E10
Guido Cavalcanti
Noi siàn le triste penne isbigotite

Noi siàn1 le triste penne2 isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte3 dolorosamente4
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi5 diciàn6 perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente7:
la man che ci movea8 dice che sente
cose9 dubbiose10 nel core apparite11;

le quali12 hanno distrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte13,
ch’altro non n’è rimaso14 che sospiri.

Or vi preghiàn15 quanto possiàn più forte
Che non sdegn[i]ate di tenerci noi16,
tanto ch’un poco di pietà vi miri17.




1 siàn: siamo.

2 penne: penne per scrivere. Anche gli altri elementi citati sono attrezzi per la scrittura: le «cesoiuzze» (piccole forbici per temperare), così come il «coltellin».

3 avemo scritte: abbiamo scritto.

4 dolorosamente: l’avverbio specifica bene l’atteggiamento degli arnesi di lavoro, che, qui personificati, sono stati designati con gli aggettivi «triste» (riferito alle penne) e «dolente» (riferito al coltellino).

5 vi: può essere interpretato come un a voi generico, anche se alcuni critici ritengono che il destinatario sia la donna, cui gli strumenti della scrittura si rivolgono. L’ipotesi del «voi» generico è più plausibile in quanto rientra nella richiesta di pietà, topos della lirica stilnovistica.

6 diciàn: diciamo.

7 di presente: adesso, in questo momento.

8 che ci movea: che ci guidava nella scrittura. Anche la mano del poeta viene fatta parlare, come gli strumenti della scrittura, ma mediante un discorso indiretto.

9 cose: ha valore indefinito e serve per sostantivare l’attributo che segue.

10 dubbiose: confuse, incerte, ma anche generatrici di timore.

11 apparite: apparse. Questo verbo solitamente è utilizzato per l’apparizione di cose spaventose, come ad esempio gli spettri. In questo caso si tratta della materializzazione di sentimenti. Nello stesso contesto vedi l’uso del verbo in Perché non fuoro a me gli occhi dispenti [E9], vv. 5-6: «Ch’una paura di novi tormenti / m’aparve allor […]».

12 le quali: il relativo indica la continuità tra la paura, creatasi nel cuore e avvertita anche dalla mano, e la realtà.

13 hannol…morte: lo hanno condotto così vicino alla morte.

14 rimaso: rimasto.

15 Or vi preghiàn… forte: ora vi preghiamo quanto più intensamente (forte) possiamo (possiàn). Riprende simmetricamente «Or vi diciàn» del v. 5.

16 tenerci noi: trattenerci presso di voi. Il «noi» è un anacoluto tipico del linguaggio parlato; il registro linguistico umile è idoneo a questi strumenti della scrittura, che sono semplici oggetti. De Robertis ritiene invece che si tratti di uno scambio del codice tra u ed n (tipico della pratica manoscritta) e di conseguenza propone di leggere «voi».

17 Tanto…miri: finchè (in attesa che, sperando che) vi guardi un poco di pietà (Contini). Il verbo «mirare» indica un sentimento di amicizia. La formula potrebbe essere intesa come vi prenda, vi tocchi, cioè, in sostanza, non le siate invisi.



Livello metrico
Il sonetto è costituito classicamente da due quartine a rime incrociate, mentre le terzine presentano la variante delle tre rime, secondo lo schema: ABBA, ABBA; CDE, DCE.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Foneticamente non si riscontrano suoni aspri, anche se dominano nettamente i suoni fricativi. Il lessico è caratterizzato da una serie di diminutivi che danno un’impronta familiare al discorso, condotto sempre in prima persona plurale, dagli arnesi della scrittura. I periodi sono lineari, come meglio si addice ad un parlare colloquiale; non sono presenti anastrofi; la punteggiatura segue il ritmo dei versi; non sono evidenziabili né spezzature né forzature nella sintassi. L’avverbio di tempo «ora», ripetuto in modo simmetrico all’inizio della seconda quartina e della seconda terzina, sottolinea il tono confidenziale del sonetto, rimarcando lo stile colloquiale. Caratteristica di questo componimento è l’assenza degli elementi tipici del linguaggio poetico provenzale e siciliano, nonché dei gallicismi.

Livello tematico
Il sonetto, che presenta le parole chiave tipiche della poetica cavalcantiana, non descrive una realtà concreta, bensì un mondo poetico nato dalla rappresentazione degli affetti. Il sistema linguistico tende a divenire teatro: personaggi-fantasma entrano in un gioco scenico descritto dal poeta. In questo caso chi parla sono proprio gli strumenti del fare poesia, che creano una “cornice scenica” alla descrizione dell’evento amoroso. L’incipit del sonetto infatti è caratterizzato da una prima persona plurale: tanti soggetti, che sono le piccole cesoie, il coltellino, le penne, cioè gli oggetti dello scrittoio, richiamano l’attenzione di un destinatario ideale. Mentre in altri componimenti chi parlava era il testo, in questo caso i protagonisti sono degli emblemi metaforici: Cavalcanti ci vuol dire che la poesia è un «tentativo frustrato di conoscenza1»; il poeta cerca di arrivare alla conoscenza totale del fenomeno amoroso, ma non vi riesce, perché l’amore è inteso come una affezione, cioè un fenomeno passivo della coscienza, dell’anima sensitiva. L’uomo non può contemplare l’ideale di donna amata, può solo smembrare l’evento amoroso in tante piccole scene che rendono concreto il mondo interiore e le sensazioni che egli prova. Attraverso la tecnica dello straniamento, il poeta vede “vivere”, come se fosse “fuori da se stesso”, l’evento amoroso per mezzo dello studio di alcune figure simboliche (anima, mente, cuore).
Nel caso di questo sonetto lo straniamento è così forte che la fenomenologia dell’evento amoroso è descritta dagli oggetti che producono la poesia: gli strumenti del poeta si allontanano da chi li adopera facendoli scrivere «dolorosamente» (cioè costringendoli a descrivere un’esperienza di frammentazione e di alienazione che diventa quasi “morte in vita”), e raggiungono il destinatario ideale a cui raccontare questa prova conoscitiva. Improbabile che il «voi» a cui si riferiscono sia la donna amata, la madonna siciliana, perché il sonetto si chiude con una preghiera rivolta a un destinatario indefinito, che però può essere mosso da compassione nei confronti del poeta: un destinatario che può ben essere il pubblico al quale, secondo uno schema già più volte utilizzato, Cavalcanti chiede generale compassione2.
È interessante notare come le forbici, il coltellino e le «cesoiuzze» descrivano la mano che le aveva mosse: l’uso dei tempi verbali ci indica una mano che ha smesso di compiere il suo atto di scrivere («movea»), ma che è ancora viva per poter parlare e provare sentimenti («dice che sente»); la mano è moribonda, non ha forza fisica, ma è vigile ed attenta, al punto che può riferire le sensazioni paurose che sono apparse nel cuore e che lo atterriscono; l’amante è così distrutto dai sentimenti, che sono metaforizzati in fantasmi («cose dubbiose»), da essere ormai in procinto di morire. Ci troviamo di fronte a una “personificazione” degli organi, che stanno provando – come se ciascuno di essi fosse una persona a sé stante – la morte del corpo. La mano, mentre scrive, sente che le vengono meno le forze del corpo e si trova impossibilitata ad agire. Le mani dunque “intuiscono” la morte metaforica del cuore dell’innamorato.


1 Marcello Ciccuto, “Rime di Guido Cavalcanti”, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, vol. I, Einaudi, Torino, 1992.

2 cfr. Perch’i’ no spero di tornar giammai [E11]



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