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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici

Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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Dante Alighieri |
Divina Commedia |
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Inferno, XIX, 1-57; Purgatorio, XXVII, 10-66 |
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Contro la Chiesa corrotta: le invettive |
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Stampa - Indice biblioteca online
[Inferno, canto XIX, vv. 1-57] L’ottavo girone dell’Inferno è occupato dalle anime dei fraudolenti. I loro peccati sono i più gravi in assoluto, poiché consistono in un uso distorto dell’intelligenza che Dio ha donato all’uomo. Una particolare categoria di fraudolenti occuperà anche il successivo e ultimo girone dell’Inferno, il nono: si tratta di quanti hanno tradito chi più si fidava di loro (i parenti, la patria, gli ospiti, i benefattori). L’ottavo girone è diviso in dieci bolge (Malebolge): nella prima sono puniti ruffiani e seduttori; nella seconda gli adulatori; nella terza i simoniaci; nella quarta gli indovini; nella quinta i barattieri; nella sesta gli ipocriti; nella settima i ladri; nell’ottava i consiglieri fraudolenti (tra cui Ulisse [DIV5]); nella nona i seminatori di discordie; nella decima i falsari. Le bolge formano un sistema di dieci cerchi concentrici. Ciascuna di esse ha due pareti rocciose collegate da un ponte; la parete esterna è più ripida di quella interna. Attraversando il ponte, per poter affrontare la discesa dal lato più agevole, Dante e Virgilio possono osservare dall’alto la condizione dei dannati. In seguito, scendendo lungo la parete interna, essi hanno la possibilità di avvicinarsi e di parlare con loro. Il XIX canto è ambientato nella terza bolgia. Qui sono puniti i simoniaci, ossia coloro che fecero mercato dei benefici ecclesiastici. Tra di essi ci sono numerosi papi. Protagonista dell’episodio è Niccolò III (che fu pontefice dal 1277 al 1280); ma Dante, attraverso un brillante espediente narrativo, trova il modo di annunciare la dannazione di Bonifacio VIII, non ancora morto nel momento in cui è ambientato il poema. O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci 3 per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state1. 6 Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba2. 9 O somma sapienza, quanta è l’arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte3! 12 Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fòri, d’un largo tutti e ciascun era tondo4. 15 Non mi parean men ampi né maggiori che que’ che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d’i battezzatori; 18 l’un de li quali, ancor non è molt’anni, rupp’io per un che dentro v’annegava: e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni5. 21 Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d’un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l’altro dentro stava6. 24 Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe7. 27 Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni a le punte8. 30 «Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti», diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?9». 33 Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de’ suoi torti»10. 36 E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace»11. 39 Allor venimmo in su l’argine quarto: volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto12. 42 Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca13. 45 «O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa», comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto14». 48 Io stava come ’l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, richiama lui, per che la morte cessa15. 51 Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto16. 54 Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?17». 57 [Paradiso, canto XXVII, vv. 10-66] Nell’ottavo cielo del Paradiso tutti i beati cantano un inno liturgico. Dante si trova al cospetto di quattro grandi santi, tra i quali san Pietro. A un tratto la luce che avvolge quest’ultimo (il quale, come tutte le anime di questa cantica, non ha aspetto corporeo) si colora di rosso. All’improvviso il coro tace e lo stesso san Pietro rivolge una durissima invettiva contro la Chiesa corrotta. Dinanzi a li occhi miei le quattro face stavano accese, e quella che pria venne incominciò a farsi più vivace, 12 e tal ne la sembianza sua divenne, qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne18. 15 La provedenza, che quivi comparte vice e officio, nel beato coro silenzio posto avea da ogne parte, 18 quand’io udi’19: «Se io mi trascoloro, non ti maravigliar, ché, dicend’io, vedrai trascolorar tutti costoro20. 21 Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio, che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, 24 fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ’l perverso che cadde di qua sù, là giù si placa21». 27 Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane, vid’io allora tutto ’l ciel cosperso22. 30 E come donna onesta che permane di sé sicura, e per l’altrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane, 33 così Beatrice trasmutò sembianza; e tale eclissi credo che ’n ciel fue, quando patì la supprema possanza23. 36 Poi procedetter le parole sue con voce tanto da sé trasmutata, che la sembianza non si mutò piùe24: 39 «Non fu la sposa di Cristo allevata del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, per essere ad acquisto d’oro usata; 42 ma per acquisto d’esto viver lieto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano sparser lo sangue dopo molto fleto25. 45 Non fu nostra intenzion ch’a destra mano d’i nostri successor parte sedesse, parte da l’altra del popol cristiano; 48 né che le chiavi che mi fuor concesse, divenisser signaculo in vessillo che contra battezzati combattesse; 51 né ch’io fossi figura di sigillo a privilegi venduti e mendaci, ond’io sovente arrosso e disfavillo26. 54 In vesta di pastor lupi rapaci si veggion di qua sù per tutti i paschi: o difesa di Dio, perché pur giaci?27 57 Del sangue nostro Caorsini e Guaschi s’apparecchian di bere: o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi28! 60 Ma l’alta provedenza, che con Scipio difese a Roma la gloria del mondo, soccorrà tosto, sì com’io concipio29; 63 e tu, figliuol, che per lo mortal pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch’io non ascondo30». 66
IL TESTO I brani sopra presentati si inseriscono in due contesti profondamente diversi. Il primo appartiene al basso Inferno e descrive una delle schiere dei dannati di Malebolge, luogo in cui è punito l’uso distorto e malvagio dell’intelletto umano. In questa cornice non sorprende la scelta di un registro stilistico “comico”, atto a sottolineare la degradazione dei peccatori rappresentandoli in una situazione ridicola, che appare tanto più grottesca se la si mette a confronto con l’altissima dignità di cui essi furono rivestiti in terra. Dante dà fondo, in questo primo episodio, a tutte le risorse del suo sarcasmo. Si può dire che nei suoi versi confluiscono «sdegno di parte, odio, vendetta di vinto», ma occorre ricordare che questi sentimenti sono sempre «coincidenti con la causa del bene e del giusto»; e ciò gli offre «la possibilità felice e inebriante di vendicarsi pur giudicando in nome di Dio, di cantare le note del suo sdegno mentre pur canta le note dello sdegno divino» (Petronio). In questo quadro si inserisce l’espediente narrativo, di insolita perfidia, che qui Dante inventa e che gli consente di dannare Bonifacio VIII prima ancora che egli sia morto. Se è chiaro infatti che la composizione di questo canto è successiva alla morte del pontefice, ciò che conta per il poeta è il fatto che l’azione sia ambientata nel 1300, anno in cui il papa era ancora in vita ed era dunque impossibile collocarlo all’Inferno. Dante, tuttavia, approfittando della grottesca postura da lui attribuita ai simoniaci e ricordando che le anime dell’Inferno conoscono il futuro, fa in modo che Niccolò III incappi in un ben congegnato malinteso: il papa da poco dannato crede di avere già vicino il suo successore; e si stupisce non già per la sua condanna eterna – cosa che egli già attende, avendola letta nell’infallibile libro del futuro – quanto per il fatto che Bonifacio sia giunto all’Inferno con qualche anticipo sulle previsioni. Ma in Dante, si è detto, sdegno ed avversione personale non sono mai disgiunti da un serio e profondo impegno etico: perciò l’episodio infernale non si limita all’uso del registro comico: già all’inizio il tono è solenne e il riferimento alla «tromba» che suona per i peccatori ha il carattere, per questi ultimi, di un sinistro e apocalittico presagio. Nei versi successivi – come meglio vedremo nel prossimo approfondimento [DIV9b] – il poeta farà diretto ricorso all’Apocalisse per esprimere la sua condanna contro la Chiesa corrotta. Assai diverso è il contesto in cui si inquadra il brano del Paradiso, nel quale l’invettiva non sembra inserirsi con naturalezza tra ciò che precede e ciò che segue, ma costituisce un inciso che richiede un’attenta modulazione per poter essere incastonato tra le musiche celestiali. Quando san Pietro inizia a parlare, le anime hanno appena smesso di intonare un canto di gloria rivolto a Dio. La luce che avvolge il Santo si colora di rosso, ed egli prorompe in una requisitoria che all’inizio utilizza – per usare l’espressione di Grabher – «parole che hanno il carnale peso del male e della nausea» («fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza»; vv. 25-26), per acquisire poi progressivamente una biblica solennità, come sottolinea la tessitura retorica del discorso. Balza subito all’occhio, in tal senso, il ricorso enfatico alle anafore. Nel brano sopra riportato, ben quattro versi cominciano con delle negazioni («non», «né»), e due con la congiunzione avversativa «ma». Ma sono anche metafore, enumerazioni, iterazioni, apostrofi a conferire al passo un tono retoricamente sostenuto. Questa sostenutezza serve, ancora una volta, a bollare di eterna infamia i papi avversati da Dante; e salda ancor di più i motivi personali del suo risentimento con la forza di un giudizio morale pronunciato senza mezzi termini in nome di Dio. IL PROBLEMA Nonostante la profonda diversità di collocazione e di tono, i due brani presentano alcune analogie di fondo. Entrambi sono strutturati intorno a uno schema logico segnato da forti opposizioni, dal lacerante contrasto tra termini inconciliabili che si esprime talora sotto la forma retorica dell’antitesi, e che comunque domina e struttura la rappresentazione anche a un livello più profondo. La prima di queste opposizioni binarie è riscontrabile già all’inizio del XIX canto dell’Inferno. Da una parte infatti si afferma che le «cose di Dio» devono essere «spose» della bontà; dall’altra si accusano i simoniaci di prostituirle in cambio di denaro («per oro e per argento avolterate»). Si delinea dunque l’opposizione di fondo tra la Chiesa quale dovrebbe essere – secondo il messaggio cristiano – e la Chiesa quale è divenuta, dopo che il malcostume del clero e la simonia dei papi l’hanno trasformata in una struttura di potere lontanissima dai suoi valori più autentici. La logica dell’opposizione, del contrasto, del capovolgimento domina l’episodio anche a livello figurativo. Essa è icasticamente sintetizzata nella rappresentazione di questi papi, messi letteralmente a gambe all’aria ed eternamente fissati in questainnaturale posizione. Quella che era stata, in vita, la solennità dei gesti propri della loro dignità si rovescia adesso nella ridicola impotenza di un paio di polpacci che scalciano l’aria infernale. D’altronde, il capovolgimento fisico rientra nella legge del contrappasso: «il simoniaco – come scrive Francesco D’Ovidio – ebbe l’animo rivolto ai beni della terra anziché alle cose celesti, ed è conficcato nella terra […]. Capovolse l’ufficio suo traendo vantaggi materiali per l’appunto dalle cose spirituali […] ed è capovolto». A questa stessa logica del capovolgimento va riferito anche il fatto che una fiamma bruci i piedi di questi peccatori, senza peraltro consumarli. Niccolò, come molti altri papi della stessa risma, «avrebbe dovuto aspirare all’aureola del santo, e un nimbo di fuoco gli succia i piedi: un’aureola a rovescio»1. Perfino la similitudine tra la bolgia piena di fori e il battistero di san Giovanni non sembra un semplice pretesto per una precisazione autobiografica: il luogo in cui sono confitti i papi simoniaci assomiglia – ancora una volta, in forma capovolta – a un luogo sacro della cristianità, al più sacro anzi per Dante, che proprio lì ebbe il battesimo. E capovolta, di nuovo, appare la situazione quando Dante, chino verso terra per ascoltare le parole del peccatore, si paragona al frate che confessa l’assassino (invertendo i ruoli e quasi conferendo a se stesso quella dignità ecclesiastica che in vita il papa usurpava). Un comico capovolgimento, infine, si può leggere nelle parole di papa Niccolò. Appena pensa di aver davanti Bonifacio VIII, la sua rabbia prende i toni di una predica stizzosa ma ipocrita, in cui il vecchio papa simoniaco sembra fare la morale al nuovo, rimproverandogli quei peccati dei quali egli stesso aveva dato esempio illustre. Non c’è molto spazio, in mezzo a quest’umanità stravolta da basso Inferno, per ricordare ciò che la Chiesa avrebbe dovuto essere. La sua funzione ideale è appena accennata all’inizio del canto, ai vv. 2-3, dalle parole di Dante poeta. Il XXVII canto del Paradiso distribuisce invece con maggiore equilibrio gli elementi positivi e quelli negativi, articolando la logica contrappositiva sull’alternanza di due serie di temi: quelli con i quali san Pietro richiama la vera finalità della Chiesa e quelli con i quali ne denuncia l’attuale corruzione (anche se l’intento polemico e l’attenzione per il reale porta alla prevalenza dei temi negativi). È naturale che quest’articolazione logica si rispecchi, a livello formale, in una significativa ricorrenza dell’antitesi. Nelle prime due terzine del discorso di san Pietro, l’elemento negativo e quello positivo si alternano con perfetto equilibrio: la Chiesa, sposa di Cristo, «non fu» allevata con il sangue di Cristo «per essere ad acquisto d’oro usata», «ma per acquisto d’esto viver lieto» i primi papi sparsero il loro «sangue». Segue un’elencazione di esempi di degenerazione, prima introdotti dalla congiunzione «non» (v. 46), poi per due volte dal «né» (v. 49, v. 52), quindi inseriti in periodi autonomi disposti ciascuno in una terzina (vv. 55-60). La tensione accumulata da questa serie prorompe finalmente nel «ma» del v. 61, in cui si annuncia (sotto forma di profezia ante eventum) la rigenerazione del mondo – prossima, necessaria e tuttavia dai contorni ancora incerti – garantita dalla bontà divina. Se l’antitesi presiede alla strutturazione dei blocchi che costituiscono nel suo complesso l’invettiva di san Pietro, essa non manca nemmeno all’interno di essi. La ritroviamo infatti ai vv. 46-48, in cui si vede «parte» del popolo cristiano sedere «a destra mano» dei papi, e «parte da l’altra»; o al v. 55, dove i «lupi rapaci» sono contrapposti ai «pastor» (pur presentandosi con le loro vesti); e, da ultimo, nella contrapposizione tra il «buon principio» della Chiesa e il «vil fine» cui essa è pervenuta. L’antitesi più ricca di implicazioni, presente in entrambi i brani qui esaminati, è però quella tra matrimonio e adulterio. Di un matrimonio (quello tra le «cose di Dio» e la «bontate») parla infatti Dante poeta all’inizio del XIX dell’Inferno; della Chiesa come «sposa di Cristo» parla san Pietro nel XXVII del Paradiso. La metafora della Chiesa come sposa di Cristo ha nella Commedia uno sviluppo assai significativo, che trova uno dei suoi momenti principali nel canto XI del Paradiso: quello in cui, raccontando la vita di san Francesco, Dante tratta il tema delle nozze tra Cristo e la Chiesa ponendo il lettore di fronte a una serie di circostanze concatenate in modo assai convincente: Cristo fu sposo della Chiesa, ma fu anche sposo della Povertà; e quest’ultima, rimasta vedova per oltre undici secoli, trovò nuovamente marito solo ai tempi di Francesco. È il caso di riflettere sul fatto che, con riferimento a Cristo, nell’XI del Paradiso si parli solo in apparenza di due spose diverse. Qui Dante non insinua, è ovvio, un’impensabile bigamia di Nostro Signore: il complesso di metafore del canto conduce, viceversa, ad affermare che la Chiesa e la povertà sono e devono rimanere, se si vuol restare fedeli a Cristo, esattamente la stessa cosa [DIV10]. E si tratta di un assunto assai impegnativo. Si può dunque comprendere – e lo si comprende ancor meglio se si rimane dentro la metafora amorosa – di quanta corruzione sia capace l’intromissione della ricchezza all’interno della Chiesa di Cristo: per causa sua, il casto amore matrimoniale si degrada a prostituzione, ad adulterio. Questi tre temi (le nozze, l’adulterio, il denaro) ricorrono infatti nei momenti-chiave dei brani che abbiamo letto: all’inizio del XIX dell’Inferno («O Simon mago, o miseri seguaci / che le cose di Dio, che di bontate /deon essere spose, e voi rapaci / per oro e per argento avolterate»); e all’inizio del discorso di san Pietro («Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata»). E la rappresentazione della degradazione della Chiesa sotto forma di prostituzione sarà al centro di altri passi del poema. Ci riferiamo alla conclusione dello stesso XIX dell’Inferno e al canto XXXII del Purgatorio, accomunati a loro volta dall’esplicita citazione dell’Apocalisse; e da una interpretazione di quest’ultima che collega il pensiero di Dante alla linea più rigorosamente pauperistica dello schieramento francescano [DIV9b].
1 Francesco D’Ovidio, Studi sulla Divina Commedia, Milano-Palermo, Sandron, 1901, p. 365.
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