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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici
Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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Dante Alighieri |
Divina Commedia |
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Paradiso, XI, 28-75 |
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Cristo, Francesco e Povertà |
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Stampa - Indice biblioteca online
[Paradiso, canto XI, vv. 28-75] Nei canti XI e XII del Paradiso, ambientati nel quarto cielo (quello del Sole, occupato dagli spiriti sapienti) sono celebrate le figure di san Francesco e san Domenico. Questi santi, nei primi decenni del ’200, fondarono due ordini religiosi che ai tempi di Dante erano spesso contrapposti in campo politico e dottrinario. Entrambi gli ordini però, nel disegno della Provvidenza, dovevano cooperare al rafforzamento della Chiesa, difendendola dalle eresie e riportandola alla sua purezza originaria. I due grandi santi, protagonisti della narrazione di questi canti, non compaiono direttamente. A prendere la parola sono invece due loro illustri seguaci. Nel canto XI è un domenicano (san Tommaso d’Aquino, il filosofo commentatore di Aristotele) a pronunciare il panegirico di san Francesco (ossia del fondatore dell’ordine “rivale”) e a criticare la degenerazione del proprio ordine, i cui esponenti sono ormai quasi tutti lontani dallo spirito del fondatore. Lo stesso schema si ripete, a parti invertite, nel canto XII [DIV11]: qui è un francescano (il mistico san Bonaventura da Bagnoregio) a pronunciare l’elogio di san Domenico per poi lamentare la degenerazione del proprio ordine, lacerato dalle lotte tra Conventuali e Spirituali. Ci soffermiano, in quest’approfondimento, sulla figura di Francesco. La provedenza, che governa il mondo con quel consiglio nel quale ogne aspetto creato è vinto pria che vada al fondo, 30 però che andasse ver’ lo suo diletto la sposa di colui ch’ad alte grida disposò lei col sangue benedetto, 33 in sé sicura e anche a lui più fida, due principi ordinò in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida1. 36 L’un fu tutto serafico in ardore; l’altro per sapienza in terra fue di cherubica luce uno splendore2. 39 De l’un dirò, però che d’amendue si dice l’un pregiando, qual ch’om prende, perch’ad un fine fur l’opere sue3. 42 Intra Tupino e l’acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa d’alto monte pende, 45 onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole; e di rietro le piange per grave giogo Nocera con Gualdo4. 48 Di questa costa, là dov’ella frange più sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo tal volta di Gange5. 51 Però chi d’esso loco fa parole, non dica Ascesi, ché direbbe corto, ma Oriente, se proprio dir vuole6. 54 Non era ancor molto lontan da l’orto, ch’el cominciò a far sentir la terra de la sua gran virtute alcun conforto7; 57 ché per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse, a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra8; 60 e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito; poscia di dì in dì l’amò più forte9. 63 Questa, privata del primo marito, millecent’anni e più dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito10; 66 né valse udir che la trovò sicura con Amiclate, al suon de la sua voce, colui ch’a tutto ’l mondo fé paura11; 69 né valse esser costante né feroce, sì che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce12. 72 Ma perch’io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povertà per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso13. 75
1 La provedenza… per guida: La provvidenza, che regola il mondo con quella sapienza (consiglio, latinismo) rispetto alla quale ogni intelligenza (aspetto, latinismo che letteralmente significa vista) di creatura umana (creato) si rivela impotente (è vinto) prima che riesca a scrutare fino in fondo (pria che vada al fondo), affinché (però che) la sposa (metafora per indicare la Chiesa) di colui che, tra alte grida <di dolore>, la sposò con il suo sangue benedetto (perifrasi per designare Cristo) andasse verso (ver’) il suo amato (diletto; i vv. 31-33, in sintesi, significano affinché la Chiesa andasse verso Cristo) solida (sicura) al suo interno e ancor più fedele (fida) a lui, prescelse (ordinò) due capi (principi) in favore di essa (ossia della Chiesa), che le facessero da guida da una parte (quinci) e dall’altra (quindi). Francesco e Domenico sono figure diverse ma complementari: la loro predicazione risponde a un medesimo disegno provvidenziale, finalizzato a rafforzare la Chiesa riportandola alle sue vere radici cristiane. Le perifrasi di queste terzine richiamano numerosi passi scritturali. Le «alte grida» del v. 32 provengono dal «clamans voce magna» dei Vangeli (Matteo, XXVII, 50; Marco, XV, 37; Luca, XXIII, 46); il v. 33 richiama invece l’espressione degli Atti degli apostoli «adquisivit sanguine suo» (XX, 28). 2 L’un… uno splendore: Il primo (L’un, cioè Francesco) fu molto simile a un serafino (tutto serafico) per la sua carità (in ardore); il secondo (l’altro, Domenico), per la sua sapienza <teologica>, risplendette in terra come la luce dei cherubini. Le schiere angeliche dei Serafini e dei Cherubini sono caratterizzate, rispettivamente, dalla carità e dalla sapienza. 3 De l’un dirò… l’opere sue: Parlerò <solo> del primo (De l’un, cioè di Francesco), poiché (però che), elogiando (pregiando) uno di essi (l’un), qualunque si scelga (qual ch’om prende, costruzione impersonale che richiama quella francese introdotta da on), si parla (si dice) di entrambi (d’amendue), perché le loro (sue) opere furono rivolte a un unico fine. 4 Intra Tupino… con Gualdo: Tra il <fiume> Tupino e il fiume <Chiascio> (l’acqua), che scende dal colle <di Gubbio>, prescelto (eletto) <per il suo romitaggio> dal beato Ubaldo Baldassini (vescovo di Gubbio dal 1129 al 1160), un fertile pendìo (costa) pende da un alto monte (il massiccio del Subasio), a causa del quale (onde, riferito a «monte») i perugini (Perugia, metonimia) sentono <arrivare> il freddo e il caldo dalla porta Sole (che era collocata nella parte est della città); e dalla parte opposta (di rietro) al pendìo (le, lett. ad essa, riferito a «costa») soffrono (piange, verbo al singolare per una pluralità di soggetti), a causa della pesante oppressione (giogo) <del monte>, Nocera e Gualdo Tadino. Le due terzine individuano con esattezza i luoghi in cui si svolgerà la vicenda narrata nei versi successivi: ci troviamo in Umbria, dalla parte occidentale del monte Subasio (ai cui piedi si trova Assisi). Rispetto a questo monte, Perugia è collocata ad ovest: la presenza della massa calcarea del Subasio determina un riscaldamento della temperatura in estate; d’inverno, invece, la neve che cade su di esso raffredda la città. Nocera e Gualdo si trovano invece ad est del monte: il loro “pianto” può spiegarsi con il fatto che, nel pomeriggio, la massa del Subasio («grave giogo») sottrae a queste città qualche ora di sole. 5 Di questa costa… di Gange: Da questa pendice <occidentale> del monte, nel punto in cui (là dove) essa diventa meno ripida (frange più sua rattezza, lett. attenua di più la sua ripidezza), nacque per il mondo un sole, come fa il vero sole (questo: si ricordi che l’azione dei canti XI e XII è ambientata proprio nel cielo del Sole) talvolta dal Gange. Il sole, secondo la geografia medievale, nasce dalle parti del Gange nell’equinozio di primavera, momento in cui gli astri sono particolarmente propizi all’umanità [DIV1b]. La nascita di Francesco viene allegoricamente indicata come nascita di un sole, utilizzando un’immagine diffusa nell’agiografia francescana («Quasi sol oriens mundo, beatus Franciscus vita, doctrina et miraculis claruit» [«Come un sole che sorge nel mondo, il beato Francesco splendette per vita, dottrina, miracoli»]; Bernardo da Bessa, Liber de laudibus). Si ricordi inoltre che l’immagine del Sole richiama costantemente in Dante l’idea della luce di Dio [qLDIV1a]: si può dunque comprendere la particolare importanza che Dante attribuisce alla figura di Francesco. 6 Però… dir vuole: Perciò (Però) chi parla (fa parole) di questo luogo, non lo chiami Assisi (Ascesi: nella forma medievale, il luogo d’origine di Francesco racchiudeva già nel suo nome l’idea del percorso ascensionale compiuto dal sole nascente), perché si esprimerebbe (direbbe) in modo incompleto (corto), ma <lo chiami> Oriente, se vuole esprimersi (dir) propriamente (proprio). 7 Non era ancor… alcun conforto: <Il sole-Francesco> non era ancora molto lontano dalla nascita (orto, dal latino orior che significa appunto sorgere) quando (ch’) egli incominciò a far sì che la terra sentisse qualche (alcun) beneficio (conforto) della sua grande potenza (virtute). Il senso letterale (il sole appena sorto vivifica la terra con la sua luce) si fonde perfettamente con quello metaforico (Francesco, giovanissimo, vivifica la terra con la sua virtù di carità). 8 ché per tal donna… nessun disserra: poiché (ché), ancora giovinetto, affrontò l’ira del padre (in guerra del padre corse) per <amore di> una donna tale che a lei, come alla morte, nessuno vuole aprire (diserra) la porta del piacere. Si tratta di un episodio assai noto: nel 1207, all’età di venticinque anni, Francesco donò i guadagni di un affare commerciale affinché con essi venisse restaurata la chiesetta di san Damiano. Il padre, per questo, lo citò in giudizio davanti al vescovo di Assisi. Qui Francesco rinunciò all’eredità paterna e, in presenza del vescovo, si spogliò di tutti i suoi vestiti. Dante collega quest’episodio con il tema, assai diffuso nell’agiografia francescana, delle “nozze mistiche” tra il santo e la Povertà (che viene perciò rappresentata come una donna). Il verso «la porta del piacer nessun diserra» può significare semplicemente che nessuno apre volentieri la porta alla Povertà; secondo Auerbach invece la «porta» va intesa come realistica metafora sessuale. 9 e dinanzi… più forte: e davanti alla curia episcopale <di Assisi> (sua spirital corte, lett. la sua corte spirituale) e in presenza del padre (coram patre, formula latina frequente negli atti notarili) si unì (si fece unito) a lei (le); poi di giorno in giorno l’amò <sempre> più intensamente (forte). 10 Questa… sanza invito: Costei (Questa, la Povertà), divenuta vedova (privata) del primo marito (cioè Cristo) rimase (si stette) disprezzata e dimenticata (dispetta e scura) per più di mille e cento anni, fino al tempo di Francesco (fino a costui), senza che nessuno la cercasse (sanza invito). La vicenda della Povertà – che aveva sposato Cristo e, dopo la sua morte, non aveva più avuto altro marito – allude evidentemente alla degenerazione della Chiesa, che ha dimenticato per undici secoli – cioè appunto dalla sua fondazione al tempo di Francesco – questa fondamentale regola di vita cristiana. 11 né valse udir… fe’ paura: né servì (valse) <a renderla più desiderabile> sentir raccontare (udir) che colui che fece paura a tutto il mondo (perifrasi per indicare Giulio Cesare) la trovò tranquilla (sicura) insieme ad Amiclate, quando fece sentire la sua voce. Ci si riferisce qui a un episodio narrato nel Bellum civile di Lucano: durante le feroci scorribande delle truppe cesariane e pompeiane, che si combattevano nella guerra civile, Cesare giunse davanti a una capanna che aveva l’uscio spalancato. Il pescatore Amiclate, che la abitava, non aveva infatti nulla da temere da guerre e saccheggi proprio a causa della sua completa povertà. 12 né valse esser… in su la croce: né servì (valse) <a renderla più desiderabile> il suo essere costante ed eroicamente fedele (feroce) a Cristo, al punto che (sì che), quando (dove) Maria rimase ai piedi della croce (giuso) essa (la Povertà) pianse insieme a Cristo sulla croce stessa. Anche il racconto secondo cui la Povertà salì sulla croce, per soffrire fino all’ultimo insieme a Cristo, proviene a Dante dall’agiografia francescana, in particolare dal Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate, il più significativo testo che tratta il tema delle “nozze mistiche”: «Non reliquisti eum usque ad mortem, mortem autem crucis. Et in ipsa cruce, denudato iam corpore, extensis brachiis, manibus et pedibus confixis, secum patiebaris» [«Non lo lasciasti fino alla morte, proprio alla morte in croce. E sulla stessa croce, denudato il corpo, distese le braccia, mani e piedi inchiodati, soffrivi insieme a lui»]. 13 Ma perch’io… parlar diffuso: Ma, affinché io non proceda in modo troppo oscuro (chiuso), identifica (prendi) oramai Francesco e la Povertà in (per) questi amanti, all’interno del mio lungo discorso (parlar diffuso). San Tommaso chiarisce esplicitamente la metafora che presiede all’intero episodio.
IL TESTO Francescani e domenicani Il brano trattato in questo approfondimento costituisce la parte iniziale del racconto agiografico sulla vita di Francesco, presentato dal domenicano Tommaso d’Aquino con lo scopo di promuovere la doverosa concordia di due ordini religiosi che, nella realtà storica del tempo di Dante, erano spesso in conflitto sul piano politico e dottrinario. L’introduzione all’episodio (vv. 21-42) intende proprio proclamare l’unità tra i due ordini all’interno di uno stesso disegno provvidenziale. Quest’esigenza di unità è sottolineata anche dalla costruzione parallela che unisce questo canto del Paradiso al successivo. Qui è un domenicano a pronunciare l’elogio di Francesco (ed egli stesso, nei versi finali che non abbiamo riportato, condannerà gli esponenti degenerati del proprio ordine). Lo stesso schema si ripresenterà, a parti invertite, nel canto successivo: sarà infatti un francescano (san Bonaventura) a pronunciare l’elogio di san Domenico e a rimproverare con severità i francescani che tradiscono il significato originario della regola. Questo schema riflette un cerimoniale diffuso nella tradizione liturgica del tempo, inteso anch’esso a promuovere la concordia tra i due ordini: in occasione della festa di san Francesco (4 ottobre) si era soliti affidare la predica a un domenicano, mentre era di norma un francescano a salire sul pulpito per la festa di san Domenico (7 agosto). L’attenzione che Dante dedica alla costruzione simmetrica dei due canti non è certamente casuale. Essa risponde a un’esigenza di sintesi, alla ricerca di un’interpretazione unitaria della realtà che ne superi e ne trascenda, in una prospettiva superiore, i contrasti e le lacerazioni. La rivalità che divideva i due ordini non aveva per Dante ragione di esistere, solo che essi fossero ricondotti al vero spirito dei loro fondatori: entrambi gli ordini, infatti, dovevano perseguire con mezzi diversi il fine di rafforzare la Chiesa. I domenicani furono particolarmente attivi nella lotta alle eresie e nel consolidamento della dottrina, mentre i francescani contribuirono a richiamare la Chiesa a quello spirito di povertà che essa era andata progressivamente perdendo in poco più di undici secoli di vita. La predicazione francescana e la pratica della povertà avevano un’intrinseca carica contestativa e antiborghese, e potevano anche creare scandalo presso quanti puntavano a una comoda conciliazione tra fede cristiana, da una parte, e ricchezza e potere dall’altra. Ma Francesco si mantenne sempre nell’alveo della Chiesa, ricevendo l’approvazione papale e incanalando il proprio slancio di rinnovamento nei limiti di obbedienza imposti dall’ortodossia. Nonostante l’equilibrio che Dante persegue nella costruzione dei due canti, la figura di san Francesco finisce per acquistare un risalto morale e profetico del tutto eccezionale. A conferirle tale risalto è soprattutto il tema delle nozze mistiche con la Povertà. Quest’ultima diviene nel canto XI un vero e proprio personaggio, che conferisce all’intero episodio una forte carica contestativa verso una società eticamente corrotta dal denaro e verso una Chiesa ormai lontana dallo spirito delle sue origini. Fin dall’inizio del suo viaggio, attraverso l’allegoria della lupa, Dante aveva chiarito come l’ordine sociale borghese-mercantile costituisse la minaccia più insidiosa per il futuro dalla cristianità. Adesso, nella vicenda “matrimoniale” della Povertà, egli racchiude un duro atto d’accusa contro la degenerazione di una Chiesa che, di quest’ordine sociale, si è resa ormai interessata succube1. IL PROBLEMA La metafora nuziale: due spose, anzi una Nell’illustrare le finalità provvidenziali per le quali sono stati inviati sulla terra i due «principi», san Tommaso definisce la chiesa come «sposa» di Cristo; per meglio dire, egli la designa perifrasticamente come «la sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto» (vv. 31-33). Il tema del sangue richiama gli Atti degli Apostoli, dove però è detto soltanto che Cristo ha «acquistato» la Chiesa con il suo sangue («adquisivit sanguine suo»; XX, 28). La designazione metaforica della chiesa come sposa di Cristo era invece presente nella Patristica (per esempio in Agostino) e trovava il suo fondamento nell’interpretazione di alcuni passi dei Vangeli e delle Lettere di san Paolo. La scelta di quest’immagine, in Dante, non appare affatto casuale. Il tema nuziale ricorre infatti frequentemente in questi versi e il suo vero significato può apparire chiaro solo se si mettono in rapporto tra loro tutti i passi in cui la metafora ritorna. Sempre con riferimento a Cristo, la metafora ricompare poco più avanti, in una terzina di importanza fondamentale. Protagonista femminile non è stavolta la Chiesa ma la Povertà, descritta come una donna vecchia e ripugnante. Ai vv. 63-66 si afferma infatti che essa, «privata del primo marito», fu da tutti abbandonata e disprezzata per oltre mille e cento anni. Non può esserci dubbio sul fatto che il primo marito della Povertà fosse proprio Gesù Cristo: l’abbandono della vedova dura infatti dall’anno 33 (ossia dalla Passione e morte di Gesù) fino al 1207 (anno a cui si possono datare le nuove “nozze” con Francesco). La Povertà, del resto, ha mostrato a Cristo tutta la sua eroica fedeltà: a lei sola fu dato piangere sulla croce, quando perfino la Vergine «rimase giuso» (vv. 71-72). Sembra evidente, a questo punto, il rapporto che deve istituirsi tra questa metafora matrimoniale e quella, di pochi versi precedente, che indica la Chiesa come sposa di Cristo: siamo obbligati a concludere che la Chiesa e la Povertà, nella prospettiva di Dante, siano perfettamente identificate l’una con l’altra. San Francesco, alter Christus Si può dunque intuire l’importanza del fatto che Francesco sia presentato, dopo Gesù, come il secondo marito della Povertà. Il santo di Assisi viene direttamente accostato a Cristo, di cui appare come il più perfetto imitatore. Questa perfezione è confermata da almeno altri due elementi. In primo luogo, quando si tratta della nascita del santo, questi viene designato come «un sole» (v. 50); sappiamo bene che il Sole, metaforicamente o allegoricamente, si identifica in altri luoghi della Commedia con Dio stesso [DIV1a]; e sappiamo che nel Cantico di san Francesco esso porta «significatione» dell’Altissimo [C1]. Al momento della morte, inoltre, la figura del santo si arricchisce di un ulteriore significativo segno. Dante si rifà al racconto tramandato dall’agiografia francescana, secondo la quale fu lo stesso Gesù Cristo, apparsogli in figura di Serafino, a recargli le Stimmate (ossia i segni delle piaghe della crocifissione impressi nelle mani, nei piedi e nel costato); la narrazione di Dante riprende questo racconto in forma essenziale, sacrificando i dettagli aneddotici al significato profondo dell’episodio: nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno2 (vv. 106-108). In sintesi, i tre momenti decisivi dell’esistenza di Francesco (la nascita, le “nozze” e la morte) sono scanditi da segni che ne propongono una somiglianza straordinaria con Cristo. Si è visto prima come Dante, nei canti XI e XII del Paradiso, abbia cura di non contrapporre mai francescani e domenicani, anzi presenti costantemente entrambi gli ordini come cooperanti all’interno di un unico disegno provvidenziale. E occorre anche ricordare che proprio l’aristotelismo di san Tommaso (dunque di un domenicano) costituisce una parte essenziale dell’intelaiatura filosofica della Commedia. Nondimeno, se la cherubica sapienza di Domenico definisce con rigore i contorni teologici entro i quali può muoversi il cristianesimo di Dante – tenendone al riparo l’ansia di rinnovamento da ogni deviazione ereticale –, è soprattutto il serafico ardore di Francesco a indicare con assoluta evidenza la via del rinnovamento morale ed esistenziale da lui auspicato. Solo l’imitazione di Cristo da parte di ogni credente può ricondurre la Chiesa alla purezza della propria missione e salvare il mondo dalla “lupa”. E solo nell’esempio scandaloso di Francesco, nel gesto contestativo dell’ordine borghese implicito nelle sue nozze con la Povertà, Dante scorge la possibilità di un altro ordine possibile: un ordine da costruire a partire da scelte di vita coraggiose e radicali, senza mai rifugiarsi dietro soluzioni di comodo che prospettino un’inammissibile conciliazione tra Dio e Mammona.
1 Ciò non implica, lo ripetiamo, che Dante esprima preferenza o prenda posizione all’interno delle dispute che dividevano i due ordini. È giusto ricordare che il precetto della povertà riveste notevole importanza anche all’interno dell’ordine domenicano, che è anch’esso un ordine mendicante, in quanto trae il suo sostentamento solo dalle offerte dei fedeli, senza sfruttare proprietà fondiarie o esercitare diritti feudali. 2 nel crudo sasso… portarno: nell’aspro colle tra Tevere e Arno (il colle della Verna, presso Bibbiena) ricevette da Cristo l’ultimo segno (sigillo, ossia le stimmate), che le sue membra portarono per due anni.
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