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Donne ch’avete intelletto d’amore, i’ vo’ con voi de la mia donna dire, non perch’io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente1. Io dico che2 pensando il suo valore, Amor sì dolce mi si fa sentire, che s’io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente3. E4 io non vo’ parlar sì altamente, ch’io divenisse per temenza vile5; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente6, donne e donzelle7 amorose, con vui8, ché non è cosa da parlarne altrui9. Angelo clama in divino intelletto10 e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l’atto che procede d’un’anima che ’nfin qua su risplende11». Lo cielo, che non have altro difetto che d’aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede12. Sola Pietà nostra parte difende, ché parla Dio, che di madonna intende13: «Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto me piace là ’v’è alcun che perder lei s’attende, e che dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati»14. Madonna è disiata in sommo cielo: or voi di sua virtù farvi savere15. Dico16, qual vuol gentil donna parere vada con lei17, che quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e pere18; e qual soffrisse di starla a vedere diverria nobil cosa, o si morria19. E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien, ciò che li dona, in salute, e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia20. Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l’ha parlato21. Dice di lei Amor: «Cosa mortale come esser pò sì adorna e sì pura22?» Poi la reguarda23, e fra se stesso giura che Dio ne ’ntenda di far cosa nova24. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben pò far natura; per essemplo di lei bieltà si prova25. De li occhi suoi, come ch’ella li mova26, escono spirti d’amore inflammati27, che feron li occhi a qual che allor la guati28, e passan sì che ’l cor ciascun retrova: voi le vedete Amor pinto nel viso, là ’ve non pote alcun mirarla fiso29. Canzone, io so che tu girai parlando30 a donne assai, quand’io t’avrò avanzata31. Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata per figliuola d’Amor giovane e piana, che là ’ve giugni tu diche pregando32: «Insegnatemi gir, ch’io son mandata a quella di cui laude so’ adornata33». E se non vuoli andar sì come vana, non restare ove sia gente villana: ingegnati, se puoi, d’esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana34. Tu troverai Amor con esso lei; raccomandami a lui come tu dei35. 1 Donne… mente: Donne che avete conoscenza (intelletto) dell’amore, io voglio (vo’) parlare a (con) voi della mia donna, non perché io creda di poter esprimere compiutamente (finire) la sua lode (laude), ma <voglio> parlare per sfogare l’immaginazione (mente). Il primo piede (vv. 1-4) individua il destinatario della canzone (le donne che hanno conoscenza, in quanto ne hanno esperienza, dell’amore) e la materia della poesia, che vuole esclusivamente concentrarsi sulla «laude» di Beatrice. Tale lode non potrà essere adeguata all’altezza del soggetto, ma al poeta si impone lo stesso il bisogno di uno sfogo. «Mente» è termine tecnico della poesia stilnovistica; indica quella parte dell’anima sensitiva in cui risiedono la memoria e l’immaginazione, e in cui si insedia stabilmente l’immagine (phantasma) della donna amata. 2 Io dico che: è formula del linguaggio della scolastica, e «introduce la puntuale illustrazione di una precedente affermazione generale» (Segre-Ossola). 3 pensando… gente: pensando alla sua virtù (pensando il suo valore, con costruzione transitiva del verbo “pensare”), Amore mi si fa sentire con tanta dolcezza che, se in quel momento (allora) io non perdessi il coraggio (ardire), attraverso la poesia (parlando) farei innamorare tutti (la gente). I vv. 7-8 enunciano un’ipotesi impossibile: la parola poetica non può infatti mai giungere all’altezza del «valore» di Beatrice. 4 E: D’altronde, con funzione limitativa-avversativa rispetto all’ipotesi impossibile enunciata nei versi immediatamente precedenti; la poesia della lode può essere realizzata solo se rinuncia fin dall’inizio alla compiutezza della rappresentazione. 5 io non vo’… vile: io non voglio parlare in modo così elevato (sì altamente), da <correre il rischio di> divenire privo di fiducia nelle mie capacità (vile) per paura (temenza) <dell’altezza del soggetto>. 6 ma tratterò… leggeramente: ma parlerò della sua nobile condizione (stato gentile, con riferimento alla nobiltà dell’animo) in modo facile e superficiale (leggeramente) se comparato alle sue qualità (a respetto di lei). 7 donne e donzelle: donne sposate e nubili. 9 ché… altrui: il verso sottolinea, in obbedienza alla tradizione stilnovistica, l’esclusività del pubblico cui questa poesia si rivolge. 10 Angelo… intelletto: Un angelo si lamenta (clama, latinismo) <comunicando> con l’intelletto di Dio. Il dialogo tra gli angeli e Dio è puramente intellettuale e non comporta l’uso della voce. 11 Sire… risplende: O Signore (Sire), nel mondo si vede un miracolo (maraviglia) in atto, che deriva (procede) da un’anima che risplende fino a quassù in cielo (perifrasi per indicare Beatrice). Il miracolo che «procede» da Beatrice consiste nell’elevazione spirituale che essa dona agli uomini (meglio descritta nella successiva stanza). Per il significato dell’espressione «nell’atto» si rimanda all’analisi del testo. 12 Lo cielo… merzede: Il cielo, che non ha (have) altra mancanza (difetto, latinismo) che quella di vedere Beatrice, la chiede al suo signore, e ogni santo invoca ad alta voce (grida) la grazia (merzede) riguardo a lei (ne); i santi insomma chiedono a Dio di chiamare in cielo Beatrice. La rappresentazione iperbolica di un paradiso che appare imperfetto per l’assenza della donna è presente nella tradizione provenzale ed è ripreso in Italia da Jacopo da Lentini [D3]. 13 Sola Pietà… intende: Solo la Misericordia divina (Pietà) difende la nostra causa (la causa degli uomini), in quanto (che) parla Dio, che allude (intende) a Beatrice (di madonna). «Pietà», più che una personificazione, sembra qui un attributo che indica metonimicamente Dio stesso. 14 Diletti… beati: O miei amati (Diletti, riferito agli angeli e ai santi), adesso tollerate con pazienza (sofferite in pace) che l’oggetto della vostra speranza (vostra spene, metonimia) resti per tutto il tempo da me stabilito (quanto me piace) in quel luogo in cui c’è qualcuno che teme (s’attende) di perderla (perifrasi per indicare la terra), e che potrà dire all’inferno: “O dannati (mal nati), io vidi quella creatura che i beati potevano solo sperare di vedere (la speranza de’ beati). L’accostamento antitetico tra paradiso e inferno (sottolineato dall’antitesi in rima baciata «mal nati» : «beati») è un paradosso puramente iperbolico: come l’intera canzone dimostra, Dante non vuole contrapporre affatto l’amore per la donna all’amore per Dio (come invece faceva la tradizione cortese, per esempio il già citato Jacopo da Lentini [D3]). È possibile, ma non è necessario, che si identifichi in Dante l’uomo destinato a parlare di Beatrice all’inferno. In ogni caso appare eccessivo vedere in questi versi un riferimento ante litteram alla Divina Commedia. 15 Madonna…savere: Beatrice (Madonna, dal latino mea domina) è desiderata nell’alto dei cieli; dunque (or, congiunzione testuale che sottolinea la consequenzialità logica tra l’affermazione precedente e quelle che seguono) voglio (voi) farvi sapere (savere) del suo effetto salvifico (virtù). Il primo verso riassume la stanza precedente, il secondo introduce il tema successivo. Si notino, nel secondo verso, le allitterazioni in v e in r («or voi di sua virtù farvi savere»). 17 qual… con lei: qualunque donna (qual) voglia mostrare evidentemente (parere non indica una pura apparenza, ma l’aperto manifestarsi di una realtà) di essere una donna gentile, si accompagni con lei. La virtù di Beatrice è destinata a comunicarsi a chiunque le stia a fianco. 18 che quando va… pere: dato che (che), quando <Beatrice> procede per la strada, Amore agghiaccia i cuori non gentili (villani), sicché ogni loro pensiero <malvagio> si raggela e muore. L’elencazione degli effetti miracolosi del passaggio di Beatrice ricalca il sonetto di Guinizzelli Io voglio del ver la mia donna laudare [E2]; i vv. 33-36 della canzone dantesca, in particolare, sono un approfondimento del concetto espresso al v. 12 del sonetto guinizzelliano («e no•lle pò apressare om che sia vile»). 19 e qual… si morria: e chiunque (qual) <non essendo gentile> avesse forza (soffrisse) di continuare a guardarla, diventerebbe (diverrìa, forma siciliana del condizionale) una creatura elevata (nobil cosa) o morirebbe (morria, altro condizionale siciliano). 20 E quando… oblia: E quando <Beatrice> trova qualcuno che sia degno di vederla, costui (quei) conosce per esperienza (prova) l’effetto miracoloso (virtute) di lei, perché tutto ciò che <Beatrice> gli dona (li dona) si trasforma per lui (li avvien) in bene spirituale (salute), e tanto lo rende umile (l’umilia, con riferimento alla virtù dell’umiltà e quindi senza alcuna connotazione negativa) che <costui> dimentica ogni offesa. L’amore per Beatrice induce dunque la carità cristiana e il perdono delle offese. Ancora una volta Dante riprende e approfondisce la tematica del sonetto citato di Guinizzelli («ch’abassa orgoglio a cui dona salute» [E2, v. 10]). 21 Ancor… parlato: Inoltre Dio le ha concesso (dato), per maggior grazia, che non possa essere dannato (mal finir) chi ha parlato con lei. È un’ulteriore ripresa di un concetto espresso da Guinizzelli («ancor ve dirò ch’ha maggior vertute: / null’om po’ mal pensar finché la vede» [E2, vv. 13-14]), che però qui è notevolmente rafforzato: in Dante infatti la virtù della donna non si limita a purificare temporaneamente i pensieri di chi la vede, ma innalza talmente chi ha occasione di parlarle da salvare la sua anima dalla dannazione. 22 Cosa… pura?: Una creatura (cosa) mortale come può essere così bella (adorna) e moralmente perfetta (pura)? La domanda è retorica, perché Beatrice non è presentata nella canzone come «cosa mortale», ma come creatura angelica. 23 la reguarda: la guarda intensamente, la contempla. 24 e fra… nova: e conclude con sicurezza (giura) fra sé che Dio intenda fare di lei una creatura straordinaria. È significativo il fatto che Amore, che tradizionalmente appare come signore incontrastato del cuore dell’amante, debba in questa canzone arretrare davanti al misterioso disegno di Dio; è un’altra prova della svolta rappresentata da questi versi nell’opera dantesca. 25 Color… si prova: Ha <carnagione> quasi del colore della perla (cioè bianchissima), nella forma che è conveniente a una donna, non fuori misura; essa è quanto di più perfetto può fare la natura; usando lei come paragone (per essemplo di lei) si può conoscere sensibilmente (si prova) la bellezza (bieltà, francesismo). Il riferimento alla donna come manifestazione sensibile dell’idea della bellezza era gia in Cavalcanti, Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira: «e la beltate per sua dea la mostra» [E7, v. 11]. 26 come ch’ella li mova: appena ella li muova. 27 spirti d’amore inflammati: è la consueta rappresentazione degli spiriti d’amore che, partendo dagli occhi della donna, passano attraverso gli occhi del poeta per penetrare al cuore (d’obbligo il riferimento a Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste ’l core [E6]). Il participio «inflammati» attribuisce a questi spiriti una luminosità che dà ragione dell’impossibilità di guardare la donna negli occhi. 28 feron… guati: feriscono gli occhi a chiunque (qual che) in quel momento (allor) la guardi (guati); la connotazione dolorosa del verbo “ferire” può spiegarsi con il fatto che gli spiriti d’amore sono «inflammati». 29 voi… fiso: voi le vedete Amore dipinto negli occhi (viso, latinismo), là dove nessuno può guardarla fissamente. 30 girai parlando: parlerai; la costruzione perifrastica con il gerundio è frequente nella poesia del Duecento. 31 avanzata: mandata in giro, pubblicata. 32 Or… pregando: Ora ti ammonisco, poiché io ti ho educata (allevata) come figliola di Amore giovane e comprensibile (piana), che (congiunzione che dipende da «ammonisco»), dove giungi, tu dica (diche) in forma di preghiera. La canzone stessa è metaforicamente indicata come “figlia” di Amore, in quanto espressione di tale sentimento. 33 Insegnatemi… adornata: Indicatemi il cammino (Insegnatemi gir, lett. Insegnatemi ad andare), perché io sono indirizzata a quella donna delle cui lodi io sono abbellita (perifrasi per indicare Beatrice). La canzone dunque ha come destinatario immediato le donne, ma per loro tramite deve raggiungere Beatrice. 34 E se… tostana: E se non vuoi (vuoli) viaggiare invano (andar sì come vana), non fermarti (non restare) in mezzo a gente villana; cerca (ingegnati), se puoi, di rivelare il tuo significato (esser palese) soltanto a donne o a uomini cortesi (omo cortese, al singolare per sineddoche), che ti porteranno (merranno, forma sincopata per “meneranno”) là per la via più breve (tostana, provenzalismo). 35 Tu troverai… tu dei: Tu troverai Amore insieme con lei (con esso lei: il primo dei due pronomi, derivato dal dimostrativo latino ipse, ha funzione rafforzativa); raccomandami a lui come tu devi (dei). Livello metrico Canzone composta da cinque stanze di endecasillabi. Lo schema è ABBC, ABBC; CDD, CEE. Ogni stanza è di 14 versi, dunque di lunghezza uguale a quella di un sonetto. Ma la metrica della stanza sembra ricalcare quella di un sonetto solo nei primi tre versi; infatti dopo la serie ABB, che crea l’attesa per il classico schema a rima incrociata, interviene una rima in C che chiude in maniera asimmetrica il primo piede. La simmetria è ripristinata solo dopo il secondo piede, che ripete per intero la sequenza ABBC. L’inizio della sirma è ancora in C, a sottolineare lo stretto legame tra le sue parti della stanza con un nuovo effetto di rima baciata. Tutto lo schema della sirma del resto (CDD, CEE) valorizza le rime baciate, tra le quali assumono particolare rilevanza quelle in posizione finale; nelle prime due stanze la rima conclusiva ha anche la funzione di evidenziare l’antitesi («vui» : «altrui», vv. 13-14, e soprattutto «mal nati» : «beati», vv. 27-28). Livello lessicale, sintattico e stilistico Lessico filosofico e sintassi raziocinante Il primo elemento significativo, sul piano lessicale, è la presenza di termini filosofici che si affiancano a quelli della tradizionale lirica d’amore. Termini come «intelletto» (riferito alle donne, ma anche a Dio) o come «atto» hanno qui il preciso significato che dà loro la filosofia aristotelica. Vengono utilizzate anche formule tipicamente scolastiche («dico che», v. 5), che sottolineano la rigorosa consequenzialità logica del discorso poetico. Tale particolarità lessicale è il segno del notevole impegno intellettuale di questa canzone, che inaugura la nuova poetica dantesca della lode e che richiama, a tratti, il modello guinizzelliano – anch’esso profondamente nutrito di filosofia aristotelica – di Al cor gentil rempaira sempre amore [E1]. Il richiamo a Guinizzelli non si limita all’uso di un linguaggio filosofico, ma riguarda anche i termini che chiariscono la natura del pubblico cui la canzone si rivolge; ciò è particolarmente evidente nella prima e nell’ultima stanza, in cui si circoscrive con chiarezza il destinatario della canzone alle donne (ma anche agli uomini) “gentili”, ribadendo l’esclusione di chiunque sia “villano”. A livello sintattico, l’impostazione raziocinante del discorso si riflette in periodi che fanno ampio uso di subordinate, molte delle quali (causali, finali, consecutive) servono a mettere in evidenza i nessi logici del discorso. I momenti oratori Il testo presenta però diversi momenti in cui alla dimostrazione subentra il discorso diretto e in qualche caso il dialogo, con l’effetto di un dinamismo quasi teatrale; nella seconda stanza si contrappongono le parole dell’angelo (una sorta di denuncia dell’imperfezione del cielo senza Beatrice) e la risposta di Dio (che assume misericordiosamente la difesa degli uomini); la quarta stanza si apre con la domanda retorica di Amore; nel congedo il poeta fa parlare la stessa canzone. In tali momenti “oratori” prevale la perifrasi, ottenuta sovente facendo ricorso a subordinate relative (ad es. ai vv. 26-27). I verba dicendi e la nuova funzione della parola Un altro elemento notevole sul piano lessicale è la frequenza dei verba dicendi. Nella sola stanza proemiale ne incontriamo sette occorrenze: «dire» (v. 2), «ragionar» (v. 4), «dico» (v. 5), «parlando» (v. 8), «parlar» (v. 9), «tratterò» (v. 11), «parlarne» (v. 14). La seconda stanza ne presenta cinque: «clama» (v. 15), «dice» (v. 16), «grida» (v. 21), «parla» (v. 23), «dirà» (v. 27). Ma questi verbi ricorrono anche nelle stanze successive: «dico» (v. 31), «dice» (v. 43), «giura» (45), «parlando» (v. 57), «diche» (v. 61). Tale insistenza su verbi afferenti allo stesso campo semantico non è immotivata. Nel capitolo precedente il poeta-amante aveva dichiarato che il «fine» del suo amore non risiedeva più nella ricompensa costituita dal saluto di Beatrice, bensì «in quelle parole che lodano» la donna [G7]. La parola dunque, da semplice mezzo di espressione del sentimento o della pena, diventa nella nuova poetica lo scopo stesso della poesia. Da qui, sul piano lessicale, la centralità dei verba dicendi e, a livello tematico, la esplicita e problematica riflessione sulla possibilità di giungere con la parola poetica a una compiuta lode della donna. Livello tematico Questa canzone rappresenta una svolta nell’opera di Dante e segna il passaggio verso una nuova concezione dell’amore, che d’ora in poi tenderà «alla perfezione dell’amore celeste» (Singleton). Lo stesso Dante, nel Purgatorio (XXIV, vv. 50-57), cita questa canzone come il testo che rinnova la tradizione poetica italiana. Nella prosa che introduce questa canzone il narratore ne attribuisce la nascita a una ispirazione misteriosa («la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa»), la cui natura divina appare evidente [G8a]. È opportuno, in considerazione dell’importanza di questo testo, procedere a un’analisi dettagliata delle singole stanze. Noteremo subito che la prima di esse ha funzione proemiale, mentre l’ultima, secondo tradizione, fa da congedo. Le tre stanze centrali contengono invece la lode di Beatrice e sono disposte in un significativo ordine discendente: dal paradiso (seconda stanza) al mondo terreno (quarta stanza) passando attraverso Beatrice, vista come figura di mediazione tra cielo e terra (terza stanza). All’inizio di ciascuna di queste tre stanze centrali si incontrano altrettante parole chiave della cultura stilnovistica: «Angelo» (v. 15), «Madonna» (v. 29), «Amor» (v. 43). La dispositio delle stanze, insomma, suggerisce una delle idee più feconde della nuova poesia dantesca: Beatrice appare come una figura intermedia tra cielo e terra, in grado di consentire il superamento di quel conflitto tra amore e religione che era rimasto irrisolto nelle precedenti opere della nostra tradizione poetica. La prima stanza e il paradosso della parola La stanza proemiale individua in primo luogo il destinatario della canzone: si tratta – come si è già visto dalla prosa – della ristretta cerchia delle donne che costituiscono quell’aristocrazia dello spirito alla quale, fin da Guinizzelli, guardano i poeti della civiltà comunale. Il presupposto per far parte di tale aristocrazia consiste nel possedere esperienza e conoscenza («intelletto») dell’amore. In secondo luogo viene qui evidenziata la materia che il poeta si propone di trattare; al v. 2, «io vo’ con voi de la mia donna dire», Dante dichiara la sua volontà di pronunciare le lodi della donna. Dante vuole mettere in atto quella svolta che era stata preannunciata nel precedente capitolo [G7]. Ma proprio mentre affronta finalmente la lode di Beatrice, egli pone un problema di grande importanza: quello dell’estrema difficoltà di esprimere compiutamente con la parola il pregio di una creatura così perfetta. Il secondo verso della canzone – particolarmente pregnante sia dal punto di vista semantico1 che da quello fonico2 – richiama da vicino l’incipit del sonetto di Guido Guinizzelli Io voglio del ver la mia donna laudare. Ma non c’è, in Dante, la baldanza con cui il primo Guido proclamava la sua fiducia nella potenza della parola poetica [E2]. Al contrario, Dante chiarisce subito che la propria lode sarà solo parzialmente adeguata («non perch’io creda sua laude finire», v. 3) e precisa ulteriormente, mediante l’enunciazione di un’ipotesi impossibile («s’io allora non perdessi ardire / farei parlando innamorar la gente»), che le sue parole non potranno riflettere appieno il «valore» della donna. Alla fine della stanza, ancora, il poeta ribadisce che scriverà «leggeramente» in rapporto all’eccellenza della donna. Non si tratta solo di una professione di modestia, che sarebbe tema tradizionale. Il poeta ci sta avvertendo che, data la natura angelica di Beatrice, la poesia della lode si pone come attività ab origine condannata all’incompiutezza, alla resa – almeno parziale – di fronte all’indicibile (e si può qui agevolmente misurare la distanza dal modello di Guinizzelli, che trovava invece in uno strumento razionale come la similitudine il mezzo per esprimere compiutamente le lodi della donna). La sottolineatura dell’inadeguatezza della parola poetica a proferire in modo compiuto la lode della donna accosta nuovamente Dante a Cavalcanti (Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira). Ma in Cavalcanti l’ineffabilità della bellezza femminile si spiegava all’interno della concezione averroistica dell’amore [E7]. Per Dante invece l’inadeguatezza della parola si deve all’aura propriamente religiosa che avvolge Beatrice, creatura per mezzo della quale Dio opera il suo miracolo sugli animi umani. La situazione in cui si trova il poeta è dunque paradossale: da un lato egli è consapevole dell’impossibilità di dire; dall’altro (e contemporaneamente) si trova nell’impossibilità di non dire: non solo per il bisogno di «isfogar la mente» richiamato al v. 4, ma soprattutto per il fatto che – come chiarisce la prosa precedente [G8a] – la sua lingua ha parlato «quasi per se stessa mossa», non cioè in seguito a un suo atto di volontà, ma a causa di un’ispirazione che si sottrae al suo controllo. Questo paradosso della parola, sospesa tra bisogno e impossibilità di dire, non è nuovo nella nostra letteratura. Ed è significativo il fatto che esso trovi precedenti importanti in un ambito diverso da quello della poesia d’amore profana: ad esempio nella riflessione di S. Agostino su Dio («Cosa si può dire parlando di te? Eppure guai a quelli che non parlano di te, perché parlano e sono muti» [A1]) o in un testo poetico venato di misticismo come O iubelo del core di Jacopone da Todi (in cui, a seguito dell’accensione del cuore, «la lengua barbaglia / e non sa che parlare», e però al tempo stesso «dentro non pò celare / tant’è granne ’l dolzore» [C4]). Il paradosso della parola, dunque, avvicina la condizione del poeta a quella del mistico. L’amore per Beatrice si manifesta ora in forme simili all’amore per Dio. La seconda stanza: significato filosofico del prologo in cielo Con la seconda stanza inizia la vera e propria lode di Beatrice. Si parte da una rappresentazione del Paradiso, la cui beatitudine appare imperfetta per l’assenza della donna. Il tema ha precedenti tradizionali: basti pensare al sonetto Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire di Jacopo da Lentini [D3], o all’ultima stanza della guinizzelliana Al cor gentil rempaira sempre amore [C1]. Ma mentre la prospettiva di Jacopo da Lentini era tutta interna al conflitto tra amore e religione, e quella di Guinizzelli lo aggirava galantemente senza affrontarne la sostanza, nella canzone dantesca la questione viene capovolta: il Paradiso non è il punto d’arrivo di un processo di raffinamento dell’amore profano, bensì il punto di partenza da cui si deducono le virtù salvifiche di Beatrice. In questa stanza compaiono termini di esplicito significato religioso e filosofico. Ci riferiamo in particolare ai vv. 17-18: «maraviglia ne l’atto che procede / d’un’anima che ’nfin qua su risplende». Ci sembra legittimo identificare la «meraviglia», ossia il miracolo, con il dono dell’elevazione spirituale e morale che la vista della donna è in grado di elargire a quegli uomini il cui animo “gentile” sia adatto a riceverlo. Tale miracolo è in «atto»: è questo un termine che appartiene al linguaggio aristotelico, e che si oppone a “potenza”. Il termine “atto” indica la perfezione, il compimento, la realizzazione effettiva del miracolo. Poiché tale attualità del miracolo «procede» da Beatrice, ne risulta che la donna è, in termini filosofici, la causa efficiente del miracolo stesso3. Già Guinizzelli ci aveva avvertito che l’amore è nel cuor gentile allo stato potenziale, e che la donna è la causa efficiente che lo fa passare in atto. Ma Dante, identificando i sentimenti suscitati da Beatrice con il miracolo, spiritualizza l’amore fino a farlo coincidere con la carità e finisce, quindi, per superare il conflitto tra amore e religione. L’iperbolica e paradossale contrapposizione tra paradiso e inferno presente in questa stanza non deve ingannare: essa riflette un tema tradizionale e non comporta alcun contrasto sostanziale tra l’amore per Beatrice e quello per Dio. La terza stanza e il recupero del modello di Gunizzelli La terza stanza si apre con un verso («Madonna è disiata in sommo cielo») che sintetizza il tema della stanza precedente, gettando una nuova luce su quanto segue. La stanza elenca gli effetti salvifici del passaggio dalla donna, seguendo assai da vicino il modello guinizzelliano di Io voglio del ver la mia donna laudare [E2]. E in effetti, da questo momento della poesia dantesca, si potrà registrare un avvicinamento a Guinizzelli e una riduzione dell’influenza di Cavalcanti (che pure non scompare del tutto). Ma Dante non si limita a una semplice ripresa dei temi del primo Guido. I molti motivi che egli desume dalla sua opera vengono infatti inseriti in una solida cornice filosofica e teologica. Il sentimento suscitato da Beatrice non è più l’amore profano, che Dante ha ormai superato. Essa infatti possiede virtù morali che elevano chiunque la incontri, impedendogli di concepire pensieri malvagi, donandogli «salute» e facendo nascere in lui la carità; ne consegue l’impossibilità, per chi le ha parlato, di essere dannato all’inferno. Superando l’amore inteso come desiderio di possesso – sia pure nella forma simbolica e sublimata del saluto –, passando dall’amore infelice e causa di sofferenza ad un amore disinteressato e spirituale che trova la sua soddisfazione nella lode della donna, Dante giunge alla nuova sintesi tra tradizione cortese ed etica cristiana. Nell’ultima stanza della canzone di Guinizzelli [E1] Dio giudicava «vano» l’amore per la donna; in Dante invece amore e religione non sono più in contraddizione; il primo, anzi, innalza l’uomo capace di comprenderne la vera essenza facendo nascere in lui le più pure virtù cristiane. La quarta stanza e il nuovo approccio al modello di Cavalcanti Completando il percorso discendente dal cielo alla terra, il poeta introduce ora il discorso diretto di Amore, stupito che una creatura mortale possa essere così «adorna» e «pura». La domanda è retorica, poiché alla luce di quanto detto prima Beatrice non può semplicemente definirsi «cosa mortale»; e del resto Amore (che nella cultura cortese non perde mai i suoi tratti di divinità dispotica che gli derivano dalla tradizione greco-latina) deve arretrare in questa canzone davanti al Dio cristiano, il quale intende far «cosa nuova» della donna. La quarta stanza contiene poi una descrizione stilizzata di Beatrice; particolare importanza hanno gli occhi, da cui escono gli spiriti d’amore che, attraverso gli occhi dell’amante, penetrano poi nel suo cuore. Evidentissimo è il modello cavalcantiano di Voi che per li occhi mi passaste’l core [E6]); così come è cavalcantiana (ma stavolta esemplata su modello Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira [E7]) l’affermazione per cui la donna sarebbe la manifestazione sensibile dell’idea di bellezza. Ma se la terminologia e i modelli sono quelli del secondo Guido, occorre dire che da essi è stata eliminata ogni nota drammatica e tormentosa; tant’è vero che, più che su quanto avviene dentro il cuore dell’amante, la stanza si concentra sull’immagine della donna, in realtà impossibile da raffigurare adeguatamente per via della sua soprannaturale luminosità: nessuno può infatti neanche sostenere il suo sguardo, dal quale escono «spirti d’amore inflammati» (v. 52). La quinta stanza: un congedo tradizionale Più tradizionale appare la stanza di congedo, costruita su un’apostrofe alla canzone stessa che, evitando ogni contatto con la «gente villana», dovrà mettersi in cammino per raggiungere il suo destinatario (le donne dotate di «intelletto d’amore» o anche qualche «omo cortese»). Si tratta del tradizionale envoi (invio del messaggio), motivo tipico della lirica cortese. Le donne non sono però il destinatario ultimo della poesia: tramite esse la canzone dovrà infatti raggiungere la stessa Beatrice. Dalle altezze del prologo in cielo Dante è quindi ridisceso ai consueti motivi della tradizione della lirica amorosa. Ciò non stupisce, in quanto la nuova poetica di Dante affonda le sue radici in questa tradizione. La novità consiste nella originale interpretazione che Dante riesce a darne, e che gli consente di risolvere le tensioni e la contraddizioni che opponevano la dottrina d’amore all’etica cristiana. Gli influssi di Jacopo da Lentini, Guinizzelli e Cavalcanti sono, come si è visto, numerosi; ma Dante li rilegge alla luce di una nuova consapevolezza filosofica e religiosa. E, per la prima volta nella Vita nuova, questa consapevolezza non appartiene solo al narratore, ma anche allo stesso poeta-amante. 1 Il verso concentra infatti riferimenti all’emittente («io»), al destinatario («con voi»), al referente («de la mia donna»), nonché un richiamo di ordine metalinguistico («io vo’… dire») che implica il tema della parola poetica e il problema della sua capacità espressiva. 2 Si noti la duplice allitterazione, in v e in d: «io vo’ con voi de la mia donna dire». 3 Per i concetti filosofici di potenza, atto e causa efficiente rimandiamo all’analisi di Al cor gentil rempaira sempre amore [E1]. |
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