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[Purgatorio, canto III, vv. 103-145] Io mi volsi ver lui e guardail fiso: Quand’io mi fui umilmente disdetto Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, vadi a mia bella figlia, genitrice Poscia ch’io ebbi rotta la persona Orribil furon li peccati miei; Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia l’ossa del corpo mio sarieno ancora Or le bagna la pioggia e move il vento Per lor maladizion sì non si perde, Vero è che quale in contumacia more per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, ché qui per quei di là molto s’avanza»12. 1 E un di loro… mi vedesti unque: E uno di loro incominciò <a dire>: «Chiunque tu sia, continuando a procedere (così andando), rivolgi <a me> lo sguardo (’l viso); cerca di ricordare (pon mente) se nel mondo (di là, rispetto al Purgatorio) mi vedesti mai (unque, latinismo)». 2 Io mi volsi… diviso: Io mi volsi verso di lui e lo guardai attentamente (fiso): era biondo, e bello e di nobile (gentile) aspetto, ma una ferita (colpo, metonimia) aveva spaccato (diviso) uno dei <suoi> cigli. Questo ritratto richiama quello biblico di Davide: «erat autem rufus et pulcher aspectu decoraque facie» [«era dunque biondo e bello d’aspetto e di nobile volto»] (I Samuele, XVI, 12); c’è anche un richiamo al ritratto di Orlando nella Chanson de Roland: «Bels fut e forz e de grant vasselage» [«Fu bello e forte e di gran nobiltà»] (v. 2278). 3 Quand’io mi fui… a sommo ’l petto: Quando io ebbi negato cortesemente (mi fui umilmente disdetto) di averlo mai visto, egli disse: «Ora guarda (vedi)»; e mi mostrò una ferita (piaga) nella parte alta del (a sommo ’l) petto (cioè vicino al cuore). 4 Poi sorridendo… imperadrice: Poi sorridendo disse: «Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza <d’Altavilla>». Dante utilizza in questo canto alcune notizie storiche la cui conoscenza risulta necessaria per la comprensione del testo. L’imperatrice normanna Costanza d’Altavilla era madre di Federico II, e questi era il padre naturale di Manfredi. Pur non essendo il legittimo erede al trono (lo era infatti il fratellastro Corrado IV, morto nel 1254) Manfredi succedette di fatto a Federico e lottò, con alterne vicende, per il possesso dell’Italia meridionale, usurpando, dopo la morte di Corrado, i diritti del figlio di quest’ultimo, Corradino (di cui diffuse anche la falsa notizia della morte). Manfredi regnò dal 1258 al 1266 e, messosi a capo del partito ghibellino, fu scomunicato e poi perdonato da papa Alessandro IV. Il successivo papa, Clemente IV, conferì la corona di Napoli e di Sicilia a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia. Carlo sconfisse Manfredi nel 1266 a Benevento, in una battaglia che segnò la definitiva disfatta del partito ghibellino e la morte dello stesso Manfredi. I soldati angioini resero però gli onori militari al principe svevo, seppellendolo presso un ponte e ponendo sul suo corpo un tumulo di pietre. Tuttavia papa Clemente IV, memore della scomunica, ordinò al vescovo di Cosenza di disseppellirne il corpo e di abbandonarlo in terra sconsacrata. Per farsi riconoscere, Manfredi pronuncia il nome della nonna, beata nel cielo della Luna, e non quello del padre, dannato tra gli eretici. 5 ond’io ti priego… s’latro si dice: «per cui io ti prego che, quando ritornerai (riedi, presente con valore di futuro) <nel mondo>, tu vada (vadi, forma del congiuntivo normale nel fiorentino del ’200) dalla mia bella figlia, madre (genitrice) del re (onor, metonimia) di Sicilia e <di quello> di Aragona, e racconti (dichi; anche questa forma di congiuntivo era normale ai tempi di Dante) a lei la verità (cioè che Manfredi è in Purgatorio e destinato alla salvezza), se si racconta altro». Manfredi vuole che siano smentite le voci sulla dannazione della sua anima (diffuse dalla pubblicistica guelfa e alimentate dalla persecuzione papale, che non lo risparmiò neanche da morto) e chiede a Dante di rassicurare la sua «bella figlia» Costanza, madre di Federico re di Sicilia e di Giacomo d’Aragona. L’espressione «onor» del v. 116 indica la dignità regale in sé e non comporta un giudizio positivo su questi due re, che in altre opere Dante critica con severità. 6 Poscia ch’io ebbi… volontier perdona: «Dopo che io ebbi il mio corpo (la persona) trafitto (rotta) da due ferite (punte) mortali, io mi affidai (rendei), piangendo, a colui che è sempre pronto a perdonare (quei che volontier perdona, perifrasi per indicare Dio)». Dante accredita una tradizione secondo cui Manfredi si sarebbe pentito dei suoi peccati in punto di morte. 7 Orribil furon… si rivolge a lei: «I miei peccati furono orribili; ma la bontà infinita <di Dio> ha braccia così larghe (metafora) che accoglie chiunque (ciò che) si rivolga a lei». 8 Se ’l pastor… la grave mora: «Se il vescovo (pastor) di Cosenza, che fu inviato (messo) da (per) papa Clemente IV a perseguitarmi (a la caccia di me), avesse allora ben compreso (ben letta) quest’aspetto (faccia) di Dio (ossia la sua infinita misericordia), le ossa del mio corpo sarebbero ancora all’estremità (in co) del ponte presso Benevento (il ponte sul Calore, dove Manfredi era stato seppellito dagli stessi Angioini; cfr. nota ) sotto la custodia (guardia) del pesante tumulo (de la grave mora)». Il disegno persecutorio di papa Clemente IV fu eseguito probabilmente dal vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli. Non sempre però, in questa vicenda, si possono distinguere gli elementi storici da quelli leggendari. 9 Or le bagna… a lume spento: «Ora <invece> le bagna la pioggia e le muove il vento fuori dal Regno <di Napoli>, quasi lungo il fiume Verde, dove egli le trasportò (trasmutò) a lume spento». Le ossa di Manfredi vennero disseppellite e in seguito disperse presso il Verde (il fiume Liri, che segnava il confine tra regno Angioino e Stato della Chiesa). Il trasporto della salma di Manfredi seguì il rito adottato per eretici e scomunicati, che venivano accompagnati con i ceri spenti e capovolti (sine cruce, sine luce), per simboleggiare la maledizione di Dio. 10 Per lor maladizion… ha fior del verde: «Per la maledizione di costoro (lor maladizion, cioè l’anatema pronunciato dagli ecclesiastici) non si perde l’eterno amore <di Dio> in modo tale (sì) che esso non possa essere riconquistato (tornar), finché (mentre che) la speranza ha ancora un po’ di (fior del) verde». La scomunica non ha dunque il potere di escludere definitivamente il peccatore dal perdono di Dio. 11 Vero è che… non diventa: «È <tuttavia> vero che chi (quale) muore nella condizione di scomunicato (contumacia: il termine significa in origine ribellione) dalla Santa Chiesa, anche se (ancor che) si pente in fin di vita, deve stare (star li convien) fuori da questa montagna (ripa) per trenta volte il tempo in cui egli è rimasto fermo (stato) nella sua ostinazione (presunzion), a meno che questo periodo di espiazione per lui stabilito (tal decreto) non diventi più corto per le preghiere dei buoni (buon prieghi)». A prescindere dalle motivazioni non sempre nobili della scomunica, essa comporta comunque una pena a causa dell’ostinazione del peccatore. Questa pena può essere però abbreviata dalle preghiere dei vivi che siano in grazia di Dio, e che contribuiscono a pagare il “debito di carità” per le anime dei defunti. 12 Vedi oggimai… molto s’avanza: «Vedi oramai (oggimai) se puoi allietarmi, rivelando alla mia buona <figlia> Costanza (cfr. nota ) la condizione in cui (come) m’hai visto, e anche questo divieto (di entrare in Purgatorio prima che sia trascorso un tempo pari a trenta volte la durata della scomunica), poiché in Purgatorio (qui) si progredisce (s’avanza) molto grazie ai vivi (per quei di là)». Le preghiere dei vivi, insomma, possono accorciare di molto l’espiazione di queste anime. IL TESTO 1 Jacques Le Goff, La naissance du Purgatoire, Paris, Gallimard 1981, tr. it. La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 1982. |
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