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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici
Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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Giovanni Boccaccio |
Elegia di Madonna Fiammetta |
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I |
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Fiammetta innamorata |
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Stampa - Indice biblioteca online
1. Quello giorno era solennissimo quasi a tutto il mondo; per che, io con sollecitudine li drappi di molto oro rilucenti vestitami e con maestra mano di me ornata ciascuna parte, simile alle dèe vedute da Parìs nella valle d’Ida tenendomi, per andare alla somma festa m’apparecchiai1. 2. E mentre che io tutta mi mirava, non altramente che il pavone le sue penne, imaginando di così piacere ad altrui come io a me piacea, non so come, uno fiore della mia corona preso dalla cortina del letto mio o forse da celestiale mano da me non veduta, quella, di capo trattami, cadde in terra2; ma io, non curante alle occulte cose dagl’iddii dimostrate, quasi come non fosse, ripresala, sopra il capo la mi riposi, e oltre andai. Ohimè! che segnale più manifesto di quello che avvenne mi poteano dare gl’iddii? Certo niuno3. 3. Questo bastava a dimostrarmi che quello giorno la mia libera anima, e di sé donna, disposta la sua signoria, serva dovea divenire, come avvenne4. Oh, se la mia mente fosse stata sana, quanto quel giorno a me nerissimo avrei conosciuto, e senza uscire di casa l’avrei trapassato5! Ma gl’iddii, a coloro verso i quali essi sono adirati, benché della loro salute porgano ad essi segno, elli privano lui del conoscimento debito; e così ad una ora mostrano di fare il loro dovere e saziano l’ira loro6. 4. La fortuna mia adunque me vana e non curante sospinse fuori; e accompagnata da molte, con lento passo pervenni al sacro tempio, nel quale già il solenne oficio debito a quel giorno si celebrava7. 5. La vecchia usanza e la mia nobiltà m’avea tra l’altre donne assai eccellente luogo servato; nel quale poi che assisa fui, servato il mio costume, gli occhi subitamente in giro vòlti, vidi il tempio d’uomini e di donne parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare8. 6. Né prima, celebrandosi il sacro oficio, nel tempio sentita fui, che, sì come l’altre volte soleva avvenire, così e quella avvenne, che non solamente gli uomini gli occhi torsero a riguardarmi, ma eziandio le donne, non altramente che se Venere o Minerva, mai più da loro non vedute, fossero in quello luogo, là dove io era, nuovamente discese9. 7. Oh, quante fiate, tra me stessa ne risi, essendone meco contenta, e non meno che una dèa gloriandomi di tale cosa!10 Lasciate adunque quasi tutte le schiere de’ giovini di mirare l’altre, a me mi posero d’intorno, e diritti quasi in forma di corona mi circuivano, e variamente fra loro della mia bellezza parlando, quasi in una sentenza medesima concludendo la laudavano11. 8. Ma io che, con gli occhi in altra parte voltati, mostrava me d’altra cura sospesa, tenendo gli orecchi a’ ragionamenti di quelli sentiva disiderata dolcezza, e quasi loro parendomene essere obligata, tale fiata con più benigno occhio li rimirava; e non una volta m’accorsi, ma molte, che di ciò alcuni, vana speranza pigliando, co’ compagni vanamente se ne gloriavano12. 9. Mentre che io in cotal guisa, poco altrui rimirando, e molto da molti rimirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese13. 10. E già essendo vicina al doloroso punto, il quale o di certissima morte o di vita più che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito mossa, gli occhi con debita gravità elevati, intra la multitudine de’ circustanti giovini con acuto riguardamento distesi14; e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me dirittissimamente uno giovine opposto vidi15; e, quello che ancora fatto non avea d’alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad estimare16. 11. Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovinezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guance sue17; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo18. 12. Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose già dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi poté tòrre19. E già nella mia mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la riguardava, e quasi con più argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava20. 13. Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo alquanto più fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: «O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra»21. 14. Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: «E voi la mia»22. Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi23. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei24. 15. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano già vaghi divenuti li contentava25; e certo, se gl’iddii, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia, ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e subitamente atta divenni a potere essere presa26; per che, non altramente il fuoco se stesso d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’ suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando, se ne gìo27. 16. Il quale, nel sùbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida e quasi freddissima tutta lasciò28. Ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e calda rendé come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirai29. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non di piacergli30.
1 Quello… m’apparecchiai: Quel giorno (il Sabato Santo) era <festa> molto solenne quasi per tutti (a tutto il mondo); per cui io mi preparai (m’apparecchiai) per andare all’importante (somma) festa, dopo avere indossato (vestitami, verbo qui costruito transitivamente) accuratamente (con sollecitudine) i tessuti (drappi) rilucenti per l’oro abbondante e, <dopo aver > agghindata (ornata) ogni parte del mio corpo (di me) con abilità (maestra mano), sentendomi (tenendomi) come le dee viste da Paride nella valle dell’Ida. Il giovane Paride, figlio di Priamo, era stato abbandonato sul monte Ida (vetta di Creta cara a Zeus), dove crebbe bello e forte. Un giorno si presentarono al giovane, cui Zeus aveva consegnato un pomo da regalare alla più bella delle divinità, tre dee (Pallade, Afrodite ed Era) ed egli scelse Afrodite. La similitudine dice dunque che Fiammetta appariva splendida come le tre bellissime dee. 2 E mentre… terra: E mentre io ammiravo la mia intera persona (tutta mi mirava), non diversamente (altramente) da come (che) il pavone <ammira> le sue penne, immaginando di piacere agli altri così come piacevo a me stessa, non so come, essendosi impigliato (preso) un fiore della mia corona nella tenda (cortina) <del baldacchino> del letto, o forse <essendo stato preso> da una mano celeste da me non vista, la corona (quella), che mi si era sfilata (trattami) dal capo, cadde a terra. 3 ma io, non curante… Certo niuno: ma io, incurante verso le (alle) arcane volontà (occulte cose) manifestate dagli dèi (iddii), come se nulla fosse, ripresala, me la misi di nuovo (la mi riposi) sul capo e andai oltre. Ahimè! Che presagio (segnale) più evidente (manifesto) di ciò che sarebbe avvenuto avrebbero potuto darmi gli dèi? Certamente nessuno. Fiammetta è contemporaneamente protagonista della vicenda e narratrice della stessa: in quanto narratrice, è consapevole del significato che assume questa caduta della corona, che appare come presagio della sventura che stava per colpirla. La Fiammetta protagonista della vicenda invece non comprende il presagio e agisce «quasi come non fosse». 4 Questo bastava… come avvenne: Questo doveva essere sufficiente (bastava) a farmi capire (dimostrarmi) che quel giorno la mia anima, libera e signora (donna, dal latino domina) di se stessa, abbandonata (diposta) la sua condizione signorile, doveva divenire serva, come <poi> avvenne. 5 Oh, se… trapassato: Oh, se la mia mente fosse stata saggia (sana), come (quanto) avrei giudicato (conosciuto) quel giorno assai funesto (nerissimo) per me, e &l;come> l’avrei trascorso (trapassato) senza uscire di casa! 6 Ma… loro: Ma sebbene (benché) gli Dei, a coloro contro i quali (verso i quali) sono adirati, mostrino (porgano ad essi; il pronome è pleonastico) segno della salvezza da loro donata (loro salute), li privano (elli privano lui, letteralmente essi privano lui; il pronone «elli» è pleonastico in quanto il soggetto è sempre «gl’iddii»; con il complemento oggetto «lui» si produce invece un passaggio dal plurale al singolare) della dovuta capacità di discernere (conoscimento debito); e così contemporaneamente (ad una ora) fanno vedere di fare il proprio dovere e saziano la propria ira. Il passo richiama un noto detto latino («Quos vult Iupiter perdere, dementat prius» [«Quelli che Giove vuol rovinare, prima li acceca»]). 7 La fortuna… fuori: La mia sorte dunque spinse a uscire (sospinse fuori) me, vanitosa (vana, anche nel senso di vuota, perché priva di saggezza) e non curante <del presagio>; e, accompagnata d<a molte donne>, con passo lento giunsi alla chiesa (sacro tempio) in cui già si celebrava la solenne funzione (oficio) prevista per (debito a) quel giorno. 8 La vecchia usanza… diversamente operare: L’antica tradizione e la mia nobiltà mi avevano (m’avea: il verbo è al singolare perché concorda solo con il secondo soggetto, «nobiltà») riservato un posto molto dignitoso (assai eccellente) tra le altre donne; e dopo che fui seduta (assisa) in esso, avendo mantenuto (servato) la mia abitudine (costume), avendo guardato rapidamente intorno, vidi la chiesa piena di uomini e donne nella stessa quantità (parimente), e <li vidi> agire (operare) in vario modo (diversamente) in diversi gruppi disordinati (caterve). Nella chiesa non c’è l’atmosfera solenne e composta tipica del luogo sacro, ma un disordine e un vociare continuo. 9 Né prima… nuovamente discese: E, mentre si celebrava la sacra funzione, ci fu appena il tempo di accorgersi della mia presenza in chiesa (Né prima… nel tempio sentita fui) che ciò che (sì come) altre volte di solito accadeva (soleva avvenire), lo stesso (così) accadde anche quella (e quella) <volta>, <cioè> che non soltanto gli uomini, ma anche (eziandio) le donne girarono (torsero) gli occhi per guardarmi, proprio come se (non altramente che) fossero miracolosamente (nuovamente) discese in quel luogo in cui io ero Venere o Minerva, <divinità> mai (mai più) viste da loro. Continua la similitudine iperbolica tra la bellezza di Fiammetta e quella delle dee. 10 Oh quante fiate… di tale cosa: Oh quante volte (fiate) me ne rallegrai dentro di me (tra me stessa ne risi), essendone interiormente (meco) contenta, e gloriandomi di una simile cosa non meno di una dea! 11 Lasciate adunque… la laudavano: Quasi tutti i gruppi (schiere) di giovani, avendo tralasciato dunque di ammirare le altre <donne>, si posero intorno a me, e <stando> in piedi (diritti) mi circondavano (circuivano) quasi in forma di corona e, parlando tra loro ognuno a modo suo (variamente) della mia bellezza, quasi accordandosi nella medesima conclusione (in una sentenza medesima concludendo), la lodavano. 12 Ma io… gloriavano: Ma io che, mentre avevo lo sguardo rivolto da un’altra parte (con gli occhi in altra parte voltati), mi mostravo distratta (sospesa) da <qualche> altro interesse (cura), concentrando l’udito (tenendo gli orecchi) sui discorsi (ragionamenti) di quei <giovani>, provavo (sentiva) una dolcezza dettata dal desiderio (disiderata dolcezza), e quasi sembrandomi di esserne debitrice (obbligata) nei loro confronti, qualche volta (tale fiata) con uno sguardo (occhio) più benevolo li osservavo; e non soltanto una, ma molte volte mi accorsi che alcuni si gloriavano vanitosamente (vanamente) di questo (di ciò, ossia di questo sguardo) con i compagni, concependo (pigliando) una vana speranza. 13 Mentre… prese: Mentre io rimango (dimoro) in questo stato (in cotal guisa), osservando poco gli altri (poco altrui rimirando) ed essendo spesso osservata da molti (e molto da molti rimirata), credendo che la mia bellezza catturasse (pigliasse) gli altri, accadde che l’altrui <bellezza> catturò me rendendomi misera (miseramente). Il periodo, che rappresenta lo snodo fondamentale della narrazione, è retoricamente molto elaborato: esso presenta due antitesi («poco altrui rimirando, e molto da molti rimirata»; «credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese»), allitterazioni della m e della r (rimirando, e molto da molti rimirata), poliptoti («molto» - «molti»; «rimirando» - «rimirata»). Chiaro è poi il riferimento dantesco contenuto nel verbo «prese» (Inferno, V, 101 [DIV4]). 14 E già… distesi: Ed essendo ormai prossima (già vicina) al momento doloroso (chiaro riferimento al «doloroso passo» di Inferno, V, 115 [DIV4]; ma il sostantivo «punto» richiama il v. 132 dello stesso canto) il quale doveva essere motivo (cagione) di sicurissima morte oppure di una vita oltremodo angosciosa (o di certissima morte o di vita più che altra angosciosa, chiasmo), mossa non so da quale sentimento (spirito), <dopo aver> sollevato gli occhi con il dovuto decoro (gravità), <li> diressi (distesi) con sguardo attento (acuto riguardamento) in mezzo alla (intra la) moltitudine circostante dei giovani. 15 e oltre… vidi: e dietro tutti <gli altri> (oltre a tutti) vidi un giovane <in una posizione> direttamente opposta alla mia (a me dirittissimamente… opposto), solo ed appoggiato ad una colonna di marmo. Quest’incontro di Fiammetta con il giovane (il cui nome, Panfilo, sarà rivelato solo successivamente) ricalca l’incontro di Dante e Beatrice in chiesa narrato nella Vita nuova: comune alle due opere, oltre all’ambientazione in un luogo di culto, è la collocazione dei due protagonisti della vicenda lungo un’ideale linea retta [G4]. 16 e, quello… estimare: e, cosa (quello) che non avevo ancora fatto <nei confronti> di nessun altro, mossa da un destino inesorabile (incessabile), cominciai ad apprezzare (estimare) dentro di me (meco) lui e i suoi costumi (modi). 17 Dico che… tra uomo e uomo: Affermo che, secondo il mio giudizio, il quale non era ancora assoggettato (occupato) dall’amore, egli era bellissimo nell’aspetto (di forma), piacevolissimo nei gesti (atti), decorosissimo negli atteggiamenti esteriori (onestissimo nell’abito suo), e una peluria increspata (crespa lanugine) che da poco (pur mo’) copriva le sue guance, dava segno evidente della sua giovinezza. 18 e me… uomo: e <con un atteggiamento> tanto adatto a ispirare comprensione (pietoso) quanto cauto mi osservava <guardando> tra una persona e l’altra. 19 Certo io ebbi… mi poté tòrre: Certamente io ebbi la forza di distogliere per un po’ (alquanto) lo sguardo da lui (gli occhi da riguardarlo), ma nessun altro avvenimento (niuno altro accidente), né io medesima con i miei sforzi, potè distogliere il mio pensiero (il pensiero… mi potè tòrre) dal considerare (estimante, participio presente concordato con «pensiero») le altre qualità (cose) già ricordate <del giovane>. 20 E già nella mia mente… mi riguardasse mirava: Ed essendo l’immagine del suo aspetto (figura) già impressa (rimasa) nella memoria (mente), la contemplavo dentro di me (meco la riguardava) con non so quale segreto piacere (tacito diletto), e avendo confermato <come> vere le impressioni (cose) che si erano in me formate (mi pareano) <a proposito> di lui, come se <avessi avuto> più prove (quasi con più argomenti), contenta di essere guardata da lui, a volte guardavo (mirava) discretamente (cautamente) se lui ricambiasse i miei sguardi (mi riguardasse). 21 Ma intra… beatitudine nostra: Ma ogni volta (intra l’altre volte) che io, senza stare in guardia (non guardandomi) dalle trappole d’amore (amorosi lacciuoli), lo osservai, tenendo i miei occhi fissi (fermi) un po’ (alquanto) più del normale (usato) nei suoi, a me sembrò di riconoscere in essi (cioè negli occhi del giovane) parole che dicevano: «O donna, tu sola sei la nostra beatitudine». La personificazione degli occhi, cui viene conferita la parola, rientra nella tradizione stilnovistica, e in particolare cavalcantiana. Il passo richiama anche il secondo capitolo nella Vita nuova, nel quale Beatrice appare a Dante e lo spirito animale di quest’ultimo, rivolto ai suoi spiriti della vista, pronuncia le parole «Apparuit iam beatitudo vestra» [G2]. 22 Certo, se io dicessi… E voi la mia: Certo, se io dicessi che esse (le parole intraviste negli occhi del giovane) non mi fossero piaciute, io mentirei; al contrario, mi piacquero tanto, che esse fecero uscire (trassero) dal mio cuore (petto) un dolce sospiro, il quale veniva <fuori> con queste parole: «E voi <siete> la mia <beatitudine>». 23 Se non che io… le tolsi: Se non fosse che io, ricordandomi del mio stato, vietai a lui (cioè al sospiro) <di pronunciarle> (gli le tolsi). Fiammetta vuole impedire al suo sospiro, personificato e quindi dotato della parola, di manifestare il sentimento amoroso. 24 Ma che valse?… ancora sarei: Ma a cosa servì? Quello che non veniva espresso, il cuore lo comprendeva da solo (con seco), trattenendo dentro di sé ciò che, se fosse uscito, mi avrebbe forse lasciata ancora libera (forse libera ancora sarei: è un anacoluto, perché la frase ha come soggetto «che»). Il sentimento amoroso, cui viene impedito di uscire dal cuore, finisce dunque per soggiogarlo togliendo a Fiammetta la libertà. 25 Adunque… li contentava: Quindi, concedendo da questo momento in poi maggiore libertà (arbitrio) ai miei occhi folli, io li rallegravo (contentava) con quel <bene> (la vista della persona amata) di cui (che) essi erano già divenuti desiderosi (vaghi). 26 e certo… presa: e certamente, se gli dèi, i quali indirizzano (tirano) tutte le cose verso un fine prestabilito (conosciuto), non mi avessero tolto il discernimento (conoscimento), io avrei potuto ancora essere padrona di me stessa (essere mia), ma avendo relegato all’ultimo posto (all’ultimo posposta) ogni riflessione, assecondai il desiderio (appetito), ed immediatamente divenni idonea (atta) a poter essere catturata. 27 per che… gìo: per cui (per che), il fuoco scaraventa (balestra) se stesso da una parte all’altra, non diversamente (altramente) da come (che) una luce, muovendosi attraverso (per) un raggio sottilissimo, partendo dai suoi <occhi>, colpì i miei occhi, e non rimase ferma (contenta) in essi, anzi, non so per quali occulte vie, se ne andò (gìo) immediatamente al cuore penetrando<vi>. È qui ripresa la descrizione dell’innamoramento tipica di Cavalcanti [E6]. 28 Il quale… lasciò: Il quale <cuore>, temendo per (nel) l’improvviso (sùbito) arrivo (avvenimento) di quella <luce>, dopo aver raccolto <intorno> a sé le forze esterne, mi lasciò pallida e quasi gelida. Ancora una volta, l’immagine del cuore che chiama a raccolta le forze vitali sottraendole al corpo e riducendo quest’ultimo al pallore a all’impotenza ricalca fedelmente il modello cavalcantiano [E6]. 29 Ma non fu lunga… sospirai: Ma non era stata lunga la durata (dimoranza) <in quella condizione>, quando (che) sopravvenne <la condizione> contraria, e non soltanto sentii lui (il cuore) divenuto palpitante (fatto fervente), ma addirittura (anzi) le forze <vitali>, tornate ai loro posti, portarono con sé un calore che, cacciato il pallore, mi rese di un rosso intenso e calda come il fuoco e, guardando colui (quello mirando) da cui aveva origine (procedeva) ciò (ossia il turbamento), sospirai. Si noti come gli aggettivi «rossissima e calda» si contrappongano per antitesi ai precedenti «palida» e «freddissima», formando con essi anche un chiasmo. 30 Né da quell’ora… di piacergli: Né da quel momento in poi in me ebbe forza (poteo) alcun pensiero, se non <quello> di piacere a lui.
L’Elegia e il modello dantesco L’Elegia di Madonna Fiammetta ha la forma di una lunga lettera rivolta alle donne innamorate, in cui Fiammetta, donna sposata e amante infelice del giovane Panfilo, narra in prima persona le proprie vicende. Il modello principale di quest’opera sono le Heroides di Ovidio, opera costruita appunto come una raccolta di lettere scritte da eroine innamorate. Il brano che presentiamo, che ha andamento narrativo (l’Elegia è definita da alcuni critici un “romanzo psicologico”), dimostra tuttavia l’esistenza di modelli più vicini: in primo luogo, evidentissimo, quello della Vita nuova. Come Damnte, Fiammetta è il personaggio principale della vicenda amorosa e ne è, al tempo stesso, la narratrice. In quest’ultima veste essa risulta a posteriori consapevole del significato di ciò che le è accaduto, e ricostruisce i fatti da una prospettiva che la protagonista non può ancora possedere. Pertanto la narratrice può cogliere in alcuni avvenienti accaduti in passato, e all’epoca trascurati come insignificanti, dei veri e propri presagi di sventura [1]; può inoltre informare in anticipo il lettore dei successivi dolorosi sviluppi della sua vicenda amorosa [9-10]. L’analogia con la Vita nuova, rafforzata da alcuni puntuali richiami testuali, non esclude però profonde differenze. La più evidente riguarda la dimensione religiosa: nel racconto di Boccaccio i riferimenti al Cristianesimo sono sovrastati da una trama di richiami alla mitologia pagana che, a differenza di quanto accade in Dante, non viene più interpretata figuralmente, ma è apprezzata in sé come modello di perfezione estetica. Lo stesso luogo di culto in cui si ambienta la scena presenta ben poco di cristiano: solo l’osservazione che i fatti avvengono nel giorno di Sabato Santo qualifica questo «sacro tempio» come una chiesa. Ma in essa non si presta alcuna attenzione al «solenne oficio» che vi si svolge: si celebra piuttosto un rito mondano fatto di sguardi furtivi e di orgogliosa esibizione della propria bellezza. I riferimenti alla divinità sono anch’essi propri di una ambientazione pagana: gli dèi appaiono come esseri crudeli e capricciosi, che inviano presagi agli uomini quasi per potersi giustificare dicendo di aver fatto «il loro dovere», ma poi li rendono ciechi ai loro stessi segnali al fine di saziare la propria ira [3]. Questi dèi, in definitiva, altro non sono che la personificazione della «fortuna» [4]: e questo termine, in Boccaccio, non indica più quella ministra della divina Provvidenza di cui parlava Dante [DIV3], ma rappresenta una forza irrazionale che non ha nulla di trascendente. Nuova e spregiudicata è infine la concezione dell’amore. Fiammetta è una donna sposata e il suo amore per Panfilo andrebbe considerato, dunque, colpevole sul piano morale. Ma la vicenda non viene inserita in un quadro di regole etico-religiose. Fiametta la presenta invece al lettore in modo da suscitarne la compartecipazione, sottolineando il proprio destino di amante prima felice, poi abbandonata, infine disperata per amore ma costretta a celare al marito la causa della propria pena. La rappresentazione dell’amore in termini naturalistici, come un bisogno dell’essere umano che, se represso, genera sofferenza a volte atroce, segna la novità di Fiammetta anche rispetto alla più importante eroina d’amore della letteratura in volgare, la Francesca di Dante [DIV4]. Le sequenze narrative Il passo che presentiamo può essere diviso in cinque macrosequenze: 1) i preparativi in casa [1-4]; 2) l’arrivo in chiesa [5-9]; 3) l’apparizione di Panfilo [10-12]; 4) l’innamoramento di Fiammetta [13-15]; 5) l’epilogo dell’episodio, che anticipa gli avvenimenti futuri [16]. I preparativi in casa [1-4] Il periodo iniziale definisce le cordinate cronologiche della vicenda: i fatti accadono in un Sabato Santo, giorno «solennissimo quasi a tutto il mondo» [1]. L’autore, per dare dignità formale al suo testo, utilizza ripetutamente il mito per descrivere iperbolicamente la bellezza e la superbia di Fiammetta, che si prepara per la sacra funzione con la consapevolezza di essere oggetto del desiderio altrui. Il vario uso del pronome personale di prima persona («io tutta mi mirava»… «come io a me» [2]) mette in evidenza la spavalderia della donna, che appare da principio sicura di sé e della propria capacità di dominare gli eventi. Gli interventi della narratrice, che racconta la vicenda a distanza di anni, consentono invece al lettore di giudicare negativamente tale spavalderia (si veda la similitudine tra la vanità di Fiammetta e quella del pavone che ammira le proprie penne [2]) e di interpretare correttamente come un cattivo presagio l’episodio della perdita della coroncina, che allude all’imminente perdita della propria «signoria» [3] da parte della protagonista. L’arrivo in chiesa [5-9] Fiammetta è una donna di nobile stirpe: dunque l’usanza vuole che le venga riservato un posto di prestigio per assistere alla funzione. Nella chiesa, che è luogo dell’incontro amoroso in analogia con quanto avviene nella dantesca Vita nuova [G4], dominano un brusio ed un vociare che, in un luogo di culto, appaiono inusuali. La chiesa è in effetti un luogo desacralizzato, scenario ideale per l’incontro amoroso perché molto frequentato. Più che Dante, viene in mente l’Ovidio dell’Ars Amatoria («flammaque in arguto saepe reperta foro» [«e spesso la fiamma si accende nel brusio del foro»]; I, 80). Fiammetta-personaggio sa di essere ammirata e crede ancora di essere libera e padrona di sé e degli altri: si illude che la sua bellezza possa «altrui pigliare». Fiammetta-narratrice svela però una realtà antitetica a questa aspettativa: «avvenne che l’altrui [bellezza, ndr] me miseramente prese» [9]. L’apparizione di Panfilo [10-12] Via via che si procede verso lo snodo centrale della vicenda, il lessico e la forma espressiva variano gradualmente: da un registro prevalentemente narrativo, con una sintassi latineggiante e una trama di fitti richiami letterari, si passa ad un registro lirico-evocativo, dominato da un intreccio di figure retoriche, un periodare ritmico che descrive l’apparizione di Panfilo e l’effetto che questa avrà su Fiammetta. Sembra quasi che la prosa, per rappresentare l’innamoramento, vada trasformandosi in poesia. Del resto questa sarà proprio l’operazione rivoluzionaria di Boccaccio: esprimere in prosa quanto fino ad allora era stato cantato solo dalla poesia. Un omaggio al Dante della Commedia introduce il momento culminante della narrazione: Fiammetta è giunta al «doloroso punto» [10] e diviene preda d’Amore. L’apparizione della persona amata ricalca la casistica provenzale e stilnovistica. Siamo in una chiesa; il giovane è posto direttamente dinnanzi a Fiammetta; la sua immagine del colpisce gli occhi della futura amante; egli non viene descritto fisicamente se non per un solo tratto, la «crespa lanugine» che ne manifesta la giovane età. Per il resto, l’attenzione è concentrata, più che sulla persona di Panfilo, sulle conseguenze che la sua apparizione avrà su Fiammetta. L’innamoramento [13-15] Anche il racconto dell’innamoramento rispetta la tradizione stilnovistica, con riferimenti soprattutto a Cavalcanti [E6] nonché, come si è detto, al Dante della Vita nuova. Fiammetta si accorge di essere innamorata in quanto gli occhi di Panfilo le parlano; gli occhi della donna diventano allora «folli», in quanto la sua ragione è sconvolta; essi sono colpiti da «un raggio sottilissimo» proveniente da quelli dell’amante. La prosa lascia spazio alla situazione tipica della poesia e lo stile vi si adegua al punto che la scena si chiude su un doppio endecasillabo: «anzi, non so per quali occulte vie, / subitamente al cuore penetrando» [15]. L’epilogo [16] Fiammetta non svela il nome dell’amato, ma indica il giovane con un antonomastico «lui», esaltando così il carattere esclusivo e totalizzante della passione amorosa. Di quest’ultima è però sottolineato l’aspetto negativo, evidenziato da un’inquietudine di fondo che scuote la donna (ella prima è «palida e quasi freddissima» e poi «rossissima e calda»). La negatività dell’amore-sofferenza, vissuto come esperienza psicologica totale e devastante perché inappagata, era stata del resto già anticipata dagli interventi della narratrice consapevole [3] e costituisce una costante tematica dell’intera Elegia. Le novità dell’Elegia Assumendo come riferimento principale la Vita nuova e, dietro di essa, l’intera tradizione stilnovistica che Dante aveva rielaborato e innovato, appare chiaro come Boccaccio introduca una fondamentale novità: protagonista della vicenda non è più l’uomo ma la donna, che diviene quindi soggetto e non più oggetto del sentimento e ne rivendica la forza e l’urgenza. Questo capovolgimento del modello tradizionale nasconde probabilmente una realtà più complessa: è probabile infatti che l’autore presti a Fiammetta i suoi stessi sentimenti e che dunque l’amore di Fiammetta per Panfilo non sia che la trascrizione letteraria dell’amore infelice di Boccaccio per Maria D’Aquino (designata nelle opere precedenti, tra l’altro, proprio con il nome di Fiammetta). In ogni caso, si tratta di una novità rivoluzionaria, perché testimonia come il sentimento amoroso, sottratto agli scrupoli religiosi e presentato come esigenza insopprimibile della natura umana, coinvolga allo stesso modo uomini e donne, che lo vivono su un piano di sostanziale parità. Siamo, ormai, alle porte del Decameron, opera che, non a caso, sarà dedicata proprio alle donne [I9].
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