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La mia malinconia1 è tanta e tale, ch’i’ non discredo che, s’egli ’l sapesse un che mi fosse nemico mortale, che di me di pietade non piangesse2. Quella, per cu’ m’avven, poco ne cale; che mi potrebbe, sed ella volesse, guarir ’n un punto di tutto ’l mie male, sed ella pur: – I’ t’odio – mi dicesse3. Ma quest’è la risposta c’ho da lei: ched ella non mi vol né mal né bene, e ched i’ vad’a far li fatti mei; ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ o pene, men ch’una paglia che le va tra’ piei4: mal grado n’abbi Amor, ch’a le’ mi diène5. 1 La mia malinconia: Il mio umor nero. Il termine, di origine greca, indica letteralmente la bile (khole) di colore nero (mélas), che la medicina medievale collegava all’insoddisfazione del desiderio di godere. 2 è tanta e tale… non piangesse: è così grande (tanta) e di tale qualità (tale) che io credo (non discredo: l’avverbio negativo «non» e il prefisso, anch’esso negativo, «dis-» si negano a vicenda; si tratta di una litote) che se lo conoscesse (s’egli il sapesse: il pronome personale «egli» è pleonastico, in quanto il soggetto è espresso dall’«un» del verso successivo) qualcuno (un) che mi fosse nemico mortale, piangerebbe per me di pietà. Questo, anche in forza del contesto, il senso complessivo della quartina. Il v. 4 (che di me di pietate non piangesse) presenta però alcune difficoltà interpretative: la congiunzione «che» è pleonastica (ripete il «che» del v. 2) e, soprattutto, non appare spiegabile la presenza di una terza negazione («non»): nella nostra parafrasi l’abbiamo omessa per salvaguardare il significato complessivo della frase. Il congiuntivo («piangesse») al posto del condizionale è frequente nei testi medievali. 3 Quella… mi dicesse: A colei (Quella è soggetto; si tratta di un anacoluto) per cui ciò mi accade poco importa (ne cale), <a lei> che mi potrebbe, se (sed, con -d eufonica, come anche al v. 8) lo volesse, guarire in un momento (’n un punto) di tutto il mio (mie, forma senese) male, se mi dicesse anche solo (pur) «Io ti odio». 4 Ma quest’è… tra’ piei: Ma la risposta che ottengo da lei è la seguente (quest’): che (ched, con -d eufonica, come già ai vv. 6 e 8) lei non mi vuole né male né bene, e che io vada a fare i fatti miei; <e> che a lei non interessa (ch’ella non cura) se io provo gioia o pene, <o le interessa> meno di una pagliuzza (una paglia) che le vada tra i piedi (piei, forma senese). 5 mal grado… mi diène: sia maledetto Amore, che mi diede (diène, forma toscana, con epitesi) <in potere> a lei. Livello metrico Sonetto con rime alternate sia nelle quartine che nelle terzine. Lo schema è ABAB, ABAB; CDC, DCD. Livello lessicale, sintattico e stilistico Il testo presenta una sintassi a tratti complessa, non priva di pleonasmi e di asperità interpretative (in particolare per l’intricata successione di negazioni che si elidono a vicenda in modo non sempre perspicuo; cfr. nota 2). Le quartine sono occupate dal discorso lirico del poeta-amante insoddisfatto, che si vale come di consueto dell’iperbole per descrivere l’infelicità della propria condizione, tale addirittura da muovere a pietà il suo peggior nemico. A ogni quartina corrisponde un periodo; nelle terzine, invece, viene riferita in discorso indiretto la risposta della donna. La sintassi delle terzine risulta meno complessa: i periodi occupano uno o due versi. Livello tematico Il sonetto, come tutte le poesie di Cecco, è frutto di una cosciente elaborazione letteraria. Oltre al consueto ricorso all’iperbole e al sapiente dosaggio di lessico e sintassi “alti” e “bassi”, va sottolineato come Cecco riprenda un tema tradizionale, quello della sofferenza del poeta-amante, recuperando diversi topoi della tradizione cortese-stilnovistica (ad esempio l’inarrivabilità della donna e la personificazione di Amore). La citazione è naturalmente parodistica: le ripulse della donna assumono forme decisamente plebee (v. 11, v. 13); e a quell’Amore cui i poeti cortesi – a dispetto di ogni sofferenza – si proclamano costantemente fedeli, il poeta rivolge una franca maledizione, attinta a un registro quotidiano e colloquiale. Il testo è notevole per penetrazione psicologica. La sofferenza di Cecco, più ancora che dalla crudeltà della donna, è originata dalla sua perfetta indifferenza nei confronti dell’amante. La considerazione contenuta nella seconda quartina – secondo la quale essere oggetto di un sentimento negativo come l’odio sarebbe comunque preferibile a non essere oggetto di alcun sentimento – è uno di quei tratti “disperati” e “romantici” che possono aver fondato il mito ottocentesco di un Cecco Angiolieri poeta maledetto ante litteram. Pur senza negare la finezza dell’intuizione poetica, occorre però sempre ricondurre il testo al contesto storico-culturale da cui esso nasce. Va riconosciuto, allora, che le distanze tra la poesia di Cecco e quella otto-novecentesca restano abissali. Interessante, a tal proposito, risulta la definizione della parola-chiave «malinconia». La sua accezione moderna («stato d’animo intonato a una vaga tristezza, non priva di qualche conforto»1) ci porterebbe fuori strada. «Malinconia» è invece termine tecnico della medicina medievale; significa letteralmente “umor nero”, inteso proprio come secrezione della bile. Mario Marti, uno dei più importanti studiosi dell’opera di Angiolieri, definisce la malinconia come «desiderio del godimento allo stato puro, insoddisfazione, cupidigia di vita e l’umor nero che ne deriva». Si tratta dunque di uno stato legato ai sensi e al corpo, di una condizione psicofisica assai lontana dal vago e lirico sentimento che noi intendiamo con la stessa parola. 1 La definizione è tratta dal Dizionario italiano Sabatini e Coletti. |
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