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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia
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UNITÀ C
La letteratura religiosa
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UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo
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UNITÀ F
La poesia comico-realistica
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ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici
Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
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Così nel mio parlar voglio esser aspro |
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Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda, e veste sua persona d’un dïaspro tal che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda1; ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda né si dilunghi da’ colpi mortali, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme: sì ch’io non so da lei né posso atarme2. Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi né loco che dal suo viso m’asconda; ché, come fior di fronda, così de la mia mente tien la cima3. Cotanto del mio mal par che si prezzi, quanto legno di mar che non lieva onda; e ’l peso che m’affonda è tal che non potrebbe adequar rima4. Ahi angosciosa e dispietata lima che sordamente la mia vita scemi, perché non ti ritemi sì di rodermi il core a scorza a scorza com’io di dire altrui chi ti dà forza5? Ché più mi triema il cor qualora io penso di lei in parte ov’altri li occhi induca, per tema non traluca lo mio penser di fuor sì che si scopra, ch’io non fo de la morte, che ogni senso co li denti d’Amor già mi manduca6: ciò è che ’l pensier bruca la lor vertù, sì che n’allenta l’opra7. E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra con quella spada ond’elli ancise Dido, Amore, a cui io grido merzé chiamando, e umilmente il priego: ed el d’ogni merzé par messo al niego8. Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida la debole mia vita, esto perverso, che disteso a riverso mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco9: allor mi surgon ne la mente strida; e ’l sangue, ch’è per le vene disperso, fuggendo corre verso lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco10. Elli mi fiede sotto il braccio manco sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza: allor dico: «S’elli alza un’altra volta, Morte m’avrà chiuso prima che ’l colpo sia disceso giuso»11. Così vedess’io lui fender per mezzo lo core a la crudele che ’l mio squatra; poi non mi sarebb’atra la morte, ov’io per sua bellezza corro: ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo questa scherana micidiale e latra12. Omè, perché non latra per me, com’io per lei, nel caldo borro? ché tosto griderei: «Io vi soccorro»; e fare’l volentier, sì come quelli che ne’ biondi capelli ch’Amor per consumarmi increspa e dora metterei mano, e piacere’le allora13. S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille14: e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’orso quando scherza; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille15. Ancor ne li occhi, ond’escon le faville che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face; e poi le renderei con amor pace16. Canzon, vattene dritto a quella donna che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola, e dàlle per lo cor d’una saetta, ché bell’onor s’acquista in far vendetta17.
1 Così…ignuda: Voglio essere nella mia espressione poetica (nel mio parlar) così aspro come è nelle azioni (negli atti) questa bella pietra (si tratta probabilmente di un nome convenzionale – un senhal, secondo la tradizione provenzale – che cela la vera identità della donna e sottolinea, al tempo stesso, la sua durezza e insensibilità), la quale racchiude saldamente dentro di sé, come in una pietra (impetra; il verbo forma figura etimologica con il «petra» del v. 2; tra i due versi c’è rima derivata), una sempre (ognora) crescente (maggior) durezza e crudeltà (natura cruda), e <che> riveste il suo corpo (sua persona) con una pietra dura (diaspro), tale che, a causa di tale pietra (per lui, pronome riferito a «diaspro»), o per il fatto che questa donna (ella) fugge (s’arretra), non esce mai dalla faretra (l’astuccio in cui l’arciere tiene le frecce; qui probabilmente si allude alla faretra di Amore) una freccia (saetta) che la colga indifesa (ignuda, metafora). Il verso iniziale vale come dichiarazione di poetica: l’asprezza formale della canzone riflette l’aridità e crudeltà del tema trattato. Il riferimento metaforico al «diaspro» cela probabilmente un’allusione al desiderio sensuale del poeta e al rifiuto della donna: i lapidari del Medioevo attribuivano infatti a questa pietra la virtù di proteggere chi la portasse con sé, a condizione che serbasse la sua castità. 2 ed ella… atarme: e invece (ed) essa uccide (ancide), e non serve proteggersi (ch’om si chiuda) né allontanarsi (si dilunghi: il soggetto è sempre «om», con cui si costruisce la forma impersonale del verbo, sul modello del francese on) dai colpi mortali che, come se avessero le ali, raggiungono chiunque (giungono altrui) e spezzano ogni corazza (ciascun’arme): per cui io non so né posso difendermi (atarme, lett. aiutarmi) da lei. 3 Non trovo… cima: Non trovo scudo che questa donna non mi spezzi, né luogo che mi nasconda alla sua vista (viso, latinismo): poiché, come un fiore <si trova in cima> al ramo (fronda), così essa si trova in cima ai miei pensieri. 4 Cotanto… rima: Mostra di preoccuparsi (par che si prezzi; il verbo “prezzare” significa letteralmente apprezzare, avere stima) della mia sofferenza (mal) tanto quanto una nave (legno, metonimia) <si preoccupa> di un mare calmo, che non solleva (lieva) <neanche un’> onda (la donna, insomma, non si preoccupa affatto della sofferenza del poeta). E il peso che mi abbatte, mi fa sprofondare (affonda, metafora suggerita dalla precedente similitudine della nave) è tale, che nessuna poesia (rima) potrebbe descriverlo adeguatamente (adequar, cioè, etimologicamente, uguagliare). 5 Ahi… forza: Ahimé, lima apportatrice di angoscia e spietata (metafora della passione amorosa), che logori (scemi) in silenzio (sordamente) la mia vita, perché non ti astieni (ritemi) dal rodermi così il cuore a poco a poco (a scorza a scorza: altra metafora concreta, suggerita dall’immagine della lima) come io <mi astengo> dal rivelare agli altri chi ti dà la forza <di logorarmi>? Mentre la passione consuma spietatamente il poeta, questi continua ad obbedire ai canoni dell’amor cortese e non rivela agli altri il nome della donna che alimenta la sua pena (il nome Pietra è infatti fittizio; cfr. n. 1). 6 Ché più… manduca: Poiché il cuore mi trema ogni volta che (qualora) io penso a (di) lei in un luogo (in parte) dove qualcun altro rivolga (induca) lo sguardo, per paura che (per tema non, con costruzione ricalcata su quella latina dei verba timendi) il mio pensiero traspaia (traluca) all’esterno (di fuor) in modo da scoprirsi, con più forza (più, v. 27, riferito a «mi triema») di quella con cui io tremo (il ch’io del v. 31 va ricollegato al «più» del v. 27; fo significa letteralmente faccio) <per paura> della morte, che già mi consuma (manduca, lett. mangia, vocabolo del latino parlato) tutte le facoltà sensoriali (ogni senso) con i denti di Amore. Si riprende il tema, già svolto alla fine della stanza precedente, dell’obbedienza ai canoni dell’amor cortese, che comportano per il poeta l’obbligo di celare agli altri la propria passione. 7 cio è… opra: voglio dire che (cio è che) il pensiero <amoroso> corrode (bruca, altro verbo che rimanda metaforicamente al mondo dell’alimentazione degli animali) <in tutti i miei sensi> la loro facoltà (vertù), sicché la loro operazione (opra) ne risulta menomata. Seguiamo qui quasi letteralmente la parafrasi di Barbi, che considera «pensier» soggetto del verbo «bruca». Contini, seguito dalla maggior parte dei commentatori, intende invece «vertù» come soggetto e interpreta tale termine non come facoltà sensoriale, bensì come potenza dei denti di Amore; sarebbero questi ultimi a consumare l’intelletto allentandone le facoltà. Preferiamo la prima interpretazione perché non costringe a dare al termine «pensier» del v. 33 un significato diverso da quello che esso assume al v. 30. 8 E’ m’ha percosso… al niego: Egli (Amore) mi ha abbattuto con violenza (percosso) a terra, e incombe su di me (stammi sopra) con quella spada con cui (ond’) uccise Didone (Dido), <proprio quell’> Amore al quale io grido invocando (chiamando) pietà (merzé), e che io prego con umiltà; e invece (ed, con valore avversativo) egli si mostra (par) deciso al rifiuto (messo al niego) di ogni pietà. Nel poema di Virgilio Didone, abbandonata da Enea, si uccide con la stessa spada donatale dall’eroe. Oltre a rappresentare l’amore infelice, la figura di Didone era interpretata nel Medioevo come emblema di lussuria; l’identificazione simbolica tra la figura di Didone e quella del poeta sottolinea dunque ulteriormente la natura sensuale del suo amore non ripagato. 9 Egli… stanco: Egli (ancora Amore) alza ripetutamente (ad or ad or) la mano, e minaccia (sfida) la mia debole vita, questo perverso che mi tiene in terra, disteso con la faccia in su (a riverso) e incapace per stanchezza di qualsiasi reazione repentina (d’ogni guizzo stanco). La crudeltà di Amore viene rappresentata attraverso un’immagine corposa, quella di una lotta al termine della quale l’amante sconfitto è riverso a terra e non può divincolarsi. 10 allor… bianco: : allora nell’immaginazione (mente) mi nascono grida (strida); e il sangue, che è distribuito in tutto il corpo (disperso) per mezzo delle vene (per le vene), corre fuggendo verso il cuore che lo chiama; per cui io rimango pallido. Il pallore viene spiegato come effetto del ritirarsi del sangue dalla periferia del corpo (quindi anche dal volto) per confluire verso il cuore. 11 Elli… giuso: Egli mi ferisce sotto il braccio sinistro così forte, che il dolore si ripercuote (rimbalza) nel cuore; allora dico: «Se egli alza di nuovo <la mano>, la Morte mi avrà finito (chiuso) prima che il colpo sia disceso verso il basso (giuso). 12 Così… e latra: Magari (Così) potessi io vederlo (lui, ancora una volta riferito ad Amore) spaccare in due (fender per mezzo) il cuore alla crudele donna che squarta (squatra, con metatesi) il mio; dopo di ciò (poi) non sarebbe per me terribile (atra, lett. oscura, latinismo) la morte, verso la quale (ov<e>) io corro a causa della sua bellezza: perché questa bandita (scherana) assassina (micidiale) e ladra (latra) colpisce (dà) tanto con il (nel) sole quanto con l’ombra (rezzo): cioè colpisce continuamente, senza tregua, spingendo il poeta alla morte. 13 Omè… allora: Ohimé, perché non abbaia (latra; metafora che significa urla per la passione) a causa mia, come faccio io a causa sua, nel baratro infuocato (nel caldo borro e cioè, metaforicamente, nell’inferno della passione)? poiché subito griderei: «Io vi aiuto», e lo farei volentieri, poiché (sì come quelli che, lett. come colui che: ma il verbo che segue è coniugato alla prima persona, non alla terza) metterei le mani nei biondi capelli che Amore, al fine di consumarmi, arriccia (increspa) e dipinge del colore dell’oro (dora), e allora le piacerei. 14 S’io avessi… squille: Se io avessi afferrato le belle trecce, che per me sono trasformate in (fatte) frusta (scudiscio e ferza, dittologia sinonimica), prendendole prima della terza ora <del giorno> (terza; corrisponde all’incirca alle nove del mattino) con esse arriverei fino a tarda sera (passerei vespero e squille, lett. oltrepasserei l’ora del vespro e l’ora delle campane). «Vespero» indica la penultima ora del giorno; «squille» sono invece le campane che venivano suonate durante l’ultima ora, Compieta (dopo le diciotto). 15 e non sarei… di mille: e non mi comporterei con pietà o cortesia, anzi farei come un orso quando scherza; e se Amore con esse (ne, riferito alle trecce) mi (me) frusta (sferza), io mi vendicherei più di mille volte. Si noti il riferimento esplicito ai valori tradizionali della lirica amorosa (segnalati dagli aggettivi «pietoso» e, soprattutto, «cortese»), che vengono qui negati e capovolti. L’orso era considerato «il prototipo della sensualità più bestiale» (Rossi). 16 Ancor… pace: Inoltre (Ancor) guarderei da vicino (presso) e fissamente (fiso) negli occhi <della donna>, da cui (onde) escono le scintille (faville) che mi infiammano il cuore, che io porto <dentro di me> ucciso (anciso, cfr. v. 9), al fine di vendicare la sua fuga da me (lo fuggir che mi face): e poi le renderei con l’amore il perdono (pace). Di nuovo la dissacrazione dei valori della tradizione cortese e stilnovistica: gli occhi della donna, veicolo di un innamoramento solitamente descritto in termini puramente spirituali, vengono guardati da vicino, con chiara allusione a una soddisfazione del desiderio sensuale, presentata come vendetta contro le ripulse della donna. 17 Canzon… vendetta: Canzone, vattene direttamente (dritto) da (a) quella donna che mi ha ferito il cuore e che mi ruba (invola, francesismo) ciò di cui io ho più desiderio (quello ond’io ho più gola, cioè la sua persona, il suo amore), e colpiscila nel cuore con una freccia; poiché si acquista un grande onore facendo vendetta.
Livello metrico Canzone di sei stanze di 13 versi ciascuna, più un congedo di 5 versi. Le stanze, miste di endecasillabi e settenari, si dividono in una fronte di 8 versi (con primo e secondo piede che ripetono lo stesso schema metrico) e una sirma di cinque versi (aperta da un endecasillabo di chiave e divisa in due volte, ciascuna delle quali è costituita da una coppia di versi a rima baciata. Lo schema delle stanze è pertanto ABbC, ABbC; C, Dd, EE. Il congedo ricalca la sirma. La metrica si caratterizza per il ricorrere delle rime baciate, le quali conferiscono al testo un «effetto di insistenza incalzante» (Contini) che ben si adatta alla violenta passionalità del tema e all’asprezza dello stile. Le rime sono per lo più ricercate, difficili, costruite a volte mediante parole rare (per esempio, nella sesta stanza, «ferza» : «terza» : «scherza» : «sferza» ai vv. 67-68, 71-72). Esse presentano sovente suoni aspri e scontri di consonanti: oltre al caso citato – e solo a titolo di esemplificazione – rileviamo nella prima stanza le rime in -etra (vv. 2-3, 6-7), in -aspro (vv. 1, 5), in -arme (vv. 12-13); nella seconda stanza le rime in -ezzi (vv. 14, 18) e in -orza (vv. 25-26). Tra gli artifici in rima si segnalano due rime derivate («petra» : «impetra», vv. 2-3; «ferza» : «sferza», vv. 67 e 72) – che sono anche rime ricche – e una rima equivoca («latra» : «latra», vv. 58-59: il primo vocabolo è un aggettivo, il secondo un verbo). Numerose sono anche le allitterazioni, per lo più con l’effetto di evidenziare i suoni aspri. Il modello stilistico della canzone è dunque lontanissimo dal dolce stile e va piuttosto ricercato nel trobar clus di Arnaut Daniel. Livello lessicale, sintattico e stilistico La dichiarazione di poetica che apre la canzone annuncia il principio, assai importante per la letteratura medievale, secondo cui lo stile deve aderire fedelmente alla materia trattata. La scelta lessicale si adegua a questa dichiarazione: l’asprezza della canzone si deve infatti in primo luogo ai numerosi vocaboli dal suono duro (valorizzati, come si è appena visto, soprattutto in rima). Il lessico, inoltre, non è sottoposto alla rigorosa selezione tipica della fase stilnovistica della poesia dantesca (che tendeva, come sappiamo, alla rarefazione dell’atmosfera poetica e all’allontanamento da ogni troppo diretto richiamo alla concretezza del reale). Troviamo invece termini desunti dai più diversi registri linguistici; incontriamo similitudini e metafore tratte dall’ambito della natura e da quello militare (e questa non sarebbe una novità), ma anche da quello della navigazione (vv. 18-21), da quello delle attività artigianali (si pensi alla «lima» e alla «scorza» dei vv. 22 e 25) e perfino da quello dell’alimentazione, non soltanto umana («manduca, v. 32; «bruca», v. 33). Le ultime due stanze – che, come verificheremo a livello tematico, costituiscono un’unità autonoma rispetto alle prime quattro – introducono altresì metafore di imbestiamento e di violenza fisica, con evidenti connotazioni sadiche. Questa fusione di diversi registri espressivi costituisce un esempio di quello che Gianfranco Contini chiama plurilinguismo dantesco. All’asprezza dei suoni e delle immagini corrisponde una sintassi che raggiunge notevoli livelli di complessità e, talora, di difficoltà (si veda in particolare la terza stanza). Queste ardite novità tematiche e stilistiche sono inserite in una costruzione rigorosamente simmetrica, regolata da una legge binaria come testimoniano, a livello di figure dell’ordine, i numerosi parallelismi e dittologie. Citiamo, per fare un esempio, dalla quinta e dalla sesta stanza: «tanto dà nel sol quanto nel rezzo» (v. 57); «micidiale e latra» (v. 58); «increspa e dora» (v. 64); «scudiscio e ferza» (v. 67); «vespero e squille» (v. 69); «non sarei pietoso né cortese» (v. 70); «presso e fiso» (v. 76). Livello tematico Le prime quattro stanze: la crudeltà della donna La costruzione simmetrica e binaria della canzone può essere riscontrata anche a livello tematico. Il testo può essere diviso in due blocchi: le prime quattro stanze sono dominate dal tema della crudeltà della donna (elemento innovativo rispetto alla tradizione stilnovistica, che spesso rappresentava Amore come crudele, ma manteneva sempre la donna in una sfera più elevata, addirittura soprannaturale). Le ultime due stanze e il congedo vedono invece capovolgersi i ruoli: è il poeta, sia pure solo con l’immaginazione, a infierire con crudeltà sulla donna, applicando contro di lei una sorta di legge del contrappasso1. Entrambi i blocchi iniziano con la stessa parola: «così» (vv. 1 e 53). Le prime quattro stanze, oltre che dal tema di fondo, sono tra loro legate da un meccanismo simile a quello provenzale delle coblas capfinidas. Le transizioni tra la fine di ogni stanza e l’inizio della successiva vengono talora sottolineate dal ripetersi di parole chiave; ma in ogni caso l’effetto di concatenazione è sempre garantito dal ritorno puntuale degli stessi motivi. Analizziamoli singolarmente: 1) negli ultimi due versi della prima stanza si sottolinea l’impossibilità di sottrarsi ai colpi mortali della donna (che «giungono altrui e spezzan ciascun’arme», v. 12) e si mette in evidenza la vulnerabilità del poeta («sì ch’io non so da lei né posso atarme», v. 13); il primo verso della seconda stanza riprende puntualmente il tema, ripetendo il verbo “spezzare” e sostituendo «arme» con il quasi-sinonimo «scudo»; 2) alla fine della seconda stanza il poeta proclama la sua fedeltà ai canoni dell’amor cortese, testimoniata dal silenzio che egli continua a mantenere sull’identità della donna. All’inizio della stanza successiva egli dichiara il proprio timore di tradire il proprio dovere di amante e di lasciar trasparire all’esterno i suoi sentimenti. Anche stavolta la concatenazione è accompagnata da un richiamo testuale: «rodermi il core» (v. 25); «mi triema il cor» (v. 27); 3) la conclusione della terza stanza e l’inizio della quarta presentano sostanzialmente la stessa scena: l’Amore, che ha vinto il poeta in un violento corpo a corpo, incombe su di lui costringendolo a terra e minacciandolo di morte. Le ultime due stanze e il congedo: la crudeltà del poeta La quinta stanza rompe però questo meccanismo di concatenazione, introducendone uno di violenta contrapposizione: Amore, fin qui rappresentato come torturatore del poeta, vi appare – nel desiderio di quest’ultimo – come suo vendicatore; il ruolo di vittima viene da questo momento attribuito alla donna, sebbene la conclusione delle due stanze sottenda la convinzione che questo ruolo possa in realtà esserle gradito (vv. 65 e 78)2. Ma sono soprattutto i richiami alla tradizione stilnovistica e cortese ad apparire, nelle due stanze finali, violentemente capovolti. Mentre in precedenza, come si è visto, il poeta aveva proclamato la propria fedeltà agli ideali di questa tradizione (vv. 22-32), adesso sembra compiacersi di dissacrarli. Egli immagina di mettere brutalmente le mani nelle trecce bionde della donna e, addirittura, osa guardare «presso e fiso» quegli occhi attraverso i quali, come la tradizione insegna, la donna ha ferito il suo cuore. Si tratta di una esplicita punizione che viene inflitta alla «bella petra» («per vendicar lo fuggir che mi face», v. 77); ma si tratta soprattutto di un capovolgimento dei più comuni topoi dello stilnovismo. L’evoluzione della poetica dantesca Per quanto sia difficile una datazione precisa del testo (i più lo considerano di poco successivo alla Vita nuova), non c’è dubbio che questa canzone – insieme alle altre rime comunemente note come «petrose» – appartenga a un momento dell’opera dantesca in cui lo stilnovismo appare superato. Non è necessario supporre una precisa esperienza biografica dietro la scelta del tema e dello stile aspro: potrebbe trattarsi di una semplice esercitazione stilistica, condotta come si è detto sul modello del trobar clus di Arnaut Daniel. Qualcuno ha anche letto nella donna crudele un’allegoria del sapere filosofico, che si rifiuta implacabilmente alla comprensione di Dante. Ma, quale che sia la ragione contingente della nascita del testo, ciò che è certo è che esso esprime un rapporto con la realtà molto lontano dalla dimensione estatica raggiunta con la Vita nuova. Se anche si trattasse solo di un esercizio stilistico, Dante mostra insomma di avere intrapreso un cammino «verso la lotta, la violenza, l’urto con le cose» (Mineo), senza il quale non sarebbe concepibile un’opera come la Commedia. La Vita nuova si chiudeva, infatti, sulla visione di Beatrice assunta al cielo e sull’intenzione di cantarne le lodi in un’opera mai prima tentata. Ma al cielo Empireo Dante non poteva ascendere senza aver prima attraversato fino in fondo la realtà più bassa e degradata, e senza avere elaborato un linguaggio adeguato alla descrizione di essa; è in questo senso, nella loro natura di ardito esperimento formale, che le rime petrose rappresentano un passaggio fondamentale nella maturazione della poesia dantesca, senza il quale non sarebbero pensabili molti canti dell’Inferno3. L’impostazione binaria e drammatica Che la canzone annunci l’inizio di un incontro-scontro tra Dante da una parte, e la realtà del proprio tempo dall’altra, sembra del resto confermato dalla struttura binaria su cui essa è costruita: struttura che, a livello tematico, si esprime nel drammatico conflitto tra il poeta e la donna; e che è sottolineata, a livello stilistico e formale, dal rapporto oppositivo tra i due blocchi (stanze 1-4 da una parte, stanze 5-6 dall’altra) e dalle numerose figure dell’ordine di tipo binario che si sono segnalate nell’analisi stilistica. Il testo segna insomma il passaggio dalle forme circolari delle rime precedenti [G17, G18], raffigurazione di un mondo in sé concluso e privo di rapporti con la realtà storica del proprio tempo, a una forma drammatica, che segnerà altri testi danteschi successivi alla Vita nuova (come la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute [G20]).
1 Il contrappasso sarà uno dei meccanismi fondamentali dell’Inferno dantesco: i dannati ricevono infatti una pena che ha un rapporto diretto con la loro colpa. Tradizionalmente si distingue un contrappasso per analogia (per esempio i lussuriosi sono trascinati in eterno dalla bufera come in vita furono trascinati dalla passione) da un contrappasso per contrasto (come nel caso degli ignavi, che sono costretti a correre dietro un’insegna che si muove con grande rapidità, mentre in vita non vollero mai seguire un ideale o prendere una posizione determinata). 2 A ben vedere c’è una parola che segna la transizione tra i due blocchi, analogamente a quanto avviene tra le singole stanze del primo blocco: si tratta di «morte», termine presente sia alla fine della quarta stanza (v. 51) che nella prima parte della quinta (v. 56). Tuttavia, diversamente da quanto avveniva all’interno delle prime quattro stanze, tra le due situazioni non c’è analogia ma contrasto: alla fine della quarta stanza il poeta dichiara di temere la morte; all’inizio della quinta afferma che – a condizione di riuscire a vendicarsi della donna – essa non gli apparirà più «atra». 3 L’incipit di questa canzone sarà riecheggiato dall’analoga dichiarazione di poetica posta all’inizio del canto XXXII dell’Inferno, in cui Dante si appresta a descrivere il lago gelato di Cocito: «S’io avessi le rime aspre e chiocce, / come si converrebbe al tristo buco / sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce, / io premerei di mio concetto il suco / più pienamente; ma perch’io non l’abbo / non sanza tema a dicer mi conduco» [Se io possedessi le rime aspre e stridenti (chiocce), come sarebbe necessario <per descrivere> il tristo pozzo <di Cocito> sul quale gravitano (pontan) tutte le altre rocce, io esprimerei più compiutamente il succo di ciò che ho concepito dentro di me (mio concetto); ma, poiché non le posseggo (abbo), mi accingo (conduco) a parlare non senza timore (tema)]; Inferno, XXXII, vv. 1-6.
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