D3
Jacopo da Lentini
Io m’aggio posto in core a Dio servire

Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’ag[g]io audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso1.

Sanza mia donna non vi vorria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso2.

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io pec[c]ato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ’l morbido sguardare3:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veg[g]endo la mia donna in ghiora stare4.




1 Io m’ag[g]io… riso: Io mi sono (ag[g]io, letteralmente ho) proposto di servire Dio, in modo da poter andare (com’io potesse gire) in paradiso, al luogo santo di cui ho sentito parlare, dove si perpetuano divertimento, gioco e riso. Il sonetto si apre con l’eco del rapporto feudale di vassallaggio, qui trasformato in servitù nei riguardi di Dio. Attraverso di esso il poeta spera di giungere in paradiso, ma quest’ultimo si rivela subito come una sorta di prolungamento della vita in una corte terrena. Notare, in proposito, il legame «paradiso» : «riso» attraverso la rima.

2 Sanza mia donna… diviso: Non vorrei andarvi senza la mia donna, quella dai capelli biondi (blonda testa) ed il viso chiaro, perché, essendo (estando) diviso da lei, non potrei provare gioia, godere. Il poeta, quindi, pone una condizione per la sua ascesa al paradiso: trovarvisi con la sua donna, la cui assenza lo priverebbe del piacere. Anche nella seconda quartina, la dimensione spirituale non riesce a dominare pienamente quella terrena e quel Dio che permette al poeta di salire al cielo non può da solo bastare a raggiungere la beatitudine. Siamo al limite di un’affermazione blasfema e l’autore del sonetto ne è consapevole, come vediamo di seguito. Nella seconda quartina, inoltre, è presente in tutta evidenza lo stereotipo della donna bionda dalla carnagione chiara, ereditato dalla poesia di area francese.

3 Ma non lo dico … sguardare: Ma non lo dico con il fine (a tale intendimento) di voler peccare con lei, bensì per vedere (se non veder) il suo bel modo di condursi (portamento, nel senso di comportamento soprattutto morale) ed il bel viso ed il dolce sguardo. L’avversativa ad inizio della terzina introduce immediatamente la correzione dell’affermazione precedente e l’adeguamento al «santo loco»: non si creda che il desiderio di stare in paradiso con la sua donna sia motivato da passioni tutte terrene; il poeta spera soltanto di poter contemplare nella gloria del paradiso, come dirà dopo, la “gentilezza” della sua donna. Il Folena ha intravisto in questa posizione un preannuncio di una tematica stilnovistica.

4 ché lo mi teria… in ghiora stare: perché, giacché, considererei (lo mi teria) una grande consolazione vedere la mia donna essere in gloria (ghiora: è, secondo Contini, forma popolare, probabilmente introdotta dal copista toscano). L’epilogo del sonetto intende allontanare il possibile sospetto di introdurre una passione terrena al cospetto di Dio: il poeta aspira ad una contemplazione tutta spirituale della sua donna, circondata dalla gloria del paradiso, ben meritata per il suo «bel portamento». Resta l’impressione, tuttavia, che la presenza di Dio, del paradiso, della gloria divina siano elementi esteriori e, diciamo così, obbligati e che la figura femminile ricordata dal poeta ed il suo amore per lei siano del tutto terreni e veri protagonisti del sonetto.



Livello metrico
Sonetto con rime alternate (ABAB, ABAB) nelle quartine e invertite (CDC, DCD) nelle terzine. Le cesure non seguono uno schema simmetrico. Al v. 8 si incontra una rima siciliana («gaudere» rima con i precedenti «servire», «dire», «gire»). Tale rima dipende dall’intervento del copista toscano: il testo originale doveva infatti contenere «gaudiri», che formava rima perfetta con «serviri», «diri», «giri».

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Tenendo conto che le poesie della corte federiciana ci sono giunte attraverso il filtro dei rimatori toscani, che le hanno raccolte e studiate a fondo, nel testo sono comunque presenti termini, espressioni, costrutti sintattici di origine siciliana, ancora vivi oggi nelle regioni meridionali: «Io m’ag[g]io posto» invece di “mi sono posto”, «ci volesse». Essi si affiancano ad alcuni latinismi («audito», v. 3; «gaudere», v. 7); il «clara» di v. 6 si può considerare anch’esso un latinismo, ma potrebbe essere anche un provenzalismo; di origine provenzale sono anche il «sollazzo» di v. 4 e il «blonda» di v. 6, nonché tutti i sostantivi astratti in -mento che ricorrono in rima nelle terzine (vv. 9, 11, 13).
L’andamento sintattico del sonetto si adegua metodicamente a ciascun verso, attribuendo alla poesia una cadenza grave e regolare, simile ad un’orazione liturgica.
A prima vista appaiono quasi come rapide pennellate, perfino superflue, i due incisi dei vv. 3 e 6; in realtà essi qualificano in modo forte e significativo i concetti ai quali si collegano: l’immagine profana del paradiso (visto quasi come una proiezione della corte terrena) e i tratti fisici della donna (che obbedisce ai canoni di bellezza propri della poesia provenzale).
Curiosa la notazione «al santo loco ch’ag[g]io audito dire», inserita come se fosse riportata da chiacchiere popolari raccolte per strada: essa introduce un elemento vivo dell’immaginario collettivo.

Livello tematico
Come è stato sottolineato in nota, nel sonetto risuonano motivi della tradizione cortese, sebbene immersi in un’atmosfera sospesa tra cielo e terra, risultato dello sforzo di sintesi tra dimensione ultraterrena e dimensione umana. Appaiono tuttavia più autentici i richiami alla realtà terrena, alla fisicità femminile della donna protagonista del sonetto: i suoi capelli biondi, il suo viso chiaro, lo sguardo dolce e l’incedere elegante riempiono di sé i versi. La preoccupazione del poeta di sgombrare il campo dall’ovvio sospetto che il suo desiderio umano prevalga sulla devozione a Dio è, inoltre, tema centrale del componimento; il che tradisce, forse, l’intima speranza del poeta di perpetuare nell’aldilà il piacere della vita nella Magna Curia di Federico II. Di fatto, questo sonetto riflette quel conflitto tra cultura cortese e cultura religiosa che, originatosi già in ambito provenzale, sarà destinato a segnare molta parte della poesia italiana del Duecento: lo ritroveremo infatti in Guinizzelli – che cercherà di aggirarlo senza in sostanza superarlo [E1] – e in Cavalcanti, che lo riproporrà inquadrandolo in un originale contesto filosofico [E6, E7]; il superamento di tale conflitto potrà avvenire soltanto con la Vita nuova di Dante [G8b].
Un confronto con i più tardi testi dello stilnovismo metterà senz’altro in luce parentele con questo sonetto; ma in quei testi la donna-angelo veramente sembrerà “non toccar terra”, davvero si manifesterà come fattore di elevazione morale, fatta oggetto di estasi mistica. Qui la donna non compare ancora come una figura discesa dal cielo alla terra per compiere miracolose e salvifiche operazioni: al contrario, Jacopo da Lentini mostra di accettare l’ineluttabile destino di abbandono della vita terrena, purché la meta sia il «santo loco ch’ag[g]io audito dire / u’ si manten sollazzo, gioco e riso».





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