F12
Guido Cavalcanti
Guata, Manetto, quella scrignutuzza

Guata, Manetto, quella scrignutuzza,
e pon’ ben mente com’è divisata
e com’è drittamente sfigurata
e quel che pare quand’ella s’agruzza1!

Or, s’ella fosse vestita d’un’uzza
con cappellin’ e di vel soggolata
ed apparisse di dìe accompagnata
d’alcuna bella donna gentiluzza,

tu non avresti niquità sì forte
né saresti angoscioso sì d’amore
né sì involto di malinconia,

che tu non fossi a rischio de la morte
di tanto rider che farebbe ’l core:
o tu morresti, o fuggiresti via2.






1 Guata… s’agruzza: Osserva (Guata), Manetto, quella gobbetta (scrignutuzza), e fai bene attenzione (pon’ ben mente) <a> come è conciata (divisata), e <a> come è perfettamente deformata (drittamente sfigurata, ossimoro), e <a> quel che sembra quando si stringe nelle spalle (s’agruzza, secondo la parafrasi di Quaglio; ma il termine potrebbe significare anche si irrita)! È stato ipotizzato che il Manetto destinatario del sonetto fosse Manetto Portinari, fratello della Beatrice dantesca. Se così fosse, risulterebbe ancor più accentuata la natura parodistica del testo.

2 Or, s’ella… fuggiresti via: Ebbene (Or), se essa fosse vestita di una veste lunga (uzza è francesismo da houce, che indica una veste ampia e lunga fino ai piedi) con un cappellino legato sotto il mento (soggolata, verbo composto dal prefisso “so”, che significa sotto, e da “gola”. Il “soggolo” è appunto il nastro con cui si lega un copricapo sotto il mento; il participio «soggolata», che nella parafrasi abbiamo concordato con “cappellino”, concorda nel testo con «scrignutuzza») con un velo, e <se> apparisse di giorno (dìe) accompagnata da qualche bella donna gentile (gentiluzza è un vezzeggiativo che appare parodistico per l’uso dei suoni duri nella desinenza), tu non potresti essere in preda a un dolore (non avresti niquità) tanto forte, né potresti essere tanto tormentato (angoscioso) per amore, né tanto immerso (involto) nell’umor nero (malinconia; per il significato del termine, cfr. il sonetto di Cecco Angiolieri La mia malinconia è tanta e tale [F6]), da non rischiare la morte per il tanto ridere che farebbe il cuore: tu moriresti, o saresti costretto a fuggire.



Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e ripetute nelle terzine. Lo schema è ABBA, ABBA; CDE, CDE.

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Il testo si articola in due periodi. Il primo, contenente una lunga esclamazione costruita accumulando per polisindeto gruppi di proporizioni tra loro coordinate (principali nei primi due versi, interrogative indirette nel terzo e nel quarto), coincide perfettamente con la prima quartina. Il secondo occupa le rimanenti tre strofe: si tratta di un complesso periodo ipotetico, con protasi nella seconda quartina, apodosi nella prima terzina, e proposizione consecutiva subordinata all’apodosi nella seconda terzina.
Il lessico, nelle quartine, è caratterizzato da termini popolareschi («scrignutuzza», v. 1; «agruzza, v. 4) e dall’uso di diminuitivi ottenuti attraverso suoni aspri (in particolare la doppia z), che venivano evitati sistematicamente dagli stilnovisti. Anche termini ricercati, come il francesismo houce (v. 5), o afferenti alla tradizione nobile della lirica amorosa, come l’aggettivo “gentile”, appaiono deformati dalla traslitterazione («uzza», v. 5) o dall’inconsueto diminutivo («gentiluzza», v. 8). Le terzine presentano invece parole assai frequenti nella lirica cavalcantiana, come l’aggettivo «angoscioso» (v. 10) e i sostantivi «morte» (v. 12) e «core» (v. 13).

Livello tematico
Questi elementi lessicali (cui va aggiunto «malinconia», v. 11, termine che rimanda però direttamente alla tradizione comica in virtù della sua precisa accezione tecnica di umor nero [F9]) rendono evidente l’autocitazione parodistica che il Cavalcanti “comico” compie qui ai danni del Cavalcanti “tragico”. A partire dalla seconda quartina, la «scrignutuzza» viene inserita dal poeta in un ipotetico contesto che sarebbe consono all’ambientazione della poesia stilnovistica: in un mondo adornato da abiti eleganti e frequentato di donne gentili, nel quale essa determinerebbe un irresistibile effetto di contrasto. Cosa accadrebbe se fosse una donna del genere – e non la consueta incarnazione dell’idea della bellezza – a mostrarsi ai fedeli d’amore? Probabilmente, immagina il poeta, tutta la costruzione letteraria e sentimentale, tutta l’angoscia e l’infelicità d’amore cantate dalla lirica illustre verrebbero sommerse da un’irrefrenabile risata. Anche qui – come nei testi stilnovistici in cui ad apparire è la donna gentile – Cavalcanti analizza puntualmente i moti interiori determinati dal passaggio, stavolta del tutto immaginario, della figura femminile. Il «rischio de la morte», di solito evocato da Guido come sconvolgente effetto della passione d’amore averroisticamente intesa, si degrada allora nel rischio di crepare dal ridere. Non mancano neanche i richiami all’analisi psico-fisiologica tipica di Cavalcanti, che era solito frammentare il corpo e l’anima dell’amante nelle loro componenti, rappresentando ciascuna di esse come un personaggio di teatro: qui, infatti, a ridere fino alla morte, non sarebbe Manetto ma – coerentemente con il modello della poesia cavalcantiana – il suo «core» (v. 13). Anche il verso finale allude parodisticamente a una situazione tipicamente cavalcantiana: la sconfitta dell’uomo, incapace di sostenere – ma in genere per ragioni ben diverse da queste – la vista della donna.
Anche per questo testo va ripetuto quanto si è già detto per le analoghe prove di Guinizzelli [F11]: si tratta di un’operazione letteraria colta e divertita, di un gioco parodistico (in questo caso autoparodistico) che conferma ancora una volta la natura raffinata dell’intera rimeria “comica”. È probabile che l’ultimo verso del sonetto contenga un richiamo scherzoso alla dantesca Donne ch’avete intelletto d’amore [G6b], e precisamente ai vv. 35-36 («e qual soffrisse di starla a vedere / diverria nobil cosa, o si morria»). Ed è certo che Dante si sia ispirato a questo componimento dell’amico, ricalcandone esattamente le rime nel sonetto Sennuccio, la tua poca personuzza.





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