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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici
Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo |
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O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo; pensome che iocondo non te ’n porrai partire1! Lo mondo non n’à usato lassar li sui serventi, ched a la scivirita se ’n partano gaudenti2. Non farà lege nova de farnete essente, che non te dìa presente, che dona al suo servire3. Bene lo mme pensai che fussi satollato d’esto malvascio ioco, ch’al mondo ài conversato4; ma poi che tu salisti enn ofizio papato, non s’aconfà a lo stato essere en tal disire5! Vizio enveterato convertes’en natura; de congregar le cose granne n’à’ auta cura6; or non ce basta el licito a la tua fame dura, messo t’èi a ’rrobatura, como asscaran rapire7. Pare che la vergogna dereto agi iettata, l’alma e lo corpo ài posto a llevar to casata8; omo ch’en rena mobele fa grann’edificata, subito è ’n ruinata, e no li pò fallire9. Como la salamandra sempre vive nel foco, cusì par che llo scandalo te sia solazzo e ioco10; dell’aneme redente par che ne curi poco! Là ’ve t’accunci ’l loco, saperàilo al partire11. Se alcuno ovescovello pò covelle pagare, mìttili lo fragello che lo vòl’ degradare12; poi ’l mandi al cammorlengo, che se deia acordare; e tanto porrà dare che ’l lassarai redire13. Quando nella contrata t’aiace alcun castello, ’n estante mitti screzio enfra frat’e fratello14; all’un getti el braccio en collo, all’altro mustri el coltello; se no n’assente al tuo appello, menaccili de firire15. Pènsite per astuzia lo mondo dominare; ciò ch’ordene l’un anno, l’altro el vidi guastare16. El mondo non n’è cavallo che sse lass’enfrenare, che ’l pòzzi cavalcare secondo tuo volere!17 Quando la prima messa da te fo celebrata, venne una tenebria per tutta la contrata18; en santo non remase luminera apicciata, tal tempesta levata là ’ve tu stavi a ddire19. Quando fo celebrata la ’ncoronazione, non fo celato al mondo quello che c’escuntròne20: quaranta omen’ fòr morti all’oscir de la masone! Miracol Deo mustròne, quanto li eri ’n placere21. Reputavi te essare lo plu sufficïente de sedere en papato sopre onn’omo vivente22; clamavi santo Petro che fusse respondente s’isso sapìa neiente respetto al tuo sapere23. Punisti la tua sedia da parte d’aquilone, <es>cuntra Deo altissimo fo la tua entenzione24. Per sùbita ruina èi preso en tua masone e null’o<m> se trovòne a poterte guarire25. Lucifero novello a ssedere en papato, lengua de blasfemìa, ch’el mondo ài ’nvenenato 26, che non se trova spezia, bruttura de peccato, là ’ve tu si enfamato vergogna è a profirire27. Punisti la tua lengua contra le relïuni, a ddicer blasfemia senza nulla rasone28; e Deo sì t’à somerso en tanta confusione che onn’om ne fa canzone tuo nome a maledire29. O lengua macellara a ddicer villania, remproperar vergogne cun granne blasfemìa30! Né emperator né rege, chivelle altro che sia, da te non se partia senza crudel firire31. O pessima avarizia, sete endopplicata, bever tanta pecunia, no n’essere saziata32! Non ’l te pensavi, misero, a ccui l’ài congregata, ché tal la t’à arrobata, che no n’eri en pensieri33. La settemana santa, ch’onn’omo stava ’n planto, mandasti tua famiglia per Roma andare al salto34; lance giero rompenno, faccenno danz’e canto; penso ch’en molto afranto Deo <’n> te deia ponire35. Intro per Santo Petro e per Santa Santoro mandasti tua famiglia faccenno danza e coro36; li pelegrini tutti scandalizzati fòro, maledicenno tu’ oro e te e to cavalieri37. Pensavi per augurio la vita perlongare! Anno dìne né ora omo non sperare!38 Vedem per lo peccato la vita stermenare, la morte appropinquare quand’om pensa gaudere39. Non trovo chi recordi papa nullo passato, ch’en tanta vanagloria se sia sì delettato40. Par ch’el temor de Deo dereto agi gettato: segno è d’om desperato o de falso sentire41.
1 O papa… partire: O papa Bonifacio, ti sei divertito (ài iocato) molto quando eri sulla terra (il termine mondo va inteso generalmente nell’accezione peccaminosa che assume nei capitoli dei preliminari della Pasqua e dell’ultima cena del Vangelo di San Giovanni, molto caro a Jacopone; vedi per tutti XVII, 14: «Ego dedi eis sermonem tuum, et mundus odio eos habuit, quia non sunt de mundo, sicut ego non sum de mundo» [«Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo»]); credo che non potrai morire (partire) in modo altrettanto divertente. 2 Lo mondo… gaudenti: Il mondo non ha l’abitudine (non n’à usato) di lasciare che i suoi servitori, al momento della partenza (a la scivirita o “sceverata”, da “sceverare”, separare, distinguere, derivato a sua volta dal latino parlato *exeperare, composto da ex- e separare), lo abbandonino allegri. È la prima delle espressioni tra gnomiche (cioè sentenziose, moraleggianti) e proverbiali di cui è intessuta la lauda. 3 Non farà… servire: <Il mondo> non farà la nuova legge di fartene esente <da una triste dipartita>, in modo da non darti (che non te dia) il dono (presente) che elargisce a chi lo serve (il termine «presente» indica ironicamente la “ricompensa” destinata a chi ha dedicato la sua vita al «mondo»). 4 Bene... conversato: Ero ben convinto che fossi sazio (satollato) di questo gioco malvagio (i piaceri terreni) nel quale hai trascorso il tempo (conversato) quando eri ancora nel mondo (cioè quando non eri ancora divenuto papa). 5 ma poi... disire: ma dopo che sei salito al soglio pontificio (ofizio papato, letteralmente “ufficio del pontificato”; nell’espressione, come ancora in «miracol Deo» al v. 42, si nota l’uso del caso obliquo derivato dall’antico accusativo latino; questa forma, prima della sostituzione della declinazione latina con la sintassi romanza, svolse anche la funzione di genitivo) non si addice (s’aconfà, da con + fare riflessivo, essere adeguato) al tuo stato provare ancora tali desideri mondani. 6 Vizio... cura: Un vizio incallito (enveterato, dal latino in-, rafforzativo, + veterare “invecchiare”, derivato dall’aggettivo vetus, “vecchio”) si converte in attitudine naturale; hai avuto gran cura di ammassare beni terreni. È una seconda espressione proverbiale (cfr. nota 2). 7 or non... rapire: ora alla tua avidità senza limiti (fame dura) non basta più ciò che puoi avere osservando le leggi (el licito), ti sei (t’ei) messo a rubare (a ’rrobbatura), a rapinare (rapire) come un brigante (asscaran, dal provenzale escaran). 8 Pare... casata: Sembra tu ti sia gettato la vergogna dietro le spalle (dereto) e abbia disposto l’anima e il corpo ad elevare lo stato della tua famiglia (llevar to casata). 9 omo... fallire: quando si costruisce un grande edificio sulla sabbia instabile (en rena mobile), la costruzione va subito e infallibilmente in rovina (è’ n ruinata); lett.: un uomo che costruisce un grande edificio sulla sabbia instabile, subito <l’edificio> va in rovina e <un tale destino> non gli può venir meno. Il periodo, come si vede, contiene un forte anacoluto, che avvicina alla forma popolare del proverbio – cfr. ancora note 2 e 6 – una citazione dal Vangelo di Matteo, VII, 26-27: «Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam. Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit, et fuit ruina eius magna» [«Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la rovina fu grande»]. 10 Como... ioco: Come la salamandra vive sempre nel fuoco, così sembra che lo scandalo sia per te un divertimento e un gioco. La similitudine attinge alla cultura dei bestiari medievali, ma (riassumiamo e in parte citiamo, da qui alla fine, la nota a p. 104 de Il Fisiologo, a cura di Francesco Zambon, Milano, Adelphi, 19934) i miti sulla salamandra hanno origini molto più lontane. Erano già citati da Aristotele e «appartenevano al simbolismo dei quattro elementi», come mostra il testo del Corpus Hermeticum: «Fra gli esseri viventi, o figlio, gli uni hanno affinità con il fuoco, altri con l’acqua, altri con l’aria, altri con la terra. [...] e vi sono persino alcuni animali che prediligono il fuoco, come le salamandre, che giungono al punto di nidificare nel fuoco». Anche la magia include le salamandre tra gli “spiriti degli elementi”, che «sono di quattro categorie: salamandre o spiriti del fuoco, silfi o spiriti dell’aria, ondine o spiriti dell’acqua, gnomi o spiriti della terra» (R. Guénon, L’erreur spirite, Paris, 1952, p. 98). Il riferimento alla salamandra non esaurisce il suo significato all’interno della similitudine: nell’ultimo verso della quartina (vedi nota successiva) Jacopone allude alle fiamme dell’inferno come dimora ultima di Bonifacio. 11 dell’aneme... partire: delle anime dei cristiani (redente, salvate da Gesù) sembra che te ne curi poco! In quale luogo (Là ’ve, là dove; Jacopone allude, in maniera minacciosamente trasparente, all’inferno) ti prepari la dimora (t’acccunci ’l loco) lo saprai al momento della partenza (cioè della morte). Nelle due frasi “spezzate” si anticipano rispettivamente il complemento di argomento («dell’aneme redente») e la proposizione interrogativa indiretta («Là ’ve t’acccunci ’l loco»), secondo la sintassi del discorso parlato. Anche in tal modo, nel suo furore polemico, Jacopone enfatizza il significato dei termini anticipati e insieme accorcia violentemente le distanze tra sé, fraticello spirituale, e il papa. 12 Se alcuno... degradare: Se qualche disgraziato vescovo (ovescovello) può pagare qualcosa (covelle, dal latino quod velles) gli dai il tormento (mìttili lo fragello) <dicendo> che lo vuoi (vòl’ per voli, con apocope) abbassare di grado. Data la vicenda cui si fa riferimento (vedi nota successiva), l’alterazione in -ello del sostantivo «ovescovo» appare fortemente sarcastica. 13 poi... redire: poi lo (’l per el, con aferesi) mandi dal camerlengo (il tesoriere degli antichi comuni) in modo che ci si accordi; e pagherà (porrà dare) tanto che tu lo lascerai tornare (redire), cioè gli restituirai la sua carica ecclesiastica. Si fa riferimento alla vicenda dell’arcivescovo di Siviglia, che Bonifacio destituì nel novembre 1295, reintegrandolo nelle sue funzioni dopo pochi giorni; Jacopone muove in sostanza al papa un’accusa di estorsione: il pontefice si è fatto pagare per mantenere il vescovo nel suo grado. 14 Quando... fratello: Quando nella contrada ti piace (t’aiace; con lo stesso significato il verbo “adiacere” si trova anche in Buccio di Ranallo) un castello, subito (’n estante) semini discordia (mitti screzio) tra i fratelli <che lo possiedono>. 15 all’un... firire: ti accordi con uno di essi (all’un getti el braccio en collo), minacci l’altro (all’altro mustri el coltello); se <quest’ultimo> non acconsente alla tua richiesta (appello) minacci di colpirlo (firire). 16 Pènsite... guastare: Credi di poter dominare il mondo con l’astuzia; <invece> ciò che ordisci (ordene) un anno, il successivo lo vedi andare in rovina. 17 El mondo... volere: Il mondo non è un cavallo che si lasci mettere il freno (enfrenare), che tu possa (’l pozzi; «’l», per «el», è pleonastico) cavalcare secondo il tuo desiderio. Compare per la quarta volta un’espressione proverbiale (cfr. note 2, 6 e 9). 18 Quando... contrata: Quando fu (fo) celebrata da te la prima messa, scese l’oscurità (tenebria) su tutta la contrada. Il riferimento è all’episodio, di cui si ha notizia, di un violento temporale, avvenuto a Orvieto nell’estate del 1291, e che viene interpretato come segno di riprovazione divina. 19 en santo... a ddire: in chiesa (en santo) non rimase lume acceso (luminera appicciata), tale <fu> la tempesta che si levò là dove tu stavi celebrando il rito (stavi a ddire). 20 Quando ... c’escuntròne: Quando fu (fo) celebrata la tua incoronazione <sul trono papale>, non fu nascosto al mondo ciò che successe (c’escuntrone, con epitesi di -ne, come «ène», «stane», «perchéne», «mandòne» ecc.; il fenomeno, molto frequente in Jacopone, in questo caso ha una giustificazione rimica: «’ncoronazïone» : «c’escuntrone» : «masone»). La litote «non fo celato» serve a rimarcare per contrasto la relazione con la strofa precedente: all’oscurità della «tenebria per tutta la contrata» che con la tempesta, nel solco della tradizione biblica, è già segno di una terribile teofania, corrisponde l’evidenza patente della catastrofe miracolosa. 21 quaranta… placere: quaranta uomini morirono uscendo di casa (masone è un francesismo)! Tale miracolo di Dio (per l’espressione v. nota 5) ci dimostrò (mustròne) quanto gli eri gradito (’n placere). Le cronache medievali riportano l’incidente: circa cinquanta persone caddero dalla scala del Laterano, spinte dalla folla che si accalcava per assistere all’incoronazione papale. Jacopone trasfigura tendenziosamente in miracolo l’accaduto. 22 Reputavi... vivente: Credevi di essere (te essare è un accusativo con l’infinito in cui il verbo mostra un metaplasmo di coniugazione per analogia con i verbi in -are) il più adatto (sufficïente) di tutti gli uomini viventi ad occupare il soglio pontificio. 23 clamavi... sapere: chiedevi a san Pietro di rispondere se egli (isso) non sapesse (sapìa) niente rispetto alla tua sapienza. 24 Punisti... entenzione: Ponesti il tuo trono (sedia è una metonimia che indica il potere pontificio) dalla parte dell’Aquilone (il vento del Nord), la tua intenzione fu contro (<es>cuntra) Dio altissimo. L’allusione è alla “canzone contro il re di Babilonia”, in Isaia, XIV. Il brano, assai noto nel Medioevo, offre interessanti riscontri tematici e stilistici con la lauda. Qui in particolare sono implicati i versetti 13-15: «Eppure tu pensavi: “Salirò in cielo / sulle stelle di Dio / innalzerò il trono, / dimorerò sul monte dell’assemblea, / nelle parti più remote del settentrione. / Salirò sulle regioni superiori alle nubi, / mi farò uguale all’Altissimo”. / E invece sei stato precipitato negli inferi, / nelle profondità dell’abisso!». A Bonifacio sono rivolte le parole sarcastiche che il profeta indirizza contro il despota morto: come Venere, la stella del mattino, che, bassa sull’orizzonte, voleva salire allo zenit, anch’egli è invece sprofondato nell’abisso. Sulla scorta dell’interpretazione patristica del passo, per Jacopone – come poi per Dante – immediata è l’identificazione della stella Venere (Lucifer) con il demonio (v. 51). 25 Per subita… guarire: Con una disfatta improvvisa (sùbita ruina) fosti catturato (èi preso) nella tua stessa casa e non si trovò nessuno (null’om) che potesse salvarti (guarire). Ci si riferisce qui al celebre episodio dell’oltraggio di Anagni. 26 Lucifero... ’nvenenato: Nuovo Lucifero nel tuo occupare la sede papale, lingua bestemmiatrice (de blasfemia), che ha (ài; la costruzione a senso fa concordare il verbo con la seconda persona del vocativo) avvelenato il mondo. 27 che... profirire: perché non si trova specie, nefandezza (bruttura) di peccato <da paragonare ai tuoi>: ci si vergogna a nominare (profirire) quelli di cui (là ’ve,“là dove”, ossia i peccati dei quali; l’avverbio di luogo fa le veci del pronome relativo retto da preposizione, come altrove nell’italiano antico: v. Purg. X, 104: «novitadi onde son vaghi» per «di cui son vaghi») tu sei accusato. Un’altra parafrasi possibile sarebbe: lingua bestemmiatrice, che ha avvelenato il mondo (così) che non se ne trova la specie (spezia; vale a dire: non se ne trova un’altra simile), ci si vergogna a nominare la nefandezza dei peccati di cui tu sei accusato. Questa seconda interpretazione però spezza il procedere del discorso poetico per coppie di versi, rigorosamente osservato in tutta la composizione. 28 Punisti... rasone: Ponesti la tua lingua (riprende in anafora il v. 47; l’espressione vale per metonimia: usasti le tue parole) contro gli ordini religiosi (le relïuni), per oltraggiarli (a ddicer blasfemia) senza alcuna ragione. Jacopone si riferisce in particolare all’ordine dei francescani spirituali, a cui Bonifacio VIII fu sempre fieramente avverso. Il termine «blasfemia» è qui da intendersi nel senso di oltraggio (come il «villania» del v. 59) piuttosto che come bestemmia (come avviene invece al v. 52); sempre con significato di oltraggio, insolenza il termine è usato anche al v. 60. 29 e Deo... maledire: e Dio ti ha sommerso in tanta confusione (il termine va inteso in senso biblico, come sconvolgimento di condizione mondana e turbamento esistenziale) che ognuno si diletta (ne fa canzone) a maledire il tuo nome. 30 O lengua... blasfemia: O lingua sanguinaria (macellara) nel recare oltraggio (ddicer villania), nel rinfacciare colpe umilianti (vergogne) con grande insolenza! 31 Né... firire: Né imperatore né re, né altri, chiunque (chivelle, dal latino quis velles) fosse, si congedava (se partia) da te senza essere stato crudelmente colpito (in senso morale). L’imperatore può essere Alberto d’Asburgo, il re Filippo il Bello; ma gli episodi storici vengono trascesi in un quadro di generale empietà. 32 O pessima... saziata: O avidità (avarizia) perversa, sete (tanto) insaziabile (endopplicata, cioè, letteralmente “raddoppiata”), da bere enormi quantità di denaro (pecunia, latinismo) e non essere mai estinta. Come in Senno me pare e cortisia, Jacopone giustappone per paratassi le due affermazioni che sono collegate logicamente tra loro da un nesso di causa-effetto. 33 Non... pensieri: Non te lo pensavi (non ’l te pensavi; i due pronomi «’l», accusativo, e «te», dativo etico usato pleonasticamente, si susseguono secondo l’uso dominante dell’umbro e del toscano antico) misero, per chi (a ccui: dativo di vantaggio) l’hai ammassata (la «pecunia»), perché te l’ha (la t’ha) rubata qualcuno (tal) che non avresti mai immaginato (che no n’eri en pensieri). L’espressione non allude genericamente alla morte, ma a un personaggio vicino ai Colonna o a Filippo il Bello; l’uso è conforme a quello della lauda Homo, tu sè engannato, chè questo mondo t’à cecato, collegata all’idea di un contrappasso mondano: «O tapino, a ccui aduni? ad arriccar li toi garzuni?»; e, ancora, a quello di Figli, nepoti & frati, rendete el maltollecto, contrasto tra un morto che chiede opere buone per salvare l’anima e i suoi parenti: «posto m’avete nel canto mancino de tanta guadagna quant’io congregai. / Se tu congregasti tanta guadagna, de darte covelle a noi non ne caglia»). 34 La... salto: La settimana santa, in cui ognuno (ch’onn’omo) era addolorato (ricordando la passione di Cristo) mandasti per Roma il tuo seguito (tua famiglia) a partecipare ad un ballo (salto; metonimia per “festeggiamenti”). 35 lance... ponire: andarono spezzando lance (nei festeggiamenti era compreso un torneo), danzando e cantando; penso che Dio te ne debba (te ’n deia) punire <gettandoti> in grande sofferenza (afranto, dal latino adfrangere, “rompere”, “fiaccare”; in relazione al «rompenno» delle lance l’«afranto» appare dunque una sorta di contrappasso). 36 Intro... coro: Mandasti il tuo seguito a danzare e a cantare in coro dentro San Pietro e il Sancta Sanctorum (la parte più riposta del tempio ebraico, riservata solo al sommo sacerdote; per i cristiani il tabernacolo; qui vale per metonimia l’interno della basilica). 37 li... cavalieri: tutti i pellegrini furono scandalizzati e maledissero te, le tue ricchezze e i tuoi cavalieri. L’episodio deve riferirsi alla settimana di Pasqua del 1300, quando per l’anno santo proclamato da Bonifacio VIII Roma divenne meta di pellegrinaggio religioso. 38 Pensavi... sperare: Credevi di poter prolungare la vita attraverso la magia (per augurio: tra le accuse dei detrattori di Bonifacio c’era anche quella di dedicarsi alle pratiche magiche)! Uomo, non sperare <di aggiungere alla vita> né un anno, né un giorno (dìne, con l’epitesi di cui alla nota 20, qui dovuta a ragioni metriche) né un’ora. 39 Vedem... gaudere: Vediamo che, a causa del peccato, la vita si abbrevia (la vita stermenare, accusativo con l’infinito; il verbo si oppone specularmente a «perlongare» del v. 75) la morte si avvicina, quando l’uomo pensa a godere. 40 Non... delettato: Non trovo chi ricordi alcun papa precedente che si sia tanto compiaciuto di una così grande vanagloria. 41 Par... sentire: Sembra che tu abbia gettato dietro le spalle (dereto) il timor di Dio: è segno di mancanza di speranza <nella salvezza> o di false convinzioni (cioè di pensieri ereticali).
Livello metrico La lauda è costruita metricamente come una ballata, ma ha la struttura dell’epistola in versi. Il distico della ripresa e le 20 quartine sono composti di settenari doppi (come le altre due epistole a Bonifacio VIII), secondo lo schema xy; aaay. Nella ripresa il secondo settenario del primo verso rima con il primo del secondo verso («mondo» : «iocondo»). Nelle strofe la rima a torna nel primo settenario del quarto verso («essente» : «presente»; «papato» : «stato», ecc.). Le rime ai vv. 4-5, 55-56 e tra i vv. 34, 42, 46, 78 e la ripresa sono rime siciliane; si trovano consonanze o quasi-rime ai vv. 67-68 e tra i vv. 66, 74 (in rima tra loro) e la ripresa. Livello lessicale, sintattico, stilistico Rispetto ai testi già letti è possibile riscontrare alcune novità. Caratterizzano questa lauda la presenza di periodi brevi e immediatamente comunicativi nonché il procedere del discorso poetico per distici. Le quartine sono quasi sempre divise in due parti, distinte da segni di punteggiatura: alla prima corrisponde l’esplicazione, l’asseverazione o la smentita della seconda. Le strofe sono collegate a gruppi per affinità tematica o, come di consueto, tramite le figure della ripetizione e dell’annominazione: si possono notare quindi le riprese di parole chiave, come «mondo» o «lengua»; serie sinonimiche all’inizio del verso («Pensite» - «Reputavi» - «Pensavi») che possono anche comprendere richiami all’interno della strofa («pensavi», «penso»); ritorni anaforici («Quando», «Punisti»), che possono estendersi a comprendere un emistichio («mandasti tua famiglia») o l’intero doppio settenario, con variazioni («Quando la prima messa da te fo celebrata» - «Quando fo celebrata la ’ncoronazione »). Il recupero, anche a grande distanza, di radici («scandalo» - «scandalizzati», «congregar» - «congregata») o voci equipollenti («to casata» - «tua famiglia») ha funzione di richiamo tematico tra le quartine. I parallelismi possono estendersi anche alle figure della sintassi, come la coppia di esclamative «O pessima avarizia...» - «O lengua macellara...». Caratteristico della lauda è il fatto che essa ospita al suo interno due generi distinti: l’epistola (da cui il vocativo iniziale «O papa Bonifazio», l’uso della seconda persona e la citazione di fatti condivisi dall’interlocutore) e la satira, connaturata alla natura dissacrante dell’ispirazione profetica di questa e di altre composizioni di Jacopone contro gli uomini «d’altura», vale a dire i potenti. Sul piano retorico, quindi, sono frequenti le figure del sarcasmo, come l’antifrasi («Miracol Deo mustròne quanto li eri ’n placere»); l’eufemismo («pensome che iocondo non te ne porrai partire»), la litote («Non farà legge nova... che non te dia presente»; «non fo celato al mondo»), ecc. Il sarcasmo coinvolge anche le già citate figure dell’annominazione, come nella figura etimologica «iocato» - «iocondo» della ripresa. Anche la similitudine viene accesa dal furore polemico nell’immagine della «salamandra» che «sempre vive nel foco» per denunciare il piacere dello scandalo in Bonifacio. Allo stesso modo risultano violente le metafore alimentari che esprimono la corruzione e l’avidità del papa: «satollato», «fame dura», «sete endopplicata», «bever tanta pecunia», «no n’essere saziata». Il sarcasmo può divenire anche fonico, attraverso l’allitterazione spinta fino alla paronomasia: «se alcuno OVESCOVELLO pò COVELLE pagare, / mìttiLi LO fragELLO CHE LO VÒL degradare», o «mitti screzio ENFRA FRATE E FRATELLO / ALL’uN gettiL bracciO eN COLLO, ALL’ALtro mustri E L COLTELLO» o ancora in «che fuSSE RESPoNdENTE / S’iSSo SaPìa NEiENTE RESPETTO al TuO SAPERE». Dove il tono diviene più francamente irato compare l’apostrofe, al suo interno l’antonomasia: «Lucifero novello....!»; gli effetti più drammatici si hanno in questo caso attraverso violenti scorci per sineddoche, come in «O lengua macellara...!». Sempre a fini drammatici le due teofanie negative relative alla messa e all’insediamento papale sono poste in climax. In un testo di grande impegno retorico, Jacopone fa uso di proverbi, d’immagini e citazioni bibliche, sonda il repertorio dei bestiari medievali, cita vicende storiche e biografiche che generalizza o trasfigura in episodi miracolosi e profetici. Sul piano lessicale ciò implica l’apporto di voci provenienti da universi culturali assai vari, ma il registro è reso uniforme dall’energia polemica della satira, per cui termini come «asscaran» e «macellara» — a capo ripettivamente di una catena lessicale che pertiene alla rapina (con «rrobbatura», «rapire», «arrobbata») e alla violenza verbale (con «coltello», «firire» «crudel firire») — spiccano semmai per la loro particolare violenza. Al lessico proverbiale appartengono le voci del senso comune come «mondo», «vizio», «natura», «cavallo», «enfrenare», che, per la loro medietà, si mescolano da un lato con quelle tratte dalle citazioni bibliche (come «rena mobele» ed «edificata»), dall’altro si sovrappongono a quelle del lessico della vita civile e laica, a metà tra comunale e cavalleresco, della serie «lege nova», «casata», «cammorlengo», «contrata», «castello», «emperator», «rege», «andare al salto», «famiglia», «danza», «canto», «coro», «lance gieno rompenno», «cavalieri». Sono anche questi i termini che descrivono il «solazzo» e il «ioco», che, da parte loro, rimandano al lessico della poesia d’amore. Col lessico civile si incrocia quello dell’universo ecclesiastico e della fede: «papato», «aneme redente», «ovescovello», «messa», «’ncoronazione», «miracol», «Deo», «santo Petro», «blasfemia», «peccato», «settemana santa», «Santa Santoro», «pelegrini». Spicca in questo contesto il termine «salamandra» come voce di bestiario. Livello tematico Il testo di Jacopone è la terza di tre epistole in versi indirizzate a Bonifacio VIII dai sotterranei del convento todino di San Fortunato, nel quale il frate era stato fatto incarcerare dal papa. Nel 1297 Jacopone aveva firmato il cosiddetto “manifesto di Lunghezza”, ispirato dalla famiglia Colonna, in cui si dichiarava illegittima l’elezione del papa Caetani, fautore di una politica teocratica alla quale, come francescano spirituale, il poeta era profondamente avverso: ciò gli era costato, oltre al carcere, la scomunica. Le due precedenti poesie avevano il tono della supplica: Jacopone accettava di subire la prigione e ogni altro tormento, ma implorava il papa di revocare la condanna religiosa che lo allontanava dalla comunità dei fedeli e dai sacramenti. Questo testo, invece, critica in tono violento la condotta papale ed è, almeno in parte, successivo agli altri, perché tratta in modo sarcastico della caduta di Bonifacio, che quindi deve considerarsi già avvenuta. Nel 1303, dunque, il superbo e mondano pontefice viene a sua volta arrestato e umiliato ad Anagni da uomini di Filippo il Bello, re di Francia, anch’esso suo irriducibile avversario. Jacopone può ben vedere in ciò un rivolgimento di fronti che costituisce la conferma storica della visione moralistica del mondo derivata dalla Bibbia e dai padri, manifestata in altri suoi testi poetici di carattere più generalmente didascalico: chi gode della vita sarà confuso dal trionfo della morte. Ma la disfatta di Bonifacio è poi l’avverarsi della profezia contenuta nella ripresa e nella prima parte di questa stessa composizione: dopo una vita gaudente e corrotta è giunto per il pontefice, dal mondo stesso dove aveva «iocato», un doloroso redde rationem. Proprio l’incongruenza tra l’affermazione profetica di una sanzione futura («pensome che iocondo non te’n porrai partire!») e la constatazione satirica dell’avvenuto contrappasso («Deo sì t’à somerso en tanta confusione») compresenti nel testo, fa supporre che l’epistola — come alcuni studiosi effettivamente sostengono — sia stata composta almeno in due tempi e che un secondo gruppo di versi sia stato aggiunto ad un brano preesistente, o in fase di formazione, in cui Jacopone si scaglia contro un Bonifacio ancora potente. Le strofe aggiunte sarebbero proprio quelle che alludono all’arresto di Anagni, e che contengono voci verbali all’imperfetto e al passato remoto: le 11-12, le 14-16, la 19, che si differenziano rispetto a quelle in cui sono presenti il presente, il passato prossimo, il futuro: le 1-8, la 13, la 20. Più incerta, all’interno dell’ipotesi, è l’attribuzione al primo o al secondo gruppo delle strofe 9-10 e 17-18, che costituiscono gli episodi biografico-mitici della composizione; ma, proprio perché amplificano in senso narrativo l’invettiva poetica di Jacopone con la rievocazione della nefanda carriera ecclesiastica di Bonifacio e possono far corpo in maniera coerente con le strofe seguenti, si può pensare siano state anch’esse aggiunte in seguito. Di fatto, a partire dalla strofa 12, dove si tratta dell’oltraggio di Anagni, puntuali riprese strutturali, retoriche e lessicali mostrano quasi un meccanismo di duplicazione del testo per cui, pur progredendo nella requisitoria, Jacopone torna in molti casi ad imputare a Bonifacio le stesse colpe già denunciate in precedenza, ma alla luce della nuova situazione e proprio ad inveramento della propria profezia. Sembrano emergere, infine, due punti di vista. Nella prima parte del testo la profezia rimanda ad un contrappasso ancora legato in parte alla previsione di una caduta del potente secondo una dinamica immanente al mondo, collegata cioè all’instabilità degli eventi terreni e vista nella prospettiva laica della morte come unico comun denominatore delle differenti sorti individuali. In questa prospettiva Jacopone enuncia una serie di sentenze proverbiali quali «El mondo non n’è cavallo che sse lass’enfrenare», oppure «Lo mondo non n’à usato lassar li sui serventi, / ched a la scivirita se ’n partano gaudenti». Nella seconda parte del testo, invece, tale concezione cede il passo ad una visione profetica per cui la sanzione delle colpe proviene da Dio: «Deo sì t’ha sommerso en tanta confusione», «penso ch’en molto afranto Deo <’n> te deia ponire», «vedem per lo peccato la vita stermenare». A determinare questo aggiornamento può aver anche giocato l’evocazione di un testo biblico: il mashal contro il re di Babilonia, che occupa il capitolo 14 del libro di Isaia, vale a dire la satira contro un tiranno abbattuto, un verso della quale viene citato nella lauda, e che può essere valsa come riferimento dopo la caduta di Bonifacio. Alla base del testo biblico c’è il cambiamento di situazione, che «risulta l’antitesi più frequente nella letteratura profetica»1 e che vale come schema generale generatore di tutte le contemplazioni della morte medievali. Il testo e l’evento vengono a colpire la coscienza di Jacopone in relazione ad un nodo cruciale della sua riflessione poetica e intellettuale: il peccato di superbia collegato all’«altura», vale a dire ad un’elevata posizione sociale, politica, economica, peccato stigmatizzato in particolare in due importanti laude: La superbia dell’altura e Quando t’alegri homo de altura, due classiche contemplazioni della morte, stilemi e figure delle quali ritornano in questo testo. Al di là delle ipotesi, comunque, cerchiamo di definire ciò che attualmente il testo riporta. Al centro della requisitoria di Jacopone è il tema della mondanità, che compare nel ritornello; il testo è un susseguirsi di accuse, via via sempre più gravi, a Benedetto Caetani, che infine verrà accusato di eresia. La seconda strofa riprende sarcasticamente il motivo della ripresa e la profezia di sventura, che sembra ancora lungi dall’avverarsi. Alle strofe 3, 4, 5, dopo una ulteriore condanna del comportamento di Bonifacio, ancor più biasimevole dopo l’elezione al pontificato, lo si accusa di avidità e di latrocinio rapinoso, di nepotismo, di inverecondia, di scandalo verso i fedeli e abbandono della cura delle anime, con la prefigurazione di una condanna oltremondana all’inferno («Là ’ve t’accunci ’l loco saperàilo al partire»). Le strofe 6 e 7 introducono l’amplificazione delle accuse di rapacità attraverso la presentazione di episodi che paiono rappresentare una realtà in atto: l’oppressione del clero, con l’aggravante dell’intimidazione per abuso di potere (strofa 6); quella dei laici, attraverso la semina di discordia e la minaccia violenta. L’ottava strofa condanna l’astuzia come strumento di dominio del mondo non solo malvagio, ma anche inefficace. La presunzione di chi crede di poterlo governare a suo volere, e vede regolarmente sconvolti i suoi piani, viene irrisa dal punto di vista della morale laica, tanto che Jacopone si affida al detto proverbiale, come ha già fatto alle strofe 1, 3 e 4: «El mondo non è cavallo che sse lass’enfrenare». Il dittico costituito dalle strofe 9 e 10 comporta un mutamento di strategia retorica: non tratta di colpe e giudizi, ma di eventi, e trasfigura episodi storici in exempla terrificanti ad edificazione dei lettori: la prima messa, l’incoronazione di Bonifacio, vengono accompagnati da fatti miracolosi che mostrano la riprovazione divina, come l’oscuramento del cielo, la tempesta e la morte di quaranta uomini che assistono all’insediamento papale. La «tenebria» ha una connotazione evangelica precisa e rimanda all’oscuramento del cielo per la morte di Cristo; la «tempesta» è metafora assai comune nella Bibbia per designare la presenza della potenza di Dio. L’incidente del Laterano viene montato in climax con il precedente, in modo da essere interpretato come segno estremo di punizione del popolo romano, che ha permesso il progredire di Bonifacio nella carriera ecclesiastica dal sacerdozio al papato. La dimensione narrativa degli episodi, che segna anche lo scarto dall’uso del presente, del passato prossimo e del futuro a quello del passato remoto e dell’imperfetto, introduce il clima della nuova visione profetica, che si accompagna all’imputazione di nuove e sempre più gravi colpe, ormai all’indomani dell’arresto di Anagni. Compaiono, cioè, il peccato di superbia e di bestemmia, di magia e di eresia. Nell’undicesima strofa la superbia si definisce intanto come peccato intellettuale, attraverso l’immagine iperbolica di Bonifacio che interroga con tracotanza San Pietro sugli articoli di fede; nella strofa seguente, ancora con effetto di climax, il papa viene ad assumere la superbia di Lucifero, volendo addirittura sostituirsi a Dio. Ma a questo punto, più o meno al centro della composizione, compaiono la caduta e il contrappasso: «per sùbita ruina èi preso en tua masone». Il motivo della casa e della «ruina» riprende quello della profezia della strofa 4 (anche formalmente, per cui a «subito è ’n ruinata» corrisponde «Per sùbita ruina»). Le tre strofe che seguono (di cui la 13, per la presenza della parola «mondo», che ritorna nella 1, nella 2 e nella 8 insieme all’uso del presente e del passato prossimo, potrebbe appartenere ad una prima stesura) trattano in blocco il peccato di «blasfemia», cioè di bestemmia verso Dio e i religiosi e di oltraggio contro le massime autorità laiche, attraverso la «lengua». Il peccato della lingua, che «ferisce» come il «coltello» della strofa 7, viene posto in particolare rilievo attraverso una triplice ripetizione del termine accanto a quello di «blasfemia». La particolare violenza con cui Jacopone attacca Bonifacio ha in questo caso una specifica valenza politica: l’ordine religioso cui fa rifermento è quello dei francescani spirituali, l’imperatore e il re oltraggiati potrebbero essere Alberto d’Asburgo e Filippo il Bello. Benedetto Caetani diviene dunque un «Lucifero novello», che però la mano di Dio ha confuso, facendone oggetto di scherno e maledizione universale. La sedicesima strofa riprende il tema dell’avidità della terza, a cui si collega attraverso riprese lessicali e retoriche («congregar» - «congregata», «’rrobbatura» - «arrobbata», le metafore prima della fame e poi della sete a significare la brama smisurata). Nel secondo distico, però, compare di nuovo la correzione della caduta: tutti gli averi di Bonifacio gli sono stati sottratti dai suoi avversari dopo l’arresto. Segue una nuova coppia di strofe narrative (la 17 e la 18), che a sua volta riprende i motivi del nepotismo, della corruzione familiare e dello scandalo verso i fedeli, già presenti alle strofe 4 e 5. A «casata» corrisponde «famiglia», a «scandalo» «scandalizzati» a «sollazzo e ioco» l’immagine delle danze e dei cori blasfemi. Tra le altre riprese, l’iterazione fonica del termine «santo» amplifica il senso della trasgressione: «settemana santa» - «Santo Petro» - «Santa Santoro». In questo caso, rispetto agli episodi della nona e della decima strofa, le immagini, pur scorciate con violenza, restano aderenti alla cronaca delle gozzoviglie della famiglia Caetani e del suo seguito per Roma e a San Pietro durante la settimana santa del 1300, anno giubilare. La strofa 19, che per le sue caratteristiche formali riprende la settima (a partire dall’equivalenza del primo verso: «Pènsite per astuzia lo mondo dominare» - «Pensavi per augurio la vita perlongare!») introduce l’ultima terna degli addebiti al papa con l’accusa di magia, che circolò a Roma tra i detrattori di Bonifacio, e aggiunge una connotazione sinistramente sulfurea al personaggio poetico creato da Jacopone. Il secondo distico prepara il ritorno circolare al tema moralistico del contemptus mundi iniziale con una sentenza gnomica che reca in clausola il verbo «gaudere», ricollegandosi al «gaudenti» della prima strofa. Ma a ben vedere il ritorno al tema della «vanagloria» e della mancanza di timor di Dio della strofa 20 segna il culmine della violenza profetica: Bonifacio è accusato di essere «desperato», cioè di aver perso la fede, o eretico (a ciò corrisponde il «falso sentire»).
1 Luis Alonso Schökel, Manuale di poetica ebraica, Brescia, Queriniana, 1989 (ed. originale, Madrid, 1987), p.113.
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