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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici
Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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Tre donne intorno al cor mi son venute |
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Tre donne intorno al cor mi son venute, e seggonsi di fore; ché dentro siede Amore, lo quale è in segnoria de la mia vita. Tanto son belle e di tanta vertute che ’l possente segnore, dico quel ch’è nel core, a pena del parlar di lor s’aita1. Ciascuna par dolente e sbigottita, come persona discacciata e stanca, cui tutta gente manca e cui vertute né beltà non vale. Tempo fu già nel quale, secondo il lor parlar, furon dilette; or sono a tutti in ira ed in non cale. Queste così solette venute son come a casa d’amico: ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico2. Dolesi l’una con parole molto, e ’n su la man si posa come succisa rosa: il nudo braccio, di dolor colonna, sente l’oraggio che cade dal volto; l’altra man tiene ascosa la faccia lagrimosa: discinta e scalza, e sol di sé par donna3. Come Amor prima per la rotta gonna la vide in parte che il tacere è bello egli, pietoso e fello, di lei e del dolor fece dimanda. «Oh di pochi vivanda», rispose in voce con sospiri mista, «nostra natura qui a te ci manda: io, che son la più trista, son suora a la tua madre, e son Drittura; povera, vedi, a panni ed a cintura4». Poi che fatta si fu palese e conta, doglia e vergogna prese lo mio segnore, e chiese chi fosser l’altre due ch’erano con lei. E questa, ch’era sì di pianger pronta, tosto che lui intese, più nel dolor s’accese, dicendo: «A te non duol de gli occhi miei?»5. Poi cominciò: «Sì come saper dei, di fonte nasce il Nilo picciol fiume: quivi dove il gran lume toglie a la terra del vinco la fronda6: sovra la vergin onda generai io costei che m’è da lato e che s’asciuga con la treccia bionda7. Questo mio bel portato, mirando sé ne la chiara fontana, generò questa che m’è più lontana8». Fenno i sospiri Amore un poco tardo; e poi con gli occhi molli, che prima furon folli, salutò le germane sconsolate. E poi che prese l’uno e l’altro dardo, disse: «Drizzate i colli: ecco l’armi ch’io volli; per non usar, vedete, son turbate9. Larghezza e Temperanza e l’altre nate del nostro sangue mendicando vanno. Però, se questo è danno, piangano gli occhi e dolgasi la bocca de li uomini a cui tocca, che sono a’ raggi di cotal ciel giunti; non noi, che semo de l’etterna rocca: ché, se noi siamo or punti, noi pur saremo, e pur tornerà gente che questo dardo farà star lucente10». E io, che ascolto nel parlar divino consolarsi e dolersi così alti dispersi, l’essilio che m’è dato, onor mi tegno: ché, se giudizio o forza di destino vuol pur che il mondo versi i bianchi fiori in persi, cader co’ buoni è pur di lode degno11. E se non che de gli occhi miei ’l bel segno per lontananza m’è tolto dal viso, che m’àve in foco miso, lieve mi conterei ciò che m’è grave12. Ma questo foco m’àve già consumato sì l’ossa e la polpa, che Morte al petto m’ha posto la chiave13. Onde, s’io ebbi colpa, più lune ha volto il sol poi che fu spenta, se colpa muore perché l’uom si penta14. Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano, per veder quel che bella donna chiude: bastin le parti nude; lo dolce pome a tutta gente niega, per cui ciascun man piega15. Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi amico di virtù, ed e’ ti priega, fatti di color’ novi, poi li ti mostra; e ’l fior, ch’è bel di fori, fa disïar ne li amorosi cori16. Canzone, uccella con le bianche penne; canzone, caccia con li neri veltri, che fuggir mi convenne, ma far mi poterian di pace dono17. Però nol fan che non san quel che sono: camera di perdon savio uom non serra, ché ’l perdonare è bel vincer di guerra18.
1 Tre donne… s’aita: Tre donne sono giunte intorno al mio cuore, e si siedono (seggonsi) fuori da esso, poiché all’interno abita (siede) Amore, il quale è signore (in segnoria) della mia vita. Sono così belle, e di così grande virtù, che il potente signore, intendo dire quello che sta nel cuore (cioè Amore, personificato secondo i canoni cortesi e stilnovistici) a stento (a pena) riesce (s’aita) a raccogliere e ritrarre le loro parole (nel parlar di lor, secondo la parafrasi di Sapegno). 2 Ciascuna… ch’io dico: Ciascuna di esse si mostra (par) addolorata e sgomenta (dolente e sbigottita: coppia di aggettivi che richiama Cavalcanti), come persona esiliata (discacciata) e stanca, abbandonata da tutti (cui tutta gente manca; l’espressione «tutta gente» ricalca il provenzale tota gen) e alla quale non giova (non vale) né la virtù né la bellezza. Vi fu in passato (già) un tempo nel quale, secondo il loro racconto (il lor parlar), furono amate (dilette); ora sono a tutti in odio (in ira) e oggetto di indifferenza (non cale, lett. non importa; espressione verbale sostantivata). Queste <donne> così sole (solette: la forma diminutiva dell’aggettivo è un altro elemento tipico dello stile di Cavalcanti) sono venute come a casa di un amico (cioè di Amore; ma l’«amico» potrebbe anche essere il poeta stesso), perché sanno bene che dentro <il cuore> abita (è) colui di cui io parlo. La prima stanza sottolinea la nobiltà d’animo del poeta (sempre collegata, nella tradizione stilnovistica, alla presenza di Amore nel cuore) e suggerisce un’implicita analogia tra il poeta stesso e le tre donne, anch’esse virtuose (vv. 5, 12) e anch’esse costrette all’esilio (v. 10). 3 Dolesi… donna: Una di loro si lamenta (dolesi) molto con le parole, e si appoggia (si posa) sulla mano, come una rosa recisa (succisa, latinismo; richiama il «flos succisus aratro» di Eneide, IX, 435): il braccio nudo, sostegno (colonna, metafora) del volto addolorato (di dolor, metonimia) sente la pioggia (oraggio, francesismo; è anche questa una metafora per indicare le lacrime) che scende dal volto; l’altra mano nasconde (tiene ascosa) la faccia bagnata di lacrime; <è> seminuda (discinta) e scalza, e solo dalla sua persona (di sé: cioè non dalle sue vesti) appare chiara la sua signoria e dignità (par donna, secondo la parafrasi di Contini). L’abbigliamento della donna, che ne lascia intravedere la nudità (che nel Medioevo era fatta oggetto di scherno), è in forte contrasto con la sua dignità morale; ciò sottolinea ulteriormente la drammaticità di un esilio ingiusto. 4 Come… cintura: Non appena Amore (Come Amor prima), attraverso la veste lacera (rotta gonna), la vide in una parte <del corpo> che è pudico (bello) tacere (cioè vide le sue nudità), egli, impietosito e crucciato (fello), domandò (fece dimanda) chi lei fosse (di lei) e <quale fosse la causa> del suo dolore. «Oh <Amore>, nutrimento (vivanda, metafora) di pochi», rispose con voce interrotta dai sospiri (con sospiri mista: lett. mischiata con i sospiri), «la nostra nascita (natura) ci conduce (manda) qui da te: io, che sono la più triste, sono sorella di tua madre, e sono la Giustizia (Drittura, dal provenzale drechura); povera, vedi, quanto ai vestiti e alla cintura. La Giustizia, figlia di Giove, era anche sorella di Venere, la madre di Amore. Questa donna rappresenta allegoricamente la Giustizia divina (Giove può infatti identificarsi con Dio), respinta e disprezzata dal mondo. 5 Poi che… occhi miei: Dopo che si fu resa (fatta si fu) manifesta (palese) e riconoscibile (conta, dal latino cognita), dolore e vergogna presero (prese, al singolare per sillessi) il mio signore (Amore), ed egli chiese chi fossero le altre due che erano con lei. Ed essa, che era molto (sì, lett. così) pronta a piangere, non appena (tosto che) lo udì (lui intese), si infiammò di più di dolore, dicendo: «Non hai pietà (A te non duol) del mio pianto (de li occhi miei, metonimia)? 6 Poi cominciò… fronda: Poi cominciò: «Come devi (dei) sapere, il Nilo nasce come piccolo fiume (in quanto presso le sorgenti è ancora povero di acque), da una sorgente (di fonte), là (quivi) dove la potente luce <del sole> (’l gran lume) sottrae alla terra la fronda del virgulto (vinco); l’espressione significa, probabilmente, che il sole impedisce al virgulto di proiettare a terra la sua ombra. Presso le sorgenti del Nilo, vicino all’Equatore, i raggi del sole sono infatti perpendicolari e quasi non proiettano ombra. 7 sopra… bionda: sopra l’onda incontaminata (vergin) <del Nilo> io generai costei che è al mio fianco (la seconda delle tre donne) e che si asciuga <le lacrime> con la treccia bionda. L’onda del Nilo è detta «vergin» perché questo fiume veniva identificato con il Geon, uno dei quattro fiumi del Paradiso terrestre; l’aggettivo si riferisce dunque alla condizione del mondo prima del peccato originale. La donna generata dalla Giustizia divina è la Giustizia umana, da intendersi come principio naturale del diritto, valido per tutti gli uomini e derivato indirettamente da Dio. 8 Questo… lontana: Questa mia bella figlia (portato, lett. frutto del parto; si riferisce alla Giustizia umana), specchiandosi (mirando sé) nella limpida fonte, generò questa (la terza donna) che è più lontana da me. L’ultima delle tre donne è la Legge, che realizza concretamente i principi universali della Giustizia umana. Ciascuna forma di giustizia ne genera dunque un’altra, che costituisce il proprio rispecchiamento. 9 Fenno… turbate: I sospiri resero (fenno) Amore un po’ lento a rispondere (tardo); e poi, con gli occhi bagnati di pianto (molli), <occhi> che prima erano stati scortesi (folli, perché non avevano riconosciuto le tre donne), salutò le parenti (germane: lett. sorelle) sconsolate. E dopo che prese l’una e l’altra freccia, disse: «Alzate i volti (colli, metonimia): ecco le armi che io ho voluto. Per il fatto di non essere utilizzate (per non usar), vedete, sono arrugginite (turbate, lett. intorbidate). Amore viene tradizionalmente rappresentato con due frecce: una d’oro, che genera il sentimento dell’amore, e una di piombo che genera l’odio. Secondo Barbi, esse rappresentano qui «la predilezione per il bene e l’odio contro il male». 10 Larghezza… lucente: La Liberalità (Larghezza), la Temperanza e le altre <virtù> nate dalla nostra stirpe (sangue) vanno mendicando. Perciò (Però), se esiste (è) questo male (danno), piangano gli occhi e si lamenti (dolgasi) la bocca degli uomini a cui <questo male> capita (tocca), i quali sono nati (giunti) sotto l’influsso (a’ raggi) di tali stelle <avverse> (di cotal ciel, metonimia); non <addoloriamoci> noi, che apparteniamo alla cittadella eterna (semo de l’etterna rocca): perché, sebbene noi ora siamo afflitti (punti), nonostante questo (pur) noi continueremo ad esistere (saremo), e nonostante questo tornerà una generazione (gente) che farà splendere (farà star lucente) queste frecce (dardo, al singolare per sineddoche). Amore riafferma profeticamente la fede nei valori, che sono immortali e il cui esilio dal mondo può essere soltanto temporaneo. 11 E io… degno: E io che sento, con la loro voce divina (nel parlar divino), consolarsi e addolorarsi così nobili esiliati (così alti dispersi), l’esilio che è dato a me lo considero per me un onore (onor mi tegno); poiché, se anche (pur) il giudizio <di Dio> o la forza del destino vuole che il mondo trasformi (versi) i fiori bianchi in neri (persi: indica per l’esattezza un colore scuro, tra il rosso porpora e il nero), essere sconfitto (cader) insieme con i buoni è tuttavia (pur) degno di lode. La sventura dell’esilio viene qui vista come un’imperscrutabile conseguenza della volontà di Dio o del destino (inteso come indiretta manifestazione del volere divino), e considerata segno di un tragico privilegio. La trasformazione dei fiori bianchi in neri, più che un’allusione alle parti politiche di Firenze, sembra un’immagine dello stravolgimento della naturale condizione umana. 12 E se non… grave: E se non <fosse> che, a causa della lontananza, è sottratto (tolto) alla mia vista (viso, latinismo) il bell’oggetto (segno) dei miei sguardi (occhi, metonimia), il quale mi ha (àve) immerso (miso, forma siciliana per messo) nel fuoco <della passione>, considererei per me (mi conterei) facile da sopportare (lieve) ciò che mi è insopportabile (grave). È molto probabile che la passione cui qui Dante fa riferimento sia quella per la politica, e che dunque il «segno» dei suoi occhi vada identificato con Firenze; è la nostalgia per la patria a rendergli insopportabile l’esilio, che pure da un punto di vista morale è motivo d’orgoglio. 13 Ma questo foco… penta: Ma questa passione (foco, metafora) mi ha già consumato talmente (sì) le ossa e la carne (polpa), che la Morte mi ha <già> messo la chiave nel cuore (petto, metonimia). La Morte è cioè sul punto di porre fine alla vita del poeta. 14 Onde… si penta: Per cui (Onde), se io ho avuto colpa, il sole ha visto passare (volto) più mesi (lune) da quando essa fu estinta (spenta), se <è vero che> la colpa muore per il fatto che l’uomo si penta. Il poeta ammette la possibilità di aver commesso qualche errore, ma lo considera superato dal pentimento. Non è chiaro, tuttavia, di quale colpa si tratti. 15 Canzone… piega: Canzone, nessuno ponga mano alle tue vesti (panni) per vedere ciò che la bella donna (metafora della poesia) nasconde: bastino le parti scoperte (nude); nega a chiunque (tutta gente) il dolce frutto (pome) <del tuo significato riposto>, per il quale ciascuno stende (piega) la mano. 16 Ma s’elli avvien: Ma se avviene (il pronome «elli» è pleonastico) che tu trovi per caso (mai) qualche (alcun) amico della virtù, e <se> costui (e’) ti prega, fatti di colori mai visti (novi), poi mostrati a lui (li ti mostra); infatti (e) il fiore, che è bello esternamente (di fori), accende il desiderio (fa disïar) nei cuori amorosi. La metafora del fiore continua quella del «pome» del v. 94. La canzone non dovrà insomma svelare il suo significato profondo a chiunque, ma solo a chi, amico di virtù, abbia mostrato il desiderio di conoscerlo. 17 Canzone, uccella… dono: Canzone, vai a caccia con uccelli dalle penne bianche (con le bianche penne è sineddoche; indica probabilmente uccelli da preda); canzone, vai a caccia con i neri cani (veltri: sono propriamente cani da caccia), dai quali mi fu necessario fuggire (che fuggir mi convenne: il verbo «fuggir» è usato transitivamente; «che», riferito a «veltri», è complemento oggetto), ma <che> potrebbero (poterian) farmi dono della pace. Esplicito qui il richiamo alle fazioni fiorentine dei Bianchi e dei Neri, dai quali in questo secondo congedo Dante sembra mostrare equidistanza, manifestando la speranza in una revoca del suo esilio da parte dei Neri. Questo congedo è stato probabilmente aggiunto alla canzone in un secondo momento, quando Dante si era distaccato dai fuorusciti Bianchi condannandone gli eccessi; qualcuno mette però in dubbio che questi ultimi versi siano autentici. 18 Però non fan… di guerra: Non lo fanno, perché (Però… che) non conoscono la mia vera natura (non san quel che sono): un uomo saggio (savio uom) non chiude (serra) la camera del perdono (metafora che significa non nega il suo perdono), poiché perdonare è un nobile (bel) <modo di> vincere in guerra. Gli ultimi due versi sono occupati da un doppio epifonema.
Livello metrico Canzone di cinque stanze di 18 versi ciascuna, composte da endecasillabi e settenari, con duplice congedo. La fronte è divisa in due piedi; nella sirma è presente la chiave, in rima con l’ultimo verso della fronte; non c’è divisione simmetrica tra le due volte. Lo schema è dunque AbbC, AbbC; CDdEeFEfGG. Il primo dei due congedi ripete la sirma. Il secondo segue lo schema ABaCCDD. Livello lessicale, sintattico e stilistico La materia della canzone tende a distribuirsi in periodi brevi, che occupano per lo più blocchi di quattro versi (nella fronte) o di tre versi (nella sirma). Talora (vv. 19-26, vv. 45-51) due blocchi risultano fusi in un’unità sintattica di doppia lunghezza. Più tesa risulta la sintassi nella sirma della quarta stanza (vv. 63-71) e nella fronte della quinta (vv. 72-81) in coincidenza, come vedremo, con i momenti di maggiore drammaticità della canzone. Nel complesso, comunque, la simmetria e la linearità non vengono mai meno. Ne è una prova, a livello stilistico, il ricorrere di parallelismi e dittologie. Solo nella prima stanza incontriamo: «Tanto son belle e di tanta vertute» (v. 5); «dolente e sbigottita» (v. 9); «discacciata e stanca» (v. 10); «vertute né beltà» (v. 12); «in ira ed in non cale» (v. 15); lo stesso tipo di figure dell’ordine ricorre anche nelle stanze successive. Il testo è costruito in gran parte sull’allegoria. Il significato morale e filosofico è tutto risolto in immagini: non si notano quindi – a parte la personificazione delle tre forme di Giustizia – significative innovazioni lessicali rispetto alla tradizione della lirica stilnovistica; tuttavia lessico e temi della tradizione amorosa (particolarmente ricorrenti nella prima stanza) divengono qui il veicolo di significati del tutto nuovi. Livello tematico Problemi di datazione: l’esilio di Dante La canzone fa esplicito riferimento all’esilio di Dante da Firenze; ciò impone di fissarne la datazione almeno al 1302 (la condanna, infatti, fu pronunciata nei primi mesi di quell’anno). Probabilmente il testo appartiene al primo periodo dell’esilio del poeta, quello in cui egli manteneva stretti rapporti con altri fuorusciti. Questa canzone avrebbe dovuto essere commentata nel XIV trattato del Convivio, progettato ma non realizzato. Il secondo congedo (vv. 101-107), la cui autenticità è discussa, appare invece successivo al disastro della Lastra (1304), che segnò la sanguinosa sconfitta degli atti di forza con cui gli esuli Bianchi tentavano il rientro e indusse Dante ad allentare i rapporti con la sua vecchia parte politica1. L’impianto allegorico: l’esilio della giustizia Il tema centrale del componimento però, più ancora che l’esilio del poeta, è il «rovesciamento generale del mondo» (Contini), rappresentato a sua volta da un esilio, quello delle tre donne che simboleggiano le diverse forme della Giustizia; evidente la saldatura tra la vicenda individuale di Dante e la condizione generale del proprio tempo, che rifiuta e manda in esilio la virtù. Le stanze 2 e 3 chiariscono con precisione il significato dell’allegoria (che è stato illustrato già da uno dei figli di Dante, Pietro), delineando uno stretto rapporto di filiazione tra la Giustizia divina, la Giustizia umana (entrambe intese come principi universali) e la Legge (quest’ultima intesa come il concreto sistema normativo che regola i rapporti tra i cittadini). La trasformazione della figura di Amore Interlocutore delle tre donne non è direttamente il poeta, bensì Amore, che secondo la tradizione stilnovistica figura qui come signore del suo cuore. Questa figurazione assume, in relazione al tema dell’esilio, un vigore polemico certamente nuovo rispetto alla tradizione. Amore non è più soltanto una figura connessa al rapporto tra uomo e donna: egli appartiene alla stessa stirpe della Giustizia divina e sembra presentarsi come amore per il bene e odio per il male. Facendolo invocare dalla prima delle donne come «di pochi vivanda» (v. 31), Dante non si limita dunque a ribadire, seguendo Guinizzelli [E1], che l’Amore risiede nel cuore dei pochi eletti dotati di nobiltà d’animo; vuol dire anche che, in un mondo stravolto come quello in cui egli vive e patisce l’esilio, l’amore per il bene è ormai patrimonio di pochi. La plasticità della figurazione Anche se costruita su un complesso impianto allegorico, la canzone non cade nella pura astrazione intellettuale. La rappresentazione – soprattutto per quanto riguarda la prima donna, l’unica delle tre a prendere la parola – raggiunge anzi una notevole concretezza visiva: la donna appoggia la testa sulla mano «come succisa rosa» (v. 21); sul braccio le scorrono le lacrime che scendono dal volto (v. 23); le misere vesti scoprono la sua nudità inducendo Amore a chiederle la causa del dolore (vv. 27-30). Un esilio temporaneo Nella quarta e nella quinta stanza si concentra il significato polemico della canzone. Alla base del discorso è la convinzione (legata a una visione provvidenzialistica della storia) che l’esilio dei valori, dovuto a contingenze negative, non potrà essere eterno. È quanto afferma Amore nella sirma della quarta stanza (vv. 65-72); ma è soprattutto quanto proclama Dante nella fronte della quinta (vv. 73-80). Tornano in questi versi i richiami allo stravolgimento del mondo contemporaneo (simboleggiato dalla trasformazione dei «bianchi fiori in persi», v. 79). Nelle parole di Amore, cittadino «de l’etterna rocca», suona però la certezza nella restaurazione dei valori («noi pur saremo, e pur tornerà gente / che questo dardo farà star lucente», vv. 70-71). Nulla, è vero, garantisce al poeta di poter vivere personalmente la restaurazione di questi valori; gli resta però l’orgoglio di un esilio e di una sconfitta che, in un mondo stravolto, si capovolgono in segni di elezione spirituale («l’essilio che m’è dato, onor mi tegno», v. 76; «cader co’ buoni è pur di lode degno», v. 80). Il registro allegorico lascia qui il campo a un tono profetico. Il drammatico scontro tra valori e realtà storica è sottolineato, a livello sintattico, dalla forte opposizione tra le proposizioni subordinate introdotte da «se», con significato concessivo o avversativo, in cui si enuncia la realtà di un mondo capovolto («se noi siamo or punti», v. 70; «se giudizio o forza di destino…», v. 77) e proposizioni reggenti che riaffermano l’eternità dei valori o, quantomeno, proclamano l’orgogliosa accettazione del proprio destino di sconfitta in nome di quei valori («noi pur saremo, e pur tornerà gente», v. 71; «cader co’ buoni è pur di lode degno», v. 80). Una spia di questa tensione concettuale e stilistica è il ricorrere, in questi versi, della congiunzione «pur». La ritroviamo nelle proposizioni reggenti (con il significato di «tuttavia», «nonostante questo», vv. 71, 80), e in una delle subordinate, con valore concessivo-ipotetico (v. 78). I temi di queste due stanze segnano un momento importante nell’evoluzione dell’opera di Dante: la scelta del registro profetico, il rapporto di radicale opposizione con il proprio tempo, la fede in valori universali di cui si attende il ritorno sulla terra, il collegamento tra la propria infelicità individuale e la degradazione del mondo sono tutti elementi che ritroveremo nella Divina Commedia. Dalla profezia all’elegia L’estrema tensione concettuale e stilistica della canzone si stempera a partire dalla sirma della quinta stanza, in cui il tema dell’esilio viene declinato non più secondo il registro allegorico o profetico, ma in toni di mesta elegia. Difficile comprendere se Dante, nel confessare la propria colpa (vv. 88-90), faccia riferimento a un fatto preciso o non intenda, piuttosto, ridimensionare l’orgoglio dei versi precedenti riconoscendo la propria imperfezione di peccatore. Certo è comunque che in questi versi i protagonisti allegorici tacciono, mentre la figura del poeta esule appare in primo piano nella sua solitudine di uomo lontano dalla patria e dagli affetti. L’alternanza tra tono allegorico e profetico da una parte, tono elegiaco dall’altra, si riproduce nei due congedi. Il primo è incentrato sull’orgogliosa rivendicazione da parte del poeta della propria virtù, che potrà essere compresa solo da pochi (alla canzone si chiede di negare «lo dolce pome a tutta gente», v. 94); questo congedo è collegato alla parte iniziale del testo da un allusivo richiamo alla figurazione delle tre donne (vv. 91-93). Il secondo è esplicitamente riferito alle lotte fiorentine tra Bianchi e Neri, ed è segnato da una più mite riaffermazione della propria onestà morale (v. 105), in cui la nostalgia di Firenze diventa anche aspirazione alla pace e al perdono (vv. 106/107). L’impostazione binaria e drammatica La canzone presenta una struttura drammatica, binaria; ciò è evidente a livello tematico, ma trova un riscontro anche in una scrittura che tende a disporre i termini a due a due, come si è visto nell’analisi stilistica (qualcosa di simile accade in Così nel mio parlar voglio esser aspro [G19]). Il testo di questa canzone contiene anche, è vero, un esplicito richiamo al numero tre, simbolo di perfezione e di presenza del divino. Ma è un richiamo segnato dalla negazione, dall’esilio: nell’assenza dal mondo dei valori (della cui origine divina il tre è il simbolo) la realtà appare invece lacerata, segnata dal contrasto, “spaccata in due”. È una situazione che consente la reazione polemica, l’esaltazione eroica dell’io, la contrappozione profetica al proprio tempo oppure, come accade in alcuni momenti della canzone, il ripiegamento elegiaco; ma che non lascia più spazio al senso di appagamento di quel mondo raffinato e in sé concluso che si esprimeva nelle forme circolari della poesia giovanile di Dante [G17, G18].
1 In Paradiso, XVII, v. 62, i fuorusciti Bianchi verranno definiti «compagnia malvagia e scempia».
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