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[Paradiso, canto VI, vv. 1-12] cento e cent’anni e più l’uccel di Dio e sotto l’ombra de le sacre penne Cesare fui e son Iustiniano, [Purgatorio, canto VI, vv. 58-117] Ma vedi là un’anima che, posta Venimmo a lei: o anima lombarda, Ella non ci dicea alcuna cosa, Pur Virgilio si trasse a lei, pregando ma di nostro paese e de la vita surse ver’ lui del loco ove pria stava, Ahi serva Italia, di dolore ostello, Quell’anima gentil fu così presta, e ora in te non stanno sanza guerra Cerca, misera, intorno da le prode Che val perché ti racconciasse il freno Ahi gente che dovresti esser devota, guarda come esta fiera è fatta fella O Alberto tedesco ch’abbandoni giusto giudicio da le stelle caggia Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto, Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura Vieni a veder la tua Roma che piagne Vieni a veder la gente quanto s’ama! [Purgatorio, canto XVI, vv. 85-114] Esce di mano a lui che la vagheggia l’anima semplicetta che sa nulla, Di picciol bene in pria sente sapore; Onde convenne legge per fren porre; Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? per che la gente, che sua guida vede Ben puoi veder che la mala condotta Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada però che, giunti, l’un l’altro non teme: [Paradiso, canto XXX, vv. 124-148] Nel giallo de la rosa sempiterna, qual è colui che tace e dicer vole, Vedi nostra città quant’ella gira; E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni sederà l’alma, che fia giù agosta, La cieca cupidigia che v’ammalia E fia prefetto nel foro divino Ma poco poi sarà da Dio sofferto e farà quel d’Alagna intrar più giuso34». 1 Poscia che Costantin… prima uscìo: «Dopo che Costantino trasportò (volse) <da Roma a Bisanzio> l’aquila (simbolo dell’Impero) lungo il percorso <da occidente a oriente> inverso a quello del sole (contr’al corso del ciel), che essa (l’aquila imperiale) aveva seguito dietro l’antico <eroe> che sposò (tolse) Lavinia (la perifrasi designa Enea, progenitore di Roma, che provenendo da Troia aveva ripercorso il naturale tragitto del sole da oriente a occidente), per oltre duecento anni (cento e cent’anni e più) l’uccello <simbolo del potere> voluto da Dio si trattenne all’estremità (stremo) <orientale> dell’Europa, vicino ai monti (della Troade) dai quali in origine proveniva (prima uscìo)». La descrizione geografica del viaggio dell’aquila, che con Enea segue il cammino del sole e con Costantino si rivolge invece in senso contrario, va letta anche allegoricamente: il viaggio da Troia al Lazio che portò alla fondazione di Roma obbediva a un disegno provvidenziale, mentre il trasferimento della sede imperiale a Bisanzio, località non molto lontana da Troia (trasferimento connesso con la nascita del potere temporale della Chiesa) appare come un’inversione dell’ordine voluto dal cielo. La terzina contiene un’imprecisione cronologica, in quanto in realtà tra il trasferimento dell’impero a Bisanzio ad opera di Costantino (330) e l’anno dell’ascesa al trono di Giustiniano (527) passarono meno di due secoli. Tuttavia la cronologia medievale – avallata tra gli altri da Brunetto Latini – collocava i due eventi rispettivamente nel 333 e nel 539. 2 e sotto l’ombra… in su la mia pervenne: «e <l’aquila imperiale>, sotto l’ombra delle sacre ali (penne, sineddoche) rimanendo in Oriente (lì) governò il mondo passando da imperatore a imperatore (di mano in mano) e, attraverso questi cambiamenti (sì cangiando) pervenne nelle mie mani». Il potere imperiale non appartiene personalmente ai singoli imperatori, che sono dei semplici portatori di esso (e dunque dell’aquila che lo rappresenta, e che infatti costituisce il soggetto del verbo «governò») 3 Cesare fui… il troppo e ’l vano: «Fui imperatore (Cesare fui: antonomasia) e sono Giustiniano che, per volontà dello Spirito Santo (primo amor; cfr. Inferno, III, 6) che mi ispira (ch’i’ sento), tolsi (trassi) dalle leggi ciò che vi era di superfluo (troppo) e ripetitivo (vano)». Nel v. 10, costruito a chiasmo, Giustiniano dichiara con il verbo al presente la propria identità personale – che appartiene alla sua natura eterna – mentre ricorda con il verbo al passato la sua dignità imperiale, estintasi con la vita terrena. Il v. 12 fa riferimento al Corpus iuris civilis, con cui Giustiniano fornì la prima organica sistemazione del diritto romano, organizzandolo in un codice che avrebbe fornito la base per la futura legislazione europea. 4 Ma vedi là… più tosta: «Ma guarda là un’anima che, rimanendo (posta) tutta sola (sola soletta, falso vezzeggiativo con funzione intensiva), guarda attentamente (riguarda) verso di noi: quella ci (ne) indicherà (’nsegnerà) la via più rapida (tosta) <per salire la montagna>». Queste parole sono pronunciate da Virgilio. 5 Venimmo a lei… onesta e tarda: Giungemmo presso di lei: o anima di un uomo settentrionale (lombarda; l’aggettivo designava nel Medioevo un’ampia area geografica comprensiva sia dell’attuale Lombardia che della stessa Toscana; qui Dante, comportandosi da narratore onnisciente, apostrofa il personaggio mostrando di conoscere in anticipo quale sia la sua patria), come te ne stavi fiera (altera) e disdegnosa, e dignitosa (onesta) e pacata (tarda) nel movimento degli occhi! L’aspetto dignitoso e la lentezza dello sguardo caratterizzano spesso nella Commedia la virtù della magnanimità; nel Limbo, i grandi dell’antichità hanno infatti «occhi tardi e gravi» (Inferno, IV, 112). 6 Ella non ci dicea… quando si posa: Essa (riferito all’«anima lombarda», con passaggio dalla seconda alla terza persona) non ci diceva nulla, ma ci lasciava (lasciavane) avvicinare (gir), solo seguendoci con lo sguardo (sguardando) alla maniera (a guisa) di un leone accovacciato (quando si posa). Il personaggio è caratterizzato da «immobilità piena di interiore tensione» (Sapegno), che esploderà in movimento drammatico ai vv. 72-75. 7 Pur Virgilio… ci ’nchiese: Tuttavia (Pur) Virgilio andò verso di (si trasse a) lei, pregando che ci mostrasse la strada più agevole per salire (la miglior salita); e quell’anima non rispose alla sua domanda, ma ci chiese notizie (’nchiese) del nostro paese <di origine> e della nostra condizione (vita). 8 e ’dolce duca… abbracciava: e la dolce guida (Virgilio) stava incominciando <a dire> «Mantova…» quando l’anima, <fino ad allora> tutta raccolta (romita) in se stessa, si alzò all’improvviso (surse) rivolta a lui dal luogo in cui prima si trovava, dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della tua <stessa> città (terra, metonimia)»; e ciascuno (l’un) abbracciava l’altro. Virgilio sta per citare l’epitaffio latino che si diceva fosse scritto sulla sua tomba, che cominciava con le parole “Mantua me genuit” [“Mantova mi generò”]. Ma il suo interlocutore, appena sente di avere di fronte un concittadino, non può trattenere la sua commozione. Il personaggio descritto in queste terzine è Sordello, un poeta nato a Goito (vicino a Mantova) che scriveva in lingua provenzale. Sordello, morto intorno al 1270, è noto per diverse rime amorose e per un componimento di ispirazione satirica (il Compianto in morte di ser Blacatz, 1236) che attaccava i sovrani dell’epoca. 9 Ahi serva Italia… bordello: Ahimé, Italia asservita <ai tiranni> (serva), albergo (ostello) di dolore, nave senza pilota (nocchiere) in mezzo a una grande tempesta, non <più> signora (donna) dei popoli (di province; riferimento alla gloria passata dell’Italia), ma luogo di corruzione (bordello)! L’amore per la patria che il gesto di Sordello evidenzia suscita in Dante, per contrasto, una riflessione sull’attuale condizione dell’Italia, che si esprime attraverso una serie di metafore («ostello», «nave», «donna», «bordello», tutte apposizioni di «Italia»). L’espressione «domina provinciarum» per designare l’Italia era assai comune nel Medioevo. 10 Quell’anima gentil… una fossa serra: Quell’anima nobile (gentil) fu così pronta (presta), solo a sentire il dolce nome (per il dolce suon) della sua città (terra), a far festa in quel luogo (quivi: in Purgatorio) al suo concittadino (cittadin), e <invece> ora al tuo interno (in te) i tuoi abitanti (li vivi tuoi) non stanno mai senza guerra, e quelli che sono circondati da uno stesso muro e da uno stesso fossato (quei ch’un muro e una fossa serra; perifrasi che significa gli abitanti di una stessa città) si dilaniano l’uno con l’altro (l’un l’altro si rode). La figura etimologica dei vv. 82-83 («te»… «tuoi») – richiamata anche nei versi successivi dal ripetersi delle forme pronominali «ti» e «te» – è parallela al poliptoto dei vv. 80-81 («sua»… «suo»). Tale parallelismo vale a sottolineare la contrapposizione tra queste due anime dell’oltretomba, che hanno mostrato tanto affetto reciproco per amor di patria, e le città italiane lacerate dall’odio di parte. 11 Cerca… di pace gode: Esamina (Cerca), o misera <Italia> le regioni costiere (le tue marine) lungo i litorali (intorno da le prode) e poi guarda le tue regioni interne (ti guarda in seno), <per vedere> se qualche parte di te gode di pace. Secondo la concezione politica di Dante, la pace può essere garantita solo dall’Impero. 12 Che val… la vergogna meno: A cosa è servito (Che val) per il fatto di averti dato le leggi (perché ti racconciasse il freno, lett. perché ti abbia sistemato le redini: inizia qui una lunga metafora in cui l’Italia è paragonata a una cavalla e le leggi sono il morso con il quale essa dovrebbe essere guidata) Giustiniano, se il trono imperiale (la sella) è vacante? Senza di esso (riferito a «freno») la vergogna sarebbe (fora) minore (meno). La sede imperiale stabilita da Dio è Roma; gli imperatori tedeschi, abbandonando l’Italia, sono venuti meno alla loro funzione. La situazione di divisione e illegalità in cui versa la penisola è ancor più vergognosa se si pensa che l’Impero dispone di un sistema di leggi – quello elaborato da Giustiniano – che resta del tutto inapplicato. 13 Ahi gente… a la predella: Ahimé, gente <di Chiesa> che dovresti dedicarti alle cose spirituali (esser devota) e <dovresti> lasciar sedere l’imperatore (Cesare, antonomasia) sul suo trono (sella), se ben comprendi ciò che Dio ti ha prescritto (ti nota, con riferimento all’evangelico «Redde quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo» [«Dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»]; Matteo, XXII, 21), guarda quanto questa bestia (fiera) è divenuta (fatta) recalcitrante (fella, dal francese fel, infido ) poiché non è governata (corretta) dagli speroni <dell’imperatore>, poiché tu (questa parte dell’apostrofe è rivolta alla gente di Chiesa) ponesti mano alla briglia (predella; è precisamente la parte della briglia che si attacca ai finimenti e consente di guidare il cavallo a mano). L’Italia-cavalla non è montata dall’imperatore-cavaliere, bensì trascinata per le briglie dal clero che va a piedi (cioè da chi non ha competenza per esercitare quel potere). 14 O Alberto tedesco… temenza n’aggia: O Alberto tedesco (Alberto d’Asburgo, re di Germania dal 1298 e imperatore dal 1303 al 1308) che abbandoni costei (l’Italia) che è divenuta (fatta) indomabile e selvaggia, mentre (e) dovresti guidarla (inforcar li suoi arcioni), cada dal cielo (da le stelle) una giusta punizione (giudicio) sulla tua dinastia (sovra ’l tuo sangue), e sia <una punizione> straordinaria (novo) ed esemplare (aperto), in modo che il tuo successore ne abbia timore (temenza). La maledizione sembra alludere, sotto forma di profezia post eventum, alla morte improvvisa del primogenito di Alberto, avvenuta nel 1307, e all’uccisione dello stesso Alberto avvenuta nel 1308. Alberto non scese mai in Italia per farsi incoronare imperatore; il successore di Alberto fu Arrigo VII di Lussemburgo, cui Dante riserva un seggio in Paradiso (cfr. nota ). 15 Ch’avete tu… sua diserto: Poiché (Ch’) tu e tuo padre (Rodolfo d’Asburgo), trattenuti (distretti) dalla cupidigia degli affari delle vostre terre (di costà, con riferimento sprezzante alla Germania), avete sopportato (sofferto) che il giardino dell’Impero (l’Italia) sia abbandonato (diserto). 16 Vieni a veder… con sospetti: Vieni a vedere i Montecchi e i Cappelletti (si tratta di due fazioni contrapposte della Lombardia), i Monaldi e i Filippeschi (due fazioni di Orvieto), o uomo che trascura il suo dovere (sanza cura): i primi (color, cioè Montecchi e Cappelletti) già rovinati (tristi), e i secondi (questi, ossia Monaldi e Filippeschi) preoccupati (con sospetti) <della prossima rovina>. Il vergognoso stato di abbandono dell’Italia, testimoniato dalla decadenza delle più importanti famiglie nobiliar, è sottolineato con incisività dall’anafora del sintagma «vieni a veder». 17 Vien, crudel, vieni… com’è oscura: Vieni, o crudele, vieni e vedi l’umiliazione (pressura) delle famiglie nobiliari (gentili) che dipendono da te (tuoi), e ripara i loro danni (magagne); e vedrai <la contea di> Santafiore come è decaduta (oscura)! Riferimento alle famiglie feudali cui l’Impero aveva demandato la cura dei propri interessi. La contea di Santafiore, governata dalla famiglia Aldobrandeschi, aveva perso nel 1300 buona parte dei suoi domini a favore del comune di Siena. 18 Vieni a veder… non m’accompagne: Vieni a vedere la tua Roma che piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte grida (chiama, dal lat. clamat): «Cesare mio, perché non ti unisci a me (m’accompagne)?». La personificazione di Roma abbandonata dall’imperatore richiama la visione di Gerusalemme nei primi versetti delle Lamentazioni di Geremia: «Quomodo sedet sola civitas […]. Facta est vidua […]. Plorans ploravit in nocte» [«Come sta solitaria la città […]. È divenuta vedova […] Ha pianto e pianto durante la notte»]. 19 Vieni a veder… de la tua fama: Vieni a vedere quanto si ama (antifrasi che vale quanto è lacerata al suo interno) la popolazione; e se non ti smuove nessuna pietà di noi, vieni <almeno> a vergognarti della tua <cattiva> fama. 20 Esce di mano… la trastulla: Esce di mano <con la creazione> a colui che la contempla (vagheggia) ancor prima che esista (prima che sia; la perifrasi indica Dio, che conosce il futuro ab aeterno), simile a una fanciulla che ride e piange senza motivo in modo infantile (ridendo e piangendo pargoleggia), l’anima ignara (semplicetta) che non ha alcuna conoscenza (che sa nulla), tranne quella <istintiva> per cui, essendo stata creata (mossa) da un creatore buono (lieto fattore), essa tende naturalmente (volentier torna) a ciò che la allieta (la trastulla, cioè appunto al bene). L’anima nasce dunque amando il bene, ma in maniera puerile (come testimoniano i verbi «pargoleggia» e «trastulla») ed è quindi soggetta a ingannarsi facilmente circa la natura di esso. 21 Di picciol bene… suo amore: All’inizio (in pria) sente il sapore di un piccolo bene (cioè dei beni materiali; questi non sono di per sé cattivi, ma semplicemente illusori); seguendo questo (quivi) si inganna e corre dietro ad esso, se una guida o un freno (l’anima è implicitamente paragonata a un cavallo, con metafora simile a quella di Purgatorio, VI) non indirizza (torce) il suo amore <verso il vero bene>. La «guida» rappresenta il potere spirituale del papa (cfr. v. 100), mentre il «fren» si identifica con il potere temporale dell’imperatore e con la legge (cfr. v. 94). 22 Onde convenne… la torre: Per cui (Onde) fu necessario (convenne) porre la legge come freno; fu necessario avere un re che distinguesse (discernesse) almeno la parte più visibile (la torre) della città di Dio (vera cittade). Sia la metafora della città sia la concezione del potere politico come freno alle deviazioni della natura umana derivano da sant’Agostino. Quest’ultimo parla di civitas Dei per designare la comunità dei viventi che è prefigurazione della Gerusalemme celeste (ossia la comunità dei beati). La «torre» di questa «vera cittade» va identificata con la giustizia umana, che anticipa e prepara l’avvento della città di Dio. Il potere temporale è appunto conferito a chi abbia conoscenza di tale giustizia, ossia all’imperatore. 23 Le leggi son… l’unghie fesse: Le leggi ci sono, ma chi le fa applicare (pon mano ad esse)? Nessuno, poiché il papa (pastor) che guida <i cristiani> (procede, come un pastore va avanti al gregge) può meditare <la Scrittura> (rugumar, forma toscana che significa letteralmente ruminare), ma non ha la capacità di distinguere il bene dal male (non ha l’unghie fesse, lett. non ha lo zoccolo diviso in due). Dante richiama qui, interpretandola allegoricamente, la legge mosaica che vietava agli Ebrei di mangiare la carne di animali che non ruminano e non hanno lo zoccolo divisi in due (Levitico, XI, 3; Deuteronomio, XIV, 6). Secondo l’interpretazione di san Tommaso «fissio ungulae significat […] discretionem boni et mali; ruminatio autem significat meditationem Scripturarum et sanum intellectum earum» [«la divisione dell’unghia indica la capacità di discernere il bene dal male; il ruminare invece significa la meditazione delle Scritture e la retta comprensione di esse»] (Summa theologiae, II, 1, q. CII, 6). Secondo Dante il papa, che è dotato della capacità di meditare le Scritture, manca invece del discernimento pratico pergovernare il mondo. Pietro di Dante, figlio del poeta e primo commentatore della Commedia, ha osservato che questa mancanza di discernimento riguarda proprio la confusione tra potere temporale e spirituale: «praesentes pastores, licet sint sapientes, et sic ruminant, tamen non habent ungulas fissas in discernendo et dividendo temporalia a spiritualibus» [«Gli attuali pastori, sebbene siano sapienti – e infatti ruminano – tuttavia non hanno le unghie fesse nel distinguere e dividere le cose temporali dalle spirituali»]. Quest’interpretazione sembra confermata dalla terzina successiva. 24 per che la gente… più oltre non chiede: per cui la gente, che vede la sua guida <spirituale> mirare (fedire, metafora) proprio (pur) a quel bene <materiale> di cui essa è desiderosa (ghiotta), si accontenta (pasce) di esso, e non chiede nulla di più. Il cattivo esempio del papato temporalistico corrompe dunque la cristianità. 25 Ben puoi veder… sia corrotta: Puoi constatare (veder) facilmente che la causa che ha reso (fatto) il mondo malvagio (reo, complemento predicativo dell’oggetto) è la sua cattiva guida (condotta, riferito al governo dei pontefici), e non la natura che sia in voi uomini corrotta. L’ultimo verso si spiega ricordando che il discorso di Marco Lombardo tende a dimostrare il libero arbitrio dell’uomo e quindi la sua piena responsabilità morale nella scelta del bene o del male [DIV7]. 26 Soleva Roma… di Deo: Roma, che preparò il mondo al bene (che ’l buon mondo feo) soleva avere due soli (metafora che significa due poteri), che mostravano (facean vedere) l’una e l’altra strada, <quella> del mondo e <quella> di Dio. 27 L’un l’altro ha spento… che vada: L’uno <dei due soli> (il papa) ha spento l’altro (l’imperatore); e la spada (simbolo del potere temporale) è congiunta (giunta) con il pastorale (simbolo del potere spirituale), ed è naturale (convien) che l’unione delle due autorità (l’un con l’altro insieme) <realizzata> in modo arbitrario (per viva forza) funzioni (vada) male. 28 però che… per lo seme: poiché (però che), essendo <i due poteri> congiunti (giunti), l’uno non è bilanciato dall’altro (l’un l’altro non teme); se non mi credi, pensa (pon mente) ai risultati <di questa confusione> (a la spiga), perché ogni pianta si riconosce dal suo frutto (ch’ogn’erba si conosce per lo seme). 29 Nel giallo… bianche stole: Beatrice condusse (trasse) me, che ero simile a colui (qual è colui) che tace <per la meraviglia> anche se vorrebbe parlare, nel mezzo dell’eterna corona dei beati (nel giallo della rosa sempiterna, metafora: come si dirà all’inizio del canto successivo, nell’Empireo i beati appaiono a Dante in forma «di candida rosa»; nei fiori il giallo corrisponde allo stame, ossia appunto alla parte centrale) che si sviluppa per gradini (digrada: i beati appaiono seduti su seggi disposti in diversi ordini) e si allarga progressivamente (dilata) ed emana (redole, latinismo) il profumo della lode al sole che fa eternamente primavera (che sempre verna, latinismo; la perifrasi designa Dio), e disse: «Guarda (Mira) quanto è grande la comunità (’l convento) dei beati (bianche stole)!». Quest’ultima espressione è una metonimia, perché in Apocalisse, VII, 9 si dice che i beati sono «amicti stolis albis» [vestiti di bianche stole»]; il passo dell’Evangelista è citato esplicitamente in Paradiso, XXV, 95). 30 Vedi nostra città… ci si disira: «Vedi quanto si estende (quant’ella gira; il pronome è pleonastico) la nostra città; vedi i seggi del Paradiso (nostri scanni) occupati (ripieni) in modo (sì) che qui (ci) si attende (si disira) ormai (più) poca gente». Sono pochi, cioè, gli uomini viventi o nascituri di cui è prevista la salvezza; Dante riteneva prossima la fine del mondo, come risulta da Convivio, II, xiv, 13: «noi siamo già ne l’ultima etade del secolo, e attendemo veracemente la consummazione del celestiale movimento». 31 E ’n quel gran seggio… ch’ella sia disposta: «E in quel grande seggio, al quale tu rivolgi (tieni) lo sguardo a causa della corona che vi è posta sopra, prima che tu partecipi a questo festoso banchetto (a queste nozze ceni, cioè prima che tu muoia e giunga in Paradiso) siederà l’anima, che in terra (giù) sarà già stata (fia) rivestita di dignità imperiale (agosta, dal latino augusta) del grande (alto) Arrigo VII, che verrà a riformare (drizzare) l’Italia prima che essa sia pronta (disposta) <ad accogliere la sua opera>». Beatrice, nella consueta forma della profezia post eventum, predice il tentativo di Arrigo VII, compiuto nel 1310, di restaurare il potere imperiale scendendo in Italia. L’opera di Arrigo, formalmente appoggiata (ma in realtà segretamente avversata) da papa Clemente V, era destinata a fallire (Arrigo morì nel 1313), ma in Paradiso le intenzioni dell’imperatore sono premiate con un seggio contraddistinto dei simboli del potere regale. 32 La cieca cupidigia… caccia via la balia: «La sciocca (cieca) avarizia che vi inganna (ammalia) vi ha resi simili a un bambino che muore di fame e <tuttavia> caccia via la nutrice (balia)». La similitudine descrive il comportamento stolto dell’umanità, che rifiuta quel potere imperiale di cui ha vitale necessità. 33 E fia prefetto… per un cammino: «E sarà preposto (prefetto) alla sede pontificia (nel foro divino) in quel momento (allora, cioè quando Arrigo compirà la sua impresa) un tale (Clemente V) che, nei suoi riguardi (con lui) non si comporterà (andrà) allo stesso modo (per un cammino) palesemente (palese, aggettivo concordato con il pronome relativo «che», ma con significato avverbiale) e in segreto (coverto)». Riferimento all’ambiguità del papa, che ingannò Arrigo fingendo di avallare la sua impresa, ma in realtà ostacolandola. 34 Ma poco… intrar più giuso: «Ma <questo papa> sarà per poco tempo sopportato (sofferto) da Dio nella santa sede (santo officio); tant’è vero che egli (ch’el) sarà precipitato (detruso) là dove meritatamente (per suo merto) si trova Simon mago, e farà scendere più in basso <il papa> di Anagni (Alagna: riferimento a Bonifacio VIII, che in quella località era nato e che lì, nel suo palazzo, subì l’umiliazione nota come “schiaffo di Anagni”)». Nel girone dei simoniaci, l’ultimo papa punito per questo peccato sta infilato in un buco con la testa in giù e i piedi che fuoriescono. All’arrivo del suo successore, però, egli viene sostituito in quella posizione e scivola più in basso nella cavità sotterranea. Nel 1300 l’ultimo papa simoniaco morto era Niccolò III, che Dante ha incontrato all’Inferno. Già in quella cantica era stato previsto che, in futuro, sarebbero arrivati nello stesso girone anche Bonifacio VIII e Clemente V [DIV9a]. 35 E quando il dente… la soccorse: E quando la ferocia (il dente, metafora) longobarda attaccò (morse) la Santa Chiesa, Carlo Magno, vincendo <contro i Longobardi>, la protesse (soccorse) sotto le ali dell’aquila (le sue ali). IL TESTO 1 Traiamo le citazioni di questo paragrafo da Nicolò Mineo, Dante, in Letteratura italiana Laterza, diretta da Carlo Muscetta, Bari, Laterza, 1980, p. 194. |
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