’ombra della nave Argo. Secondo la cronologia medievale, la nave Argo salpò alla volta della Colchide nel 1223 a.C. (dunque venticinque secoli prima di Dante), effettuando la prima traversata della storia e suscitando lo stupore di Nettuno, che ne vide la chiglia dalle profondità marine. Quest’impresa era spesso considerata l’atto iniziale della civiltà umana. Il lunghissimo tempo trascorso dal viaggio di Argo – cioè, appunto, l’intera storia della civiltà – non ha dunque determinato una completa dimenticanza di questo pur remoto evento; enormemente maggiore è la dimenticanza di Dante, relativa a un semplice istante («un punto solo»). La similitudine sottolinea di nuovo l’impossibilità, per il poeta, di ricordare e raccontare adeguatamente ciò che ha visto. 18 Così la mente… faceasi accesa: Così (cioè, forse, con stupore simile a quello di Nettuno; ma l’interpretazione è discussa) la mia mente, tutta assorta (sospesa), osservava fissa, immobile e attenta, e sempre <più> si infiammava dal desiderio (faceasi accesa) di guardare. Ancora una volta, la visione di Dio ci viene descritta come un processo in cui le capacità e il desiderio di conoscenza di Dante si accrescono continuamente. 19 A quella luce… mai si consenta: Davanti a quella luce si diventa tali che è impossibile che si desideri (consenta) mai distogliere lo sguardo da essa (volgersi da lei) verso un’altra visione (aspetto). 20 però che ’l ben… lì è perfetto: poiché (però che) il bene, che è l’oggetto cui tende la volontà (del volere obietto) si raccoglie tutto in essa (in lei, cioè nella luce di Dio) e, fuori da quella, è incompiuto (defettivo) tutto ciò che in essa (lì) è compiuto (perfetto). 21 Omai sarà… a la mammella: D’ora in poi la mia parola (favella) sarà, anche solo (pur) di fronte a quel <poco> che io ricordo, più inadeguata (corta) di quella di un bambino (fante, aferesi da “infante”, che significa colui che non parla) che succhi ancora il latte della mamma (che bagni ancor la lingua alla mammella). 22 Non perché più… si travagliava: Non perché vi fosse più di un unico aspetto (semplice sembiante) nella viva luce che io guardavo (mirava), la quale è eternamente identica a come era prima (tal è sempre qual s’era davante); ma, a causa della mia vista che acquistava potenza (s’avvalorava) in me mentre guardavo (guardando), quello che era un unico aspetto (una sola parvenza) mi appariva continuamente diverso (a me si travagliava), in quanto ero io che cambiavo (mutandom’io). Il periodo delle due terzine, scandito da un punto e virgola ma da leggere unitariamente, ha come verbo reggente «travagliava» (v. 114). Dante vede in Dio un aspetto che muta di continuo, ma non perché Dio – che è eterno e immutabile – sia davvero come egli lo sta vedendo, bensì perché la facoltà visiva del poeta, arricchendosi progressivamente, scorge in lui in successione ciò che è invece sempre compresente. Si tratta in un certo senso di un’«illusione ottica» (Quaglio) che – come vedremo nell’approfondimento – non è affatto ingannevole, dal momento che indica la “metamorfosi” di Dante, il suo ««trasumanar» (cfr. Paradiso, I, v. 70). 23 Ne la profonda… contenenza: Nella profonda e luminosa (chiara) essenza (sussistenza) dell’alta luce mi apparvero tre forme circolari (giri: il termine può indicare cerchi o sfere), di tre colori diversi ma (e) che occupavano lo stesso spazio (d’una contenenza). Occupando esattamente lo stesso spazio, i «tre giri» sono necessariamente concentrici e delle stesse dimensioni. Questa visione sarebbe umanamente impossibile, poiché oggetti concentrici non possono avere dimensioni identiche e continuare, al tempo stesso, a essere tra loro distinti. Qui invece i «giri» sono tre (come dimostrano i «tre colori»). La visione di Dante illustra il mistero della Trinità, per cui Dio è contemporaneamente uno e trino. 24 e l’un da l’altro… si spiri: e uno di essi (il Figlio) sembrava riflesso dall’altro (il Padre) come arcobaleno è riflesso da arcobaleno (come iri da iri), e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava fuoco che spirasse allo stesso modo dall’uno e dall’altro (quinci e quindi). 25 O quanto è corto… poco: O quanto è insufficiente (corto) e quanto è debole (fioco) la parola (il dire) di fronte al mio ricordo (concetto)! E quest’ultimo, di fronte alla visione (a quel ch’i’ vidi), è tanto <piccolo> che non basta dire che è “poco”. Cfr. note e . 26 O luce etterna… arridi: O luce eterna, che in te sola ti posi (sidi, latinismo), sola comprendi te stessa (t’intendi) e, tu che sei da te compresa (da te intelletta) e che comprendi te stessa (te intendente), ami te stessa e <di te> ti compiaci (arridi)! Nel Convivio (II, v, 11) Dante parla di Dio come luce «che sola se medesima vede compiutamente». La terzina sembra inoltre richiamare Matteo, XI, 27: «nemo novit Filium, nisi Pater; neque Patrem quis novit, nisi Filius» [«nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio»]. Questi versi, che contengono un vertiginoso poliptoto, sono così spiegati da Sapegno: «la luce […] in quanto è intendente se stessa è il Padre; in quanto è intelletta da se stessa, il Figlio, in quanto ama e arride a se stessa, che intende ed è intesa, è lo Spirito Santo». 27 Quella circulazion… era messo: Quella forma circolare (circulazion) che in te (il poeta si rivolge alla «luce etterna» di Dio; cfr. v. 124) appariva generata (concetta) come luce riflessa (ossia il Figlio), <dopo essere stata> per un certo tempo (alquanto) osservata (circunspetta, latinismo) dai miei occhi, mi apparve dentro di sé dipinta dell’immagine dell’uomo (de la nostra effigie) con il suo stesso colore (del suo colore stesso), per cui il mio sguardo (viso) era tutto concentrato (messo) in lei. Questa visione, relativa alla natura umana e divina al tempo stesso di Cristo, sarebbe fisicamente impossibile, perché non può essere visibile una pittura dello stesso colore dello sfondo su cui è dipinta. 28 Qual è ’l geometra… venne: Come il matematico (geomètra) che si applica (affige) tutto per trovare la quadratura del cerchio e, pur pensando, non trova quel principio di cui avrebbe bisogno (ond’elli indige, latinismo), tale divenni (mi fec’) io di fronte a quella inaudita (nova) visione: volevo vedere come si adattasse (si convenne) l’immagine <umana> alla forma circolare e come essa possa trovarvi luogo (vi s’indova, verbo parasintetico composto dall’avverbio “dove” con l’aggiunta del prefisso “in”); ma non erano adatte a ciò (da ciò) le ali dell’uomo (le proprie penne, metonimia; l’immagine delle ali rappresenta a sua volta, metaforicamente, le capacità umane); <e non avrei visto la verità> se non fosse avvenuto che (se non che) la mia mente fu colpita da un’illuminazione divina (fulgore) nella quale (in che) il suo desiderio (sua voglia) fu esaudito (venne). Il tentativo di spiegare razionalmente il mistero di Cristo, insieme vero uomo e vero Dio, è paragonato al tentativo dei matematici di trovare il rapporto esatto tra circonferenza e diametro del cerchio (tentativo vano, perché questo rapporto è sempre costituito da un numero irrazionale, il •). La soluzione del mistero di Cristo è quindi affidata a un’illuminazione divina, molto più alta del metaforico volo intellettuale dell’uomo. 29 A l’alta fantasia… possa: Alla potente facoltà immaginativa (fantasia) mancò qui <ogni> capacità (possa). La soluzione del mistero trascende completamente, stavolta, la possibilità umana di tradurre la verità in immagini sensibili. 30 ma già volgeva… l’altre stelle: ma già Dio, che è amore e motore immobile dell’universo (l’amor che move il sole e l’altre stelle), muoveva (volgeva) il mio desiderio <di sapere> e la mia volontà (velle, lett. volere, è infinito del verbo latino volo), <rendendoli> simili a ruota che si muove di moto uniforme (igualmente è mossa). L’ultima immagine rappresenta lo sciogliersi del «dramma dell’intelligenza» (Sapegno) di questo canto, che si placa nel ritmo perfetto dell’ordine universale. Il verso conclusivo della cantica richiama il primo: «La gloria di colui che tutto move» (Paradiso, I, v. 1); il Paradiso si chiude inoltre con la parola «stelle», come avveniva anche nelle due cantiche precedenti: «e quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno, XXXIV, v. 139); «puro e disposto a salire a le stelle» (Purgatorio, XXXIII, v. 145). IL TESTO 1 Per i concetti di “visione impossibile” e “visione invisibile”, così come per numerosi spunti e suggestioni di questo e dei precedenti approfondimenti, siamo debitori del magnifico, e mai accademico, commento di Vittorio Semonti (L’inferno di Dante; Il Purgatorio di Dante; Il Paradiso di Dante, Milano, Rizzoli, 2001). 2 Lessing non esclude però che ciascuna delle arti possa svolgere anche funzioni diverse da quella principale; ma queste funzioni possono essere esercitate sempre tenendo conto della specifica natura del linguaggio di ogni arte. La teoria sui confini delle arti è contenuta nel Laocoonte (1766). |
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