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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici
Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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Dante Alighieri |
Divina Commedia |
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Purgatorio, I, 13-75 |
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Allegoria e figura – Alle porte del Purgatorio |
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[Purgatorio, canto I, vv. 13-75] La montagna del Purgatorio è il primo spazio aperto che si presenti agli occhi di Dante nel corso del suo viaggio. Dopo aver attraversato insieme a Virgilio la voragine dell’Inferno, essere giunto al centro della Terra dove è confitto Lucifero, aver percorso un tortuoso e disagevole sentiero sotterraneo («natural burella»: Inferno, XXXIV, v. 98) che conduce all’emisfero opposto rispetto a quello delle terre emerse, il poeta esce finalmente a «riveder le stelle» (Inferno, XXXIV, v. 139). A nessun uomo vivente, dai tempi di Adamo ed Eva, è stato mai concesso di arrivare a questa montagna: l’unico, «folle» tentativo di avvicinarsi ad essa, compiuto da Ulisse [DIV5], si era concluso con un naufragio. La seconda cantica – dopo l’indicazione della materia e l’invocazione alle Muse [DIV2a]) – si apre con la descrizione del paesaggio. Il Purgatorio è ritratto con i colori di un’alba limpida, con un gioco di tinte delicate che però si carica di complesse valenze allegoriche (vv. 13-27). Il centro dell’episodio è costituito dall’incontro con Catone l’Uticense, insigne uomo politico dell’antichità pagana, che si uccise – opponendosi a Giulio Cesare – per difendere la libertà di Roma. Dante-poeta, che ne ammira la moralità sulla scorta del poeta latino Lucano, lo sceglie ora come custode del Purgatorio, rileggendone la vicenda – e perfino spiegandone il suicidio – in una dimensione pienamente cristiana. Dolce color d’orïental zaffiro, che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, 15 a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ’l petto1. 18 Lo bel pianeto che d’amar conforta faceva tutto rider l’orïente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta2. 21 I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente3. 24 Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle: oh settentrïonal vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle4! 27 Com’io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l’altro polo, là onde il Carro già era sparito, 30 vidi presso di me un veglio solo5, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo6. 33 Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista7. 36 Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante8. 39 «Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», diss’el, movendo quelle oneste piume9. 42 «Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna?10 45 Son le leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?11». 48 Lo duca mio allor mi diè di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio12. 51 Poscia rispuose lui: «Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni. 54 Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi di nostra condizion com’ell’è vera, esser non puote il mio che a te si nieghi13. 57 Questi non vide mai l’ultima sera; ma per la sua follia le fu sì presso, che molto poco tempo a volger era14. 60 Sì com’io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non li era altra via che questa per la quale i’ mi son messo15. 63 Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sé sotto la tua balìa16. 66 Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti; de l’alto scende virtù che m’aiuta conducerlo a vederti e a udirti17. 69 Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta18. 72 Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara19. 75
1 Dolce color… petto: Un dolce colore <azzurro>, simile a quello dello zaffiro orientale, che si addensava (accoglieva) nel limpido aspetto dell’aria (mezzo, in quanto l’aria è l’elemento attraverso il quale percepiamo gli oggetti e i suoni), pura (ossia non turbata da fenomeni naturali come le nuvole o la nebbia) fino all’orizzonte (primo giro), rinnovò il godimento (ricominciò diletto) ai miei occhi, non appena (tosto ch’) io venni fuori (uscii fuor, ridondanza) dall’aria infernale (aura morta) che mi aveva afflitto (contristato) la vista (li occhi) e il cuore (’l petto). Quello del Purgatorio è un paesaggio naturale (Dante, uscendo dall’Inferno, è colpito soprattutto dalla limpidezza dell’aria e dalla serenità del cielo), ma il suo significato va ben oltre la lettera. Il colore azzurro del cielo è ad esempio rappresentato con la metafora dell’«orïental zaffiro». L’aggettivo “orientale” designa una specie di questa pietra preziosa proveniente dalle Indie, il cui colore azzurro richiama appunto quello del cielo. Ma tale aggettivo (richiamandosi etimologicamente al verbo latino orior, che significa nascere, sorgere) allude anche al sorgere del Sole, che allegoricamente rappresenta Dio (Cristo stesso era detto sol oriens, “sole nascente”). La rappresentazione del paesaggio si arricchisce dunque dell’idea di una rinascita, alludendo al percorso di purificazione che si compie in Purgatorio. Va detto anche che questa scena si colloca all’alba del quarto giorno di viaggio, che corrisponde alla mattina di Pasqua: oltre che di rinascita, dunque, si può parlare di Resurrezione. Il riferimento allo zaffiro, infine, non è dovuto solo al suo colore: i lapidari medievali attribuivano allo zaffiro qualità meravigliose: fare uscire i prigionieri dal carcere, placare Dio, togliere dagli occhi la sporcizia. Come si vede, gli elementi del paesaggio – senza perdere nulla della propria naturalezza e concretezza – richiamano allusivamente la situazione del pellegrino Dante, che uscendo dal regno del peccato si appresta a percorrere il cammino di purificazione e di riconciliazione con Dio. 2 Lo bel pianeto… scorta: Il bel pianeta <di Venere>, che conforta ad amare, faceva splendere (rider, metafora) tutto l’oriente, offuscando la luce (velando) della costellazione dei Pesci, con cui si trovava congiunto. Nell’ora in cui è collocata questa scena, cioè all’alba, Venere si trova effettivamente a est. Ma l’esplicito richiamo all’amore, oltre che a designare perifrasticamente il pianeta, allude al sentimento che accomunerà tutte le anime del Purgatorio. Questo regno è infatti caratterizzato da una corale inclinazione alla carità; e questa forma di amore cristiano è strettamente connessa con la rinascita dell’anima che si attua nel Purgatorio. Significativa, in tal senso, appare l’insistenza, a distanza di sette versi, sulla parola «orïente» (cfr. nota ). 3 I’ mi volsi… prima gente: Io mi rivolsi verso sud (a man destra; poiché precedentemente Dante guardava ad oriente, alla sua destra c’è il Sud) e prestai attenzione (puosi mente) al polo antartico (l’altro polo: nella geografia medievale il polo Sud, visto dal Purgatorio, appare alto sull’orizzonte trenta gradi, esattamente come apppare il polo Nord visto da Gerusalemme: i due luoghi si trovano infatti agli antipodi) e vidi quattro stelle che non furono mai viste fuorché dai primi uomini creati (a la prima gente: infatti, dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, nessun uomo potè abitare nell’emisfero australe). Le quattro stelle che Dante immagina siano visibili al polo Sud sono con ogni probabilità da considerarsi, nella sua concezione geografica, realmente esistenti. Esse hanno tuttavia anche un significato allegorico: rappresentano le quattro virtù cardinali (Giustizia, Prudenza, Fortezza e Temperanza), virtù umane, che – a differenza di quelle teologali: Fede, Speranza e Carità – non necessitano della Rivelazione. L’uomo, che al momento della creazione possedeva tali virtù dalla nascita, le ha perdute dopo il peccato originale. È per questo che, anche allegoricamente, può dirsi che queste stelle non siano mai state viste «fuor ch’a la prima gente». 4 Goder pareva… mirar quelle: Il cielo sembrava godere delle loro luci (fiammelle): oh, misero (vedovo, nel senso di privato, spogliato) emisfero (sito) settentrionale, poiché sei privato <della possibilità> di guardarle! Anche questi versi hanno duplice significato. Da un lato, infatti, la luce delle stelle abbellisce l’aspetto del cielo australe, che sembra “goderne”. In senso figurato, invece, le virtù cardinali (le stelle) rafforzano quelle teologali (il cielo). Chiaro anche il duplice significato della deplorazione finale sul «settentrïonal vedovo sito»: all’impossibilità reale per l’uomo di contemplare la bellezza delle quattro stelle (senso letterale) va sommata, sul piano allegorico, l’impossibilità per gli uomini vissuti dopo il peccato originale di possedere fin dalla nascita le virtù cardinali. 5 Com’io… figliuolo: Quando io (Com’io) fui distolto (fui partito) dalla visione (sguardo) di esse (loro, con valore oggettivo e riferito alle stelle), rivolgendomi per un po’ verso il polo artico (a l’altro polo), in quel punto (là) da dove (onde) l’Orsa Maggiore (il Carro) era già scesa sotto la linea dell’Orizzonte (era sparito), vidi vicino a me un uomo anziano (veglio) e solitario. Il termine «veglio», dal provenzale velh, possiede una connotazione di dignità che lo distingue dal suo sinonimo «vecchio», che ha invece connotazione dispregiativa: in Inferno, III, 83 Dante usa quest’ultimo termine per designare Caronte. In Paradiso infine, per indicare la venerabilità di san Bernardo, userà un altro sinonimo, il prezioso latinismo «sene». 6 degno… figliuolo: degno, quanto al suo aspetto (in vista), di tanta reverenza che nessun figlio (alcun figliuolo) deve una <reverenza> maggiore (più non dee) al proprio padre. 7 Lunga la barba… doppia lista: Portava una barba lunga e brizzolata (di pel bianco mista), dello stesso colore (simigliante) dei suoi capelli, dei quali due ciocche (doppia lista) scendevano (cadeva) sul petto. Il personaggio qui rappresentato è Marco Porcio Catone, insigne uomo politico della Roma repubblicana che si oppose a Cesare e, una volta sconfitto, si uccise stoicamente a Utica (presso l’odierna Tunisi), nel 46 a.C. La sua raffigurazione è ispirata al Bellum civile di Lucano, poeta di età neroniana ammirato da Dante. Lucano racconta che Catone, dall’inizio della guerra civile tra Cesare e Pompeo, aveva smesso di radersi la barba e si era lasciato crescere i capelli. Il suo eroico sacrificio viene esaltato dal poeta latino in un verso divenuto celebre: «Victrix causa Deis placuit, sed victa Catoni» [«La causa del vincitore (Cesare) piacque agli Dei, ma quella sconfitta (cioè quella repubblicana di Pompeo) <piacque> a Catone»]. Nell’Eneide (VIII, 670), Catone viene poi rappresentato come legislatore delle anime giuste: «secretosque pios, his dantem iura Catonem» [«e in disparte le anime dei giusti, e Catone che dà loro le leggi»]. Nel Medioevo, alla vicenda di Catone si erano sovrapposte complesse interpretazioni in chiave cristiana. Lo stesso Dante, nel Convivio (IV, XXVIII, 15) si chiede: «quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone?». Nel Purgatorio a Catone è riservata non solo una eccezionale salvezza (che dovrebbe essergli di norma negata, sia perché pagano sia perché suicida), ma addirittura il ruolo di custode del monte che porta al Paradiso. 8 Li raggi… fosse davante: I raggi delle quattro sante stelle (luci sante) rischiaravano (fregiavan) tanto (sì) la sua faccia di luce (lume), che io lo vedevo quasi come se davanti a lui ci fosse il sole. La scena si svolge all’alba, prima del sorgere del sole, ma la luce delle stelle è così intensa da somigliare quasi a quella solare. Allegoricamente, la terzina significa che, in Catone, le virtù cardinali erano giunte a tal punto di perfezione, che egli era quasi come illuminato da Dio (il Sole). 9 Chi siete voi… oneste piume: «Chi siete voi che, risalendo a ritroso il corso del ruscello sotterraneo (contra al cieco fiume: il cunicolo che va dal centro della Terra alle pendici del Purgatorio, attraversato da Dante e Virgilio, costeggiava infatti il corso di un ruscello) siete fuggiti dall’Inferno (pregione etterna)?», disse Catone (el), muovendo quella barba (piume) dall’aspetto dignitoso (oneste). Le domande di Catone manifestano stupore, poiché egli non sa ancora che Dante è vivo, né è a conoscenza del fatto che Virgilio non è dannato all’Inferno (proviene infatti dal Limbo, dove tra l’altro è anche Marzia, la moglie di Catone). A queste domande risponderà Virgilio, nei vv. 76-81 (non riportati in questo brano antologico). 10 Chi v’ha guidato… notte inferna: «Chi vi ha guidati, o cosa (che) vi ha rischiarato il cammino (vi fu lucerna, lett. fu per voi un lume) nell’uscire (uscendo fuor) dalla profonda oscurità (notte) che rende sempre nera la voragine (valle) dell’inferno?». 11 Son le leggi… alle mie grotte: «Le leggi dell’Inferno (d’abisso) sono state infrante (rotte) fino a questo punto (così)? O è cambiata (mutato è) in cielo la decisione (consiglio), <divenendo> nuova, in modo che (che), <pur essendo> dannati, voi potete venire a queste rocce (grotte) custodite da me (mie)?». 12 Lo duca mio… ’l ciglio: La mia guida (duca, dal verbo latino ducere) allora mi afferrò (mi diè di piglio) e rivolgendomi parole, spingendomi con le mani e facendomi cenni mi indusse ad assumere un atteggiamento reverente, inginocchiandomi e ad abbassando lo sguardo (reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio). 13 Poscia rispuose… si nieghi: Poi gli (lui, complemento di termine) rispose (il soggetto è Virgilio): «Non sono venuto di mia iniziativa (da me); è scesa dal cielo una donna (Beatrice) per le cui preghiere ho soccorso (sovvenni) costui con la (de la) mia compagnia. Ma poiché (da che) è tuo volere che si spieghi meglio (più) la nostra condizione, quale essa è veramente (vera, aggettivo usato in funzione avverbiale), il mio <volere> non può essere che a te si neghi <questa spiegazione>». 14 Questi non vide… a volger era: «Costui (Questi, cioè Dante) non conobbe (vide) mai la morte (l’ultima sera, con riferimento alla morte del corpo), ma per il suo peccato di superbia (follia designa nella Commedia una eccessiva fiducia nell’intelletto umano; non a caso, in Inferno, XXVI, 125, il viaggio di Ulisse è definito «folle volo») fu così vicino ad essa (le, riferito ancora alla morte intesa però, stavolta, in senso spirituale, cioè come dannazione dell’anima) che sarebbe dovuto passare (a volger era) pochissimo tempo». Quest’ultimo verso si intende forse meglio in senso allegorico: per i suoi peccati, Dante era ormai a un passo dalla perdizione. 15 Si com’io dissi… mi son messo: «Come ho detto, fui mandato a lui per salvarlo (lui campare); e non vi (li) era altra via che quella per cui mi sono incamminato (messo)». 16 Mostrata li ho… la tua balìa: «Gli ho mostrato tutti i dannati (gente ria), e ora intendo mostrargli quegli spiriti che si purificano (purgan sé) sotto il tuo governo (balìa, dal francese baille)». 17 Com’io l’ho tratto… a udirti: «Come io lo abbia condotto (tratto) <fino a qui>, sarebbe lungo da raccontarti (a dirti); proviene dal cielo (da l’alto) la virtù che mi aiuta a condurlo <qui>, per vederti e ascoltarti». 18 Or ti piaccia… vita rifiuta: «Dunque (Or), ti sia gradito (ti piaccia) accettare con benevolenza (gradir) il suo arrivo: va cercando la libertà, che è un bene tanto prezioso (sì cara), come sa chi in nome suo (per lei) è disposto a sacrificare la vita (vita rifiuta)». Il suicidio di Catone viene presentato come una sorta di martirio in nome della libertà. Ed è alla ricerca della libertà (che per lui assume però un esplicito valore religioso, nel senso di libertà dal peccato) che tende anche il viaggio di Dante. 19 Tu ’l sai… sì chiara: «Tu lo sai, poiché in nome di essa (per lei, riferito alla libertà) non fu per te amara la morte ad Utica (la città africana in cui Catone si suicidò), dove lasciasti il corpo (la vesta) che nel giorno del Giudizio (al gran dì) sarà così luminoso». Essendo la sua anima destinata alla salvezza, nel giorno del Giudizio anche il corpo di Catone risorgerà.
IL TESTO Premessa: Il Purgatorio, luogo di passaggio A differenza dell’Inferno, luogo in cui i dannati sono destinati a scontare una pena eterna, il Purgatorio è sottoposto alle leggi del tempo: in esso le anime rimangono solo per un determinato periodo – calcolato in base alle loro tendenze al peccato e agli anni di vita trascorsi nell’errore – al termine del quale sarà loro concessa la beatitudine eterna del Paradiso. A differenza di Inferno e Paradiso, inoltre, il Purgatorio non trova precisa definizione nelle Sacre Scritture. La convinzione che nell’Oltretomba esistesse questo regno intermedio trovò conferma nella dottrina della Chiesa solo intorno al XII secolo. Dante, in questo senso, inventa il Purgatorio molto più di quanto abbia inventato Inferno e Paradiso (per i quali poteva fondarsi su una consolidata tradizione teologica). Si può in un certo senso dire, come scrive lo storico francese Jacques Le Goff, che «per la storia del Purgatorio, il miglior teologo è Dante»1. Data la transitorietà delle pene del Purgatorio, e considerato il sicuro destino di salvezza delle anime che lo abitano, la presenza di Catone – al quale non solo è assegnato un posto in questo regno, ma ne è affidato addirittura il governo («balìa») – può risultare sorprendente. Catone, in primo luogo, è un pagano; eppure, a differenza di altri pagani – perfino dello stesso Virgilio – a lui sarà concesso il Paradiso. In secondo luogo, Catone è un suicida; eppure gli è destinata la salvezza, non la dannazione eterna. Il suicidio di Catone, infine, avviene per motivi politici, in opposizione a Giulio Cesare (che era considerato da Dante uno strumento della volontà divina, in quanto dalla sua opera è nato l’Impero romano). E, tuttavia, Dante premia con la salvezza eterna un nemico di quest’uomo della Provvidenza. La salvezza di un pagano, suicida e anticesariano come Catone, costituisce, a prima vista, un paradosso. La nostra lettura intende spiegare perché tale paradosso sia solo apparente. Da qui partiremo inoltre per approfondire ulteriormente la questione dell’allegoria dantesca. Pagani in Paradiso Benché, al tempo di Dante, i pagani fossero visti come inconsapevoli anticipatori del Cristianesimo, non si riteneva di norma che essi fossero destinati alla salvezza. Se erano stati malvagi, non potevano sfuggire alla dannazione. Ai buoni e virtuosi, invece, era destinato il Limbo, un luogo – posto al di fuori dell’Inferno vero e proprio – nel quale non pativano alcuna pena [DIV6a] eccettuata, naturalmente, la sofferenza di non poter vedere Dio. Tra gli uomini vissuti prima di Cristo, solo agli Ebrei era concesso di raggiungere il Paradiso: essi infatti, avendo creduto nella futura venuta del Salvatore, avevano abbracciato l’unica vera fede possibile al loro tempo. Questa regola generale ammette però diverse eccezioni. In Paradiso, ad esempio, Dante collocherà l’imperatore Traiano: pur essendo morto da pagano, egli fu risuscitato da Dio in seguito alle preghiere di papa Gregorio Magno; per questa speciale grazia, una volta tornato in vita, poté convertirsi e salvarsi. Nello stesso cielo si incontra Rifeo, un anonimo Troiano che – pur essendo vissuto molto tempo prima di Cristo – ebbe da Dio la rivelazione della futura venuta del Salvatore; egli fu quindi dotato della stessa possibilità di salvezza concessa agli Ebrei [DIV6a]. Si tratta di casi eccezionali, dovuti alla imperscrutabile volontà di Dio. Tra essi potrebbe rientrare anche la salvezza di Catone. Ma a noi non basta certo constatare che il volere di Dio trascende le capacità di comprensione umana. Il caso di Catone è assai complesso: anche se mettessimo da parte il problema del paganesimo, la sua salvezza sembrerebbe impossibile per altre due ragioni: il suicidio e la scelta politica anticesariana. Come vedremo in questa lettura, però, la salvezza non è garantita a Catone nonostante il suo suicidio, bensì, in un certo senso, grazie a quel suicidio. Se ciò, come si è già detto, appare ai nostri occhi paradossale, così non doveva apparire all’interno della cultura del Medioevo. Per trovare la chiave del problema occorre però familiarizzare con alcuni aspetti della cultura medievale; e occorre, prima ancora, aver coscienza del significato che in quell’epoca si attribuiva al personaggio di Catone. Il personaggio di Catone L’eroe stoico secondo Lucano Marco Porcio Catone era un esponente dello schieramento repubblicano di Roma (capeggiato da Pompeo), noto per integrità morale e severità di costumi. Quando la guerra civile che contrappose Pompeo a Cesare si concluse con la definitiva vittoria di quest’ultimo, Catone – che non voleva cadere vivo nelle mani di Cesare e non voleva sopravvivere alla repubblica romana – si uccise. Poiché il suicidio avvenne nella città africana di Utica, Catone è passato alla storia con l’appellativo di Uticense2. Una parte significativa della fama di Catone, in età medievale, si doveva al poeta latino Lucano, vissuto nel I secolo d.C. Nel suo Bellum civile (poema noto anche sotto il titolo di Pharsalia), il personaggio di Catone spicca per il possesso di eccezionali virtù morali, contrapponendosi a un’epoca di generale decadenza (che, nella visione pessimistica di Lucano, non risparmia né Cesare né Pompeo). Lucano descrive Catone come un uomo virtuoso e immune dall’odio di parte; lo indica come cultore dell’onestà e della giustizia; afferma che egli si credeva nato non per sé, ma per tutta l’umanità; sostiene che le sue azioni erano improntate di spirito divino, attribuendogli le parole «nil facimus non sponte Dei» [«non facciamo niente, se non per volontà di Dio»]. Alcune parole del poema, con cui Catone esprime la sua vocazione al sacrificio, potevano inoltre suonare ai medievali come anticipazione del sacrificio di Cristo. Nel libro II, ad esempio, Catone offre la sua vita per porre fine alla strage, dicendo: «redimat sanguis populos» [il <mio> sangue redima i popoli] (Bellum civile, II, 312). Anche Virgilio aveva attribuito, nell’Eneide, un ruolo di primo piano a Catone; egli compare infatti, nell’Oltretomba, come legislatore delle anime giuste (cfr. nota ). Le scelte di vita di Catone furono improntate alla filosofia stoica. Questa corrente di pensiero, caratterizzata da grande rigore morale, appariva ai medievali assai vicina alle esigenze spirituali del cristianesimo. Dante, nel Convivio (IV, vi, 9-10), manifesta in questo modo la sua ammirazione nei confronti degli stoici: «furono filosofi molto antichi […] che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. […] furono chiamati Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone». In definitiva, la tradizione antica consegnava a Dante un’immagine di Catone che ne esaltava le qualità etiche, facendone un modello di virtù ammirato da tutti, a prescindere dall’impossibilità, per Dante, di condividere le sue scelte politiche anticesariane. Un divorzio allegorico Un particolare significato si attribuiva, nel Medioevo, perfino alle vicende private di Catone. Lucano racconta che egli aveva sposato Marzia, ancora vergine; poi, dopo avere avuto da lei tre figli, l’aveva ceduta all’amico Quinto Ortensio. La donna ebbe altri figli anche da questo marito ma, rimasta vedova, scongiurò Catone di riprenderla con sé. La sua preghiera fu esaudita. Dante, nel Convivio, sostiene che tale vicenda matrimoniale rappresenta allegoricamente la storia dell’anima nelle varie età dell’uomo (dalla gioventù, rappresentata dalla verginità di Marzia, fino all’estrema vecchiaia, rappresentata dalla sua vedovanza). In sostanza, Marzia rappresenta l’anima che, dapprima vicina a Dio, se ne allontana per ritornare infine a lui. Il discorso di Dante si conclude con una domanda retorica: «quale uomo terreno più degno fu di significare Dio che Catone? Certo nullo» (Convivio, IV, xxviii, 15). In definitiva, per i medievali, Catone era certamente un personaggio storico concreto, che aveva vissuto al tempo di Cesare e aveva attraversato realmente alcune vicende pubbliche e private. Ma tali vicende – senza nulla perdere della loro concretezza e storicità – erano anche viste come una sorta di allegoria, poiché anticipavano verità morali e religiose delle quali Catone, all’epoca, era del tutto inconsapevole. È evidente che l’autore di una simile allegoria, che utilizza come significanti fatti concreti e vicende umane, non può essere che Dio, ed è chiaro che l’uomo può solo riconoscerla nella storia. Sulla natura di questa particolare allegoria – che può essere inquadrata nell’allegoria dei teologi, ma che possiede caratteristiche specifiche –, nonché sulla sua importanza per la cultura medievale, ci soffermeremo nella sezione Il problema di questa lettura. Un suicidio-martirio La morale stoica non esaltava il suicidio, ma lo ammetteva in casi estremi, quando l’esercizio della virtù risultasse impossibile per il saggio. A proposito del suicidio di Catone, Cicerone sosteneva che questo gesto – in genere da condannare – andava invece nel suo caso ammirato, in considerazione dei costumi e dell’integrità morale di chi lo aveva compiuto3. Anche nella dottrina cristiana – prima che il Concilio di Trento sancisse la condanna senza riserve di questo gesto – il suicidio poteva essere giustificato, in via del tutto eccezionale. Sant’Agostino ad esempio lo ammetteva quando avvenisse «per ispirazione divina, per mostrare esempio di fortezza, affinché si disprezzi la morte»4. Questa possibilità di eccezionale giustificazione può spiegare il fatto che Dante, nella Monarchia, presenti con ammirazione il gesto di Catone, qualificandolo come «sacrificio»5, e trasformando implicitamente in una sorta di martirio quello che, per gli altri, sarebbe stato un gravissimo peccato. Un nemico di Cesare in Paradiso Se quanto si è sopra detto può permetterci di conciliare la salvezza di Catone sia con la sua condizione di pagano, sia con quella di suicida, rimane da comprendere come mai Dante assegni un ruolo così importante a un nemico di Cesare. È nota infatti la funzione provvidenziale che Dante attribuisce all’Impero romano e all’opera di Cesare che, ponendone le premesse, preparò il mondo all’unificazione politica che avrebbe consentito l’universale diffusione del Cristianesimo. Per risolvere quest’ultimo problema, è opportuno riferirsi alle finalità che, secondo Dante, Dio ha voluto attribuire all’Impero. A quest’ultimo, come è spiegato nella Monarchia, spetta il compito di condurre il genere umano «alla felicità temporale secondo gli insegnamenti della filosofia» [G35, 10]. La necessità di questa guida politica è determinata dal fatto che «la cupidigia umana volterebbe le spalle» alla felicità terrena «se gli uomini, simili a cavalli che vagano nella loro bestialità, non fossero trattenuti nel loro viaggio “con morso e briglie”» [G35, 9]. Insomma, nella prospettiva di Dante, l’esigenza di un governo unitario degli uomini discende dal bisogno di contrastare «l’umana cupidigia»; le istituzioni politiche, in altre parole, ci si presentano non come un bene in sé, ma come un remedium necessario alla generale fragilità morale degli uomini. Catone, tuttavia, si sottrae a questa fragilità, e spicca anzi come esempio di integerrima virtù morale. In questo senso, egli non si pone tanto contro l’Impero, quanto piuttosto al di sopra di esso; la sua moralità rende quindi superfluo il remedium costituito dalla monarchia universale; e pertanto non ha senso giudicare Catone con criteri meramente politici, ed etichettarlo negativamente per la sua posizione anticesariana. Catone è uno di quei pochi uomini che, sia pure «con estrema difficoltà», possono pervenire alla felicità terrena anche senza la guida del «Principe romano» [G35, 11]. IL PROBLEMA Premessa: diverse forme di allegoria Veniamo adesso ad analizzare il significato allegorico che assumono in questo canto sia il personaggio di Catone, sia le quattro stelle. Ricordiamo che, nell’esaminare la questione dell’allegoria dantesca, abbiamo distinto fin qui due casi molto diversi tra loro. Nel primo, esemplificato dalla lupa, il senso letterale è solo il velo sotto cui si nasconde una verità allegorica (A al posto di L). In questo caso, la lettera – il significante dell’allegoria – non è altro che una «bella menzogna», e l’unica cosa che conta è il senso nascosto [DIV1a]. Nel secondo caso, invece, il significante dell’allegoria non è costituito da un racconto fantasioso, ma dalla rappresentazione di cose o eventi reali. Abbiamo visto – esemplificando questa seconda specie di allegoria attraverso la perifrasi astronomica dei quattro cerchi e delle tre croci posta all’inizio del Paradiso – come in questo caso la lettera abbia una sua assoluta veridicità; e come tuttavia essa si ponga come significante di qualcosa che va al di là della realtà fisica cui fa riferimento (A+L [DIV1b]). Seguendo quanto Dante scrive nel Convivio, abbiamo pertanto distinto due generi di allegoria: l’allegoria dei poeti, scritta dagli uomini nelle opere letterarie, il cui significante è letteralmente falso (mentre è vero solo il significato allegorico); e l’allegoria dei teologi, “scritta” da Dio nella realtà e scoperta in essa dagli uomini, nella quale sono veri sia il significante che il significato. Le quattro stelle In questo passo del Purgatorio incontriamo una prima allegoria che – come quella del Paradiso che abbiamo già esaminato – usa come significante gli astri del cielo. Dante osserva quattro stelle, visibili solo agli antipodi del mondo abitato dagli uomini, e perciò viste fin qui solo dalla «prima gente», ossia dagli abitatori del Paradiso Terrestre posto nell’emisfero antartico. Allegoricamente queste stelle rappresentano le quattro virtù cardinali (Giustizia, Prudenza, Fortezza e Temperanza). Si tratta, come abbiamo visto nelle note, di virtù che l’uomo, prima del peccato originale, possedeva fin dalla nascita. Il riferimento alla perdita della possibilità di vederle sottende dunque anche un senso allegorico: con la cacciata dall’Eden, l’umanità ha perduto queste virtù, che possono ancora essere faticosamente conquistate, ma che non saranno più possedute naturalmente come avveniva per la «prima gente». Vediamo ancora che il volto di Catone è rischiarato dalle quattro stelle, in modo tale che Dante può quasi scambiare la loro luce per quella del Sole. Allegoricamente, si potrà dire che Catone aveva raggiunto una tale perfezione nelle virtù cardinali da apparire quasi illuminato dalla luce divina (rappresentata, come sempre, dal Sole). Possiamo ora chiederci a quale genere di allegoria, tra quelli fin qui incontrati, appartenga questa raffigurazione delle quattro stelle. Per il momento, dovremo dare una risposta ipotetica: se Dante ha voluto raffigurare il Purgatorio non come un luogo reale, ma come semplice figurazione allegorica di verità morali, allora è evidente che ci troviamo di fronte a un’allegoria dei poeti. Se invece Dante è davvero convinto che il Purgatorio esista materialmente, che esso sia davvero ubicato agli antipodi di Gerusalemme, che sia strutturato proprio come egli lo descrive, e che nel suo cielo ci siano davvero quelle stelle, diventa evidente che il poeta ci sta qui presentando un’allegoria dei teologi. La risposta a questo quesito dovrebbe risultare chiara al termine della nostra lettura, quando ci saremo interrogati sul rapporto tra verità e poesia nella Commedia. Prima di farlo, però, è necessario occuparci più a fondo del personaggio di Catone, e chiederci come la sua rappresentazione si collochi nel nostro discorso sull’allegoria. Catone: un’allegoria? Il caso di Catone è per certi aspetti nuovo. Questo personaggio si colloca al centro di una rete di allegorie (è proprio il suo volto ad essere rischiarato dalle quattro stelle). A lui Dante ha voluto attribuire un significato che non si limita alla sua esistenza storica (basti pensare ai versi 70-72, in cui Virgilio collega il suicidio-martirio di Catone con la ricerca cristiana della libertà). Tale senso allegorico non può però ridurre questo personaggio a una semplice allegoria dei poeti. Catone infatti – a differenza della lupa – non è un’invenzione poetica, ma un personaggio storicamente esistito che tuttavia, nel poema di Dante, si presenta anche come significante di qualcos’altro. Ci muoviamo piuttosto nell’ambito di quella che abbiamo fin qui designato come allegoria dei teologi. Si tratta però di un caso che presenta caratteristiche diverse da quello in precedenza esaminato con riferimento al Paradiso [DIV1b]. Il concetto di figura nell’interpretazione delle Sacre Scritture È utile ricordare che, con il termine allegoria dei teologi abbiamo inteso fin qui ogni rappresentazione polisema (cioè dotata di una pluralità di significati), il cui senso letterale non fosse fittizio, ma assolutamente concreto e reale6. Dante nel Convivio [G28] esemplifica l’allegoria dei teologi con un fatto storico narrato nell’Antico Testamento (l’Esodo). Come abbiamo visto in precedenza, quando il significante è costituito da un elemento della natura, alcuni autori preferiscono parlare di simbolismo. In un suo saggio del 1944 il filologo tedesco Erich Auerbach, facendo riferimento a quei casi di allegoria che hanno come significante fatti o personaggi storici, utilizza però – anziché quello di allegoria dei teologi – il concetto di interpretazione figurale. Tale interpretazione, assai diffusa nel medioevo, «fa parte delle forme allegoriche nell’accezione più larga […] Ma essa è nettamente distinta dalla maggior parte delle altre forme allegoriche a noi note, in virtù della pari storicità tanto della cosa significante quanto di quella significata»7. L’interpretazione figurale si diffuse proprio in relazione all’Antico Testamento, i cui eventi – considerati storicamente veri – erano visti come prefigurazione (figura, appunto) di altri eventi che si sarebbero verificati dopo la venuta di Cristo, e che ne avrebbero costituito l’adempimento (figura impleta8). L’interpretazione figurale si applica a un evento storico reale, che viene però visto anche come anticipazione (figura) di un fatto futuro, in quanto Dio stesso vuole che esso prefiguri e anticipi un altro evento, che ne sarà il compimento. Tale interpretazione può essere illustrata con lo stesso esempio con cui Dante esemplifica l’allegoria dei teologi: l’Esodo degli ebrei dell’Egitto che li libera dalla schiavitù è un fatto storico, ma è al tempo stesso umbra futurorum, cioè preannuncio di eventi futuri (la liberazione dell’anima dalla schiavitù del peccato, che sarà resa possibile dal sacrificio di Cristo). Possiamo in definitiva considerare l’interpretazione figurale come un caso specifico che va inquadrato all’interno del più vasto campo dell’allegoria teologica. Auerbach, discutendo delle vicende bibliche alle quali si applica tale interpretazione, la definisce anche come «profezia reale», per sottolineare tanto la concretezza storica del significante (il fatto reale narrato nell’Antico testamento, per esempio la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù in Egitto), sia la presenza di un significato destinato a rivelarsi in un successivo momento storico (nel nostro esempio, la futura liberazione dell’umanità dal peccato grazie a Cristo). In definitiva, ciò che distingue l’interpretazione figurale da altre forme allegoriche è il fatto che essa riguarda «qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica». Dall’ambito di applicazione esclusivamente biblico, l’interpretazione figurale si estese anche a temi profani e pagani. Nell’alto medioevo vennero ammessi in essa «le Sibille, Virgilio e le figure dell’Eneide», viste come anticipazione di eventi che si sarebbero verificati dopo la venuta di Cristo. D’altra parte, va ricordato che il cristianesimo scandiva la storia dell’umanità essenzialmente in tre momenti: l’intera antichità andava vista come prefigurazione del mondo salvato da Cristo; ma il mondo terreno, a sua volta, era la prefigurazione del mondo dell’eternità, in cui tutto si sarebbe definitivamente compiuto e avverato. Era dunque logico che l’interpretazione figurale, anche fuori dall’ambito degli studi biblici, venisse più in generale applicata a tutti gli eventi del mondo terreno, che potevano essere visti come anticipazione dei destini eterni dell’umanità, quali si sarebbero compiuti nel mondo ultraterreno. È a partire da questi presupposti, adesso, che possiamo tornare a osservare il personaggio di Catone come Dante lo rappresenta nel Purgatorio. L’interpretazione figurale del personaggio di Catone Come osserva ancora Auerbach, il Catone storico, il personaggio che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, era una figura del Catone del Purgatorio, così come ogni uomo, nella sua esistenza terrena, è una figura di quello che diverrà nell’eternità. Il Catone del Purgatorio, pertanto è una figura impleta, un adempimento di ciò che il Catone storico prefigurava, perché solo nell’aldilà si compie e si avvera il destino anticipato nella vita terrena. Ciò significa che «la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto umbra futurorum: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire». Tra il Catone terreno e quello dell’eternità – è opportuno sottolinearlo – esiste una forte continuità: «la persona di Catone, quale uomo severo, giusto e pio, che in un momento significativo del suo destino e della storia provvidenziale del mondo ha anteposto la libertà alla vita, è conservata in tutta la sua forza storica e personale; non diventa un’allegoria della libertà, ma resta Catone di Utica […]; ma dalla sua provvisorietà terrena, nella quale egli considerava come il bene supremo la libertà politica […] egli è sollevato nella condizione dell’adempimento definitivo, dove ciò che conta non sono più le opere terrene della virtù civile, ma il “ben dell’intelletto”, il bene supremo, la libertà dell’anima immortale nella visione di Dio». Dante poeta del mondo terreno Il fatto che, nella visione di Dante, la vera e compiuta realtà non stia sulla terra, e che dunque eventi e uomini del mondo terreno siano solo umbra futurorum in rapporto a un oltretomba che costituisce la vera e definitiva realtà, non conduce affatto, nella Commedia, a una svalutazione della vita terrena. Quest’ultima ha anzi un’importanza decisiva proprio in quanto, essendone la figura, porta in sé potenzialmente i segni del destino eterno: «l’umbra è la prefigurazione della realtà ultraterrena e deve ritrovarsi completamente in essa»; «la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta»9. Lo stesso Auerbach, in un saggio del 1929, definisce Dante «poeta del mondo terreno»: la continuità tra vita umana ed eternità è infatti, nella concezione medievale, così profonda che da essa non discende alcuna svalutazione della realtà concreta e storica. Al contrario: un’arte come quella di Dante, che intenda rappresentare il destino umano quando esso è ormai compiuto nell’eternità, ottiene addirittura un potenziamento della rappresentazione concreta: «appoggiandosi alle più alte autorità della ragione e della fede, il suo genio poetico ardì un’impresa che nessuno prima di lui aveva osato: rappresentare tutto il mondo terreno-storico, di cui era giunto a conoscenza, già sottoposto al giudizio finale di Dio […] e non in modo tale che nelle singole figure, nella loro sorte escatologica finale, il carattere terreno fosse soppresso o anche soltanto indebolito, ma in modo da mantenere il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico, e da identificarlo con la sorte eterna». Una volta compresa la natura di questa particolarissima allegoria che è l’interpretazione figurale – un’allegoria che non implica affatto, a differenza di quella della lupa, una svalutazione della concretezza reale dei personaggi – diventa possibile sciogliere tutti i paradossi apparenti implicati dal testo. Il suicidio di Catone appare infatti come prefigurazione del martirio dei cristiani, o forse perfino della stessa morte di Cristo, e non può quindi configurarsi alla stregua di un peccato. La ricerca della libertà politica appare come prefigurazione della ricerca cristiana della libertà morale, e di conseguenza non ha più senso interrogarsi sulla posizione anticesariana di Catone: per i significati che assume quando, nel Purgatorio, ci appare come figura impleta, Catone va ampiamente oltre i limiti della sfera politica in cui operava quando, nel mondo terreno, agiva ancora come figura, come umbra futurorum. Una realtà “più reale” Questa particolare, concretissima rappresentazione del mondo umano sub specie aeternitatis costituisce uno degli aspetti rivoluzionari della poesia di Dante. Essa si distacca da tutte le altre visioni dell’oltretomba, sia precristiane che cristiane: «le altre visioni escatologiche che ci sono state tramandate, sia del tempo antico che di quello cristiano, sono concepite in tutt’altro modo; esse immergono i morti tutti insieme nell’esistenza incompleta delle ombre, che livella e annienta la personalità individuale, o almeno la priva di ogni forza, oppure con rozzo moralismo separano i buoni e redenti dai cattivi e dannati, dando il massimo valore al sovvertimento di tutte le condizioni sociali umane. In esse era affatto escluso che in ogni grado della gerarchia dell’aldilà, anche in quello più basso, dovesse essere mantenuta l’essenza dell’unità personale». Si può mettere a confronto, in questo senso, l’oltretomba di Virgilio con l’Inferno di Dante. «Le figure virgiliane hanno negli Inferi un’esistenza non confermata e definitiva, ma piuttosto indebolita e transitoria». Viceversa nell’Inferno di Dante, «nonostante l’uniformità dell’atteggiamento penitente, la diversità individuale sussiste nel vario modo di subire la pena e di riferirla ai dati particolari della propria vita, e questa propria vita non è sommersa e dimenticata, ma è totalmente presente e contenuta nella penitenza». Dante ci presenta le anime dell’oltretomba in modo «che il loro posto e il loro atteggiamento nell’aldilà siano assolutamente individuali nel senso delle loro precedenti azioni terrene; che esse rappresentino quasi solo la continuazione, l’intensificazione e la fissazione definitiva, una conservazione completa del loro essere e della loro sorte più particolari e personali». In altre parole, «l’aver conservato e definitivamente fissato l’unità della figura umana nell’aldilà è quello che distingue fondamentalmente la Commedia da tutte le precedenti visioni dell’oltretomba»10. Poesia e verità nella Commedia Quando Dante ci narra il suo viaggio nell’aldilà, ci mette dunque di fronte a una realtà “più reale” di quella terrena, e che – costituendone il compimento definitivo – svela fino in fondo il senso di essa. Questa concretezza di rappresentazione, su cui Auerbach ha concentrato l’attenzione, ci impone però un’ulteriore riflessione: in che rapporto può stare un poema, cioè un’opera che in ultima analisi è sempre frutto dell’umana fantasia, con una così profonda e definitiva verità inerente ai destino dell’uomo e della sua anima? La domanda è resa opportuna anche dall’Epistola a Cangrande [G36] in cui Dante ci fornisce alcune indicazioni per la lettura della Commedia. Egli ci invita a leggere il poema secondo l’allegoria dei teologi (non a caso lo illustra facendo riferimento all’episodio biblico dell’Esodo). Ciò sembra implicare il fatto che il significato della Commedia vada considerato vero non solo in senso allegorico (il che non comporta per noi alcuna difficoltà), ma perfino in senso letterale. Se dovessimo seguire in toto questa indicazione, dovremmo concludere – come osserva Nicolò Mineo – «che Dante abbia creduto davvero di aver fatto il viaggio in oltretomba in corpo ed anima, oppure che abbia voluto far sì che il lettore credesse alla realtà di esso viaggio. Nel secondo caso avrebbe sfiorato l’empietà. Il primo caso non riusciamo a vedere come potesse verificarsi»11. Ma, a guardar bene, l’Epistola a Cangrande non ci chiede affatto di considerare letteralmente vera ogni parte del poema. Nella Commedia, infatti, è possibile distinguere due momenti: quello “oggettivo” (la rappresentazione dell’oltretomba, dei dannati e dei beati, dei castighi e dei premi, ecc.) e quello “soggettivo” (il viaggio che Danta narra di aver compiuto). L’Epistola a Cangrande ci chiede sì di leggere il poema secondo l’allegoria dei teologi, ma lo fa soltanto con riferimento alla componente oggettiva dell’opera, ossia alla rappresentazione dello «stato delle anime dopo la morte». Tale momento oggettivo, costituito «dai dati che sono oggetto di apprendimento» (in altre parole, da tutto ciò che Dante ci dice di aver visto) va tenuto nettamente distinto da quello soggettivo, «costituito dall’esperienza d’eccezione di Dante» (ossia dal suo viaggio, che egli dice di aver compiuto in carne ed ossa). Quest’ultima esperienza può essere letta solo come allegoria dei poeti: Dante non ha certo fatto il viaggio da vivo, ma attraverso la finzione di un viaggio può senz’altro rappresentare un percorso di conoscenza e purificazione che è possibile – e necessario – per ogni uomo. Del resto, sempre nell’Epistola, Dante stesso usa l’aggettivo «fictivus» per qualificare il suo poema, dimostrando così che esso non può essere considerato letteralmente vero in ogni sua parte. E però, analogamente a quanto avviene per i testi sacri, tutto ciò che riguarda l’oggetto dell’apprendimento (per l’appunto, lo «stato delle anime» dopo la morte) può essere considerato vero (beninteso, dal punto di vista di Dante) anche in senso letterale. Se così non fosse, Dante non potrebbe illustrare l’allegoria della Commedia come se fosse identica a quella della Bibbia. Ciò presuppone, evidentemente, che Dante avesse la certezza di aver vissuto, in qualche modo, un’esperienza eccezionale; di aver ricevuto da una divina ispirazione quella conoscenza dello «stato delle anime dopo la morte» che costituisce l’oggetto del suo poema. «Se è “finzione” – osserva ancora Mineo – la condizione di visione corporale del mondo di là, non può essere “finzione” (per la gravità che non potevano non assumere indicazioni siffatte nel medioevo) l’indicazione in sé di una eccezionalità di condizione. Si deve dunque dedurre che l’itinerario interiore si è svolto in condizioni di divina illuminazione, quando non anche di visione divinamente spirata. Dalla verità dell’illuminazione divina discende la verità dell’apprendimento di Dante, cioè dei fatti, delle nozioni e delle profezie che egli dovrà comunicare, insomma la verità del messaggio profetico». Occorre ricordare che, per tutta la cultura medievale, il rapporto tra poesia e profezia era talmente stretto che anche i poeti pagani potevano apprendere i loro contenuti per divina ispirazione (come dimostra chiaramente il caso della IV Ecloga di Virgilio [DIV2b]). In tale prospettiva, non deve affatto sorprenderci che Dante potesse ritenere di avere ricevuto proprio da Dio – non sappiamo se in forma di sogno o di visione; ma dobbiamo ricordare che esperienze del genere erano piuttosto comuni in un’epoca così profondamente intrisa di religiosità e misticismo – l’ispirazione profetica che gli ha consentito di comporre la sua opera. Che poi tale profezia si sia manifestata in una forma estremamente concreta, e che l’allegorismo della Commedia non sia puro esercizio intellettualistico, ma si esprima attraverso un significante straordinariamente realistico – è questa una ragione, e non la meno importante, del fascino straordinario che questo poema continua ad esercitare a sette secoli dalla sua stesura.
1 Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 1982, p. 18. 2 Quest’appellativo distingue il Catone di cui parla Dante da Catone il Censore, vissuto tra III e II secolo a.C. e noto per la sua battaglia contro Cartagine. 3 «Ceteris forsan vitio datum esset si se interemissent, propterea quod levior eorum vita et mores fuerunt faciliores; Catoni vero cum incredibilem natura tribuisset gravitatem, eamque perpetua constantia roborasset, semperque in proposito susceptoque consilio permansisset, moriendum ei potius quam tyranni vultus adspiciendum fuit» [«Forse, se ad uccidersi fossero state altre persone, ciò sarebbe stato considerato per loro una colpa, perché la loro vita fu più leggera e i loro costumi furono meno rigidi; quanto a Catone, invece – poiché la natura lo aveva dotato di una incredibile dignità, poiché egli l’aveva rafforzata con continua costanza, e poiché egli rimaneva sempre fermo nei suoi propositi e nelle decisioni prese – sembra giusto che egli abbia scelto di morire, piuttosto che vedere il volto del tiranno»] (De officiis, I, 31). 4 «[…] divino instinctu fiat ad exemplum fortitudinis ostendendum, ut mors contemnatur» (De civitate Dei, I, 17). 5 «illud inenerrarile sacrificium severissimi vere libertatis auctoris Marci Catoni» [«l’indicibile sacrificio di Marco Catone, rigidissimo difensore della vera libertà»] (Monarchia, II, v, 15). 6 Va ricordato che, nell’allegoria dei teologi, al senso letterale se ne aggiungono altri tre: allegorico, morale e anagogico. 7 Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, 8^ edizione 1980, p. 206. Il volume raccoglie una serie di saggi scritti tra il 1929 e il 1954. 8 Possiamo tradurre questo termine come prefigurazione portata a compimento. 9 Ivi, pp. 212-219. 10 Ivi, pp. 78-81. 11 Nicolò Mineo, Dante, in Letteratura italiana Laterza, diretta da Carlo Muscetta, pp. 184-186.
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