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Senno me pare e cortisia1 empazzir per lo bel Messia. Ello me sa sì gran sapere a cchi per Deo vòle empazzire2, en Parisi non se vide cusì granne filosafia3. Chi pro Cristo va empazzato4, pare afflitto et tribulato, ma el è magistro conventato en natura e ’n teologia5. Chi pro Cristo ne va6 pazzo, a la gente sì par matto7; chi non à provato el fatto, par che sia for de la via8. Chi vòle entrare en questa scola, trovarà dottrina nova9; tal pazzia, chi non la prova, ià non sa que ben se scia10. Chi vòle entrare en questa danza11, trova amor d’esmesuranza12; cento dì de perdunanza a chi li dice vellania13. Chi girrà14 cercando onore, no n’è15 degno del Suo amore, ca16 Iesù ’nfra dui latruni en mezzo la croce staìa17. Chi va cercando la vergogna, bene me par che cetto iogna18; ià non vada plu19 a Bologna per ’mparare altra mastria20. 1 Senno… Messia: Ritengo assennato e “cortese” impazzire per il bel Messia. L’aggettivo «cortese» allude, come già in O Segnor per cortesia [C3], al sistema di valori dell’“amor cortese” provenzale; vi sono inquadrati amore, virtù, salute fisica, in una cornice di decoro e liberalità. «Senno» (dal francese antico sen, dal francone sin) vale “ragione”. Le prime attestazioni del termine in Italia risalgono al XIII secolo. L’aggettivo «bel» proietta l’immagine di Cristo in una dimensione estetico-passionale caratteristica dell’entusiasmo mistico di Jacopone. 2 Ello… empazzire: Considero <sia> (Ello me sa; «ello» per egli, è pleonastico, come in molti testi antichi e fino all’Ottocento) una così grande sapienza quella di chi (a cchi è una forma risultante dal dativo di possesso latino, come nella forma meridionale “a cchi sei figlio?”) vuole impazzire per Dio. 3 en Parisi… filosafia: che a Parigi non si è mai vista una dottrina filosofica tanto profonda. Il «sì», così, al v. 3 indica la presenza logica di una consecutiva al v. 5, ma Jacopone omette la particella correlativa “che” e giustappone per paratassi le due affermazioni. 4 Chi… va empazzato: Chi diviene pazzo per (pro) Cristo, cioè avendo fatto esperienza del suo amore. 5 ma el è… teologia: ma egli è maestro addottorato (magistro conventato) in natura e teologia. I due termini «natura» e «teologia» rimandano in forma polemica alle discipline fondamentali delle università medievali. Jacopone attacca in particolare la logica scolastica ed evoca come unica forma di sapienza il mistero della natura umana («natura») e divina («teologia») di Cristo. L’imitazione di Cristo, nella forma autolesionista e provocatoria dell’umiliazione ricercata, costituisce teoria e prassi della «pazzia» mistica dell’autore. 6 ne va: diviene, come «va» al v. 7. 7 a la gente… matto: alla gente comune appare così (sì) folle; «matto» si oppone a «pazzo» in quanto designa la follia in senso corrente. 8 chi non ha… de la via: chi non ha fatto esperienza (provato el fatto) <dell’amore di Cristo> mostra di essere (par che sia) fuori della retta via. L’interpretazione è confortata da quanto si dice poi ai vv. 17-18: il primo riprende, variandolo, il v. 13, il secondo sviluppa l’affermazione del v. 14. La stessa affermazione compare in O iubelo del core [C4], vv. 27-28: «Chi non ha costumanza / te reputa ’mpazzito», ma qui i versi sembrano recuperare il testo del Vangelo di Giovanni (XIV, 6): «Ego sum via et veritas et vita; nemo venit ad Patrem nisi per me» [«Io sono la via, la verità e la vita, Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me»]. 9 Chi vòle… nova: Chi vuole entrare in questa scuola (quella appunto della «pazzia») troverà una nuova dottrina. È detto con irrisione rispetto ai precetti delle scuole teologiche, controllate dalla gerarchia ecclesiastica. Ma il riferimento alla «dottrina nova» riprende anche un passo del Vangelo di Giovanni (XIII, 34), poco precedente a quello citato sopra: «Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem; sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem» [«Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi gli uni gli altri»]. 10 ià… se scia: non sa ancora (ià non, dal latino iam non) quale bene sia. Il «se» è pleonastico. 11 danza: l’equiparazione dell’esperienza mistica della «pazzia» ad una «danza» (contrapposta alla scuola), con tutto ciò che di gioioso e corporale comporta, è l’invenzione poetica più convincente del testo. Tanto più che il termine riprende letteralmente quello provenzale – dansa – che designa la ballata, e quindi la lauda, con un effetto di forte suggestione. Proprio attraverso la danza, nel XVI secolo, giungevano all’estasi mistica i dervisci musulmani (dal turco dervis, dal persiano dervis, “mendicante”) di Konja, in Turchia. 12 d’esmesuranza: a dismisura, senza limiti. Vedi in O iubelo del core [C4], al v. 19, «parlanno esmesurato», che definisce l’esito stilistico dell’«esmesuranza». 13 cento dì… vellania: cento giorni d’indulgenza a chi lo insulta. Il paradosso, con un forte scarto rispetto al senso comune, vuole negare insieme la logica laica («cortese»), e quella ecclesiastica, seguendo la «dottrina» della «pazzia»: alla dichiarazione d’accoglienza amorosa segue l’istigazione all’umiliazione del nuovo adepto. Ma la dottrina di Jacopone è perfettamente coerente: come sotto si vedrà, all’amore di Cristo, e quindi alla teologia dell’imitazione di Cristo, corrisponde la ricerca dell’umiliazione, secondo la modalità autolesionistica di cui alla nota 5. La citazione dell’indulgenza può anche avere una connotazione ironica, considerato che il suo uso temporale fu sempre al centro delle critiche volte alle gerarchie ecclesiastiche dai movimenti riformatori. «Vellania» si contrappone a «cortisia» della ripresa. 16 ca: perché (dal latino quia > qua in latino volgare, I sec. d. C.). 18 Cetto iogna: giunga presto (cetto; non è una voce specificamente umbra, ma di una vasta zona dell’Italia mediana). 19 plu: più (dal latino plus). 20 per ’mparare altra mastria: per imparare un’altra dottrina. Livello metrico La lauda è formata da un distico di ripresa e da sette stanze di quattro versi, secondo lo schema xx, aaax, bbbx, ecc. Le rime delle strofe possono essere sostituite da assonanze e consonanze (come nella prima: sapere : empazire : vide; più irregolare la terna della sesta strofa: onore : amore : latruni, anche se nell’edizione Bonaccorsi, del 1490, è presente la variante latrone, con l’esito in -e dei plurali maschili di terza declinazione, molto attestato in Jacopone). La rima dell’ultimo verso riprende sempre regolarmente in -ia quelle del ritornello. La struttura metrica del testo, incalzante e percussiva, è caratterizzata dalla variazione nella monotonia (una caratteristica riscontrabile anche ad altri livelli di analisi). Sul piano ritmico si possono individuare due modelli dominanti: quello dell’ottonario trocaico, con accenti di 1a, 3a, (5a), 7a, del tipo «Chi pro Cristo ne va pazzo»; e quello, più mosso, del novenario giambico con accenti di 4a, 6a, 8a, come per «Chi vòle entrare en questa danza», assimilabile ritmicamente al primo verso della ripresa. I due schemi si alternano più o meno regolarmente nel testo; sono presenti versi con anacrusi e altri che, pur se ipermetri, possono essere regolarizzati per episinalefe. Spicca però l’equivalenza dei novenari iniziali della quarta, della quinta e della settima quartina, che nel ritmo esprimono lo slancio vitale della «pazzia» come movimento di «danza» e lo collegano, all’opposto, al motivo della «vergogna». Così Jacopone nega la fissità sclerotica della logica della «scola», l’ortodossia astratta della teologia scolastica, e la lauda acquista la connotazione specifica di “ballata”. Livello lessicale, sintattico, stilistico La poesia mostra una grande coesione strutturale, ottenuta, oltre che sul piano metrico, ai vari livelli dello stile. La presenza del «Chi» anaforico fa da cerniera a tutte le strofe a partire dalla seconda (ma è presente anche nella prima, al secondo verso, preceduto dalla preposizione). È possibile poi riconoscere un ordinamento a coppie. Il ritornello fa corpo con la prima quartina attraverso riprese e variazioni: a «Senno me pare» corrisponde «Ello me sa», nella stessa posizione; a «empazzir» corrisponde l’identico «empazzire», dislocato alla fine del verso 4. Ancor più evidenti sono le coppie individuate nei distici iniziali delle quartine seguenti dalle anafore «Chi pro Cristo», «Chi vole entrare», «Chi girrà / va cercando», con le relative variazioni. Secondo questa divisione, la sutura tra il blocco delle strofe 2-6 e la prima è ottenuta con una puntuale ripresa tematica, che funge perfettamente da ritorno circolare al punto di partenza: la menzione della città universitaria di Bologna, al penultimo verso, fa infatti da pendant a quella di «Parisi», al v. 5, e il termine conclusivo «mastria» (che stride in paronomasia con il «Messia», del ritornello) è sinonimo di «filosafia», al v. 6. All’interno del gruppo delle quartine 2-6 le prime quattro esprimono giudizi a due a due concordi e nei distici iniziali propongono variazioni di espressioni e significati identici; le ultime due, invece, sono poste in opposizione di senso l’una all’altra. Un ordine di rapporti ulteriore, simmetrico rispetto al primo, è dato dall’accoppiamento secondo una relazione tematica dei secondi distici delle quartine: la cultura scolastica collega la prima e la seconda strofa, con la menzione della filosofia di Parigi e del dottorato in natura e teologia; nella terza e nella quarta il tema comune è il traviamento di chi non sa per esperienza cosa sia la «pazzia»; nella quinta e nella sesta è l’idea dell’umiliazione e dell’oltraggio, legata prima all’indulgenza verso la «vellania», poi all’immagine di Cristo tra i ladroni. La settima strofa si raccorda a queste due ultime con la ripresa del motivo della vergogna, stavolta nel distico iniziale. Lo spoglio lessicale mostra, in modo concorde al piano metrico e strutturale, una notevole ridondanza. Due serie portanti di termini, di significato equivalente o addirittura identico, si oppongono polemicamente l’una all’altra: le parole della “ragione” contro quelle della “follia”: «senno», «sapere», «filosafia», «dottrina», «mastria» versus «empazzir», «empazzire», «empazzato», «pazzo», «matto», «pazzia». In un campo semantico comune alla prima serie rientrano voci tecniche dell’ambito universitario: «maestro conventato», «natura e teologia» e anche i nomi delle città che ospitavano le cattedre dei grandi filosofi scolastici: «Parisi» e «Bologna». La stessa polemica, modulata sul versante laico, oppone alla «pazzia», già nella ripresa, la «cortisia», e rivaluta in forma paradossale la «vellania», motivo di «perdonanza», vale a dire indulgenza ecclesiastica (non senza feroce ironia verso chi tra i prelati ne fa mercato). Nello stesso senso all’«onore» vengono contrapposti l’«amore» e la «vergogna», i due attributi che Jacopone riscontra nello scandalo della crocifissione di Cristo. Sul piano linguistico meritano menzione «esmesuranza» e «perdonanza» – termini coniati col suffisso -anza, di derivazione provenzale-siciliana – come esempi di quella «grande libertà nella coniazione suffissale di sostantivi» che, come è stato osservato, è una delle caratteristiche del «todino illustre» di Jacopone1. Vanno notati ancora il francesismo «Parisi», per Parigi, i latinismi «magistro» «que», «pro», «plu», e infine forme del todino come «scia», «staìa», e altri fenomeni fonetici e morfologici di cui abbiamo dato qualche ragguaglio in nota. Sul piano sintattico domina la chiarezza della paratassi, con un unico iperbato, poco marcato, nella ripresa; il discorso, come si è notato, procede per distici, spesso isolati dal punto e virgola, e le frasi si dispongono regolarmente entro i confini del verso. Jacopone ottiene così una giustapposizione di affermazioni gnomiche, cantilenata negli ottonari e fortemente memorabile. Per giungere all’effetto sopprime anche la correlazione dei nessi subordinanti, come nel caso dei vv. 3 e 5 (vedi nota 2): il «sì» al v. 3 indica l’introduzione logica di una consecutiva, che poi, però, non è segnalata dal «che». L’unico nesso causale presente nella poesia è il «ché» al v. 25. In questo modo anche la sintassi mostra di volersi tenere lontana dagli inganni formali della logica e procede per affermazioni di verità non dimostrate: 1. perché non sono dimostrabili se non per esperienza, secondo la visione mistica; 2. perché vogliono avere l’assolutezza dei precetti pedagogici. Non a caso tra le voci verbali domina l’indicativo presente, il modo dell’affermazione didattica prescrittiva. Le figure retoriche presenti sono, ancora coerentemente, quelle della ripetizione, come «sì gran sapere» - «cusì granne filosafia»; oltre alle anafore sopracitate, spiccano le figure etimologiche: «sa» : «sapere», «maestro» - «mastria», «pazzo» - «pazzia» - «empazzir», il poliptoto collegato «empazzire» - «empazzato»; le allitterazioni: «me Sa Sì gran Sapere»; «cento Dì De perDunanza a chi li Dice»; le dittologie: «natura e teologia», «afflitto e tribulato» (quest’ultima sinonimica); i sinonimi: «pazzo» - «matto». Livello tematico L’analisi formale mostra la natura del testo, che svolge efficacemente una funzione polemica e didattica. Il tema centrale è la «pazzia», vale a dire la scelta dell’imitazione di Cristo, intesa, nel modo più radicale, come ribaltamento del sistema dei valori correnti. Chi ha veramente raggiunto la sapienza cristiana, vale a dire ha scelto la via dell’amore di Cristo — che comporta vivere, anzi, ricercare la via della sua Passione — è considerato pazzo dal mondo; viceversa, chi dalla gente è considerato savio e benpensante è invece follemente sviato dalla via della salvezza cristiana. Jacopone non conosce alcun termine di mediazione tra le due posizioni. L’aspetto masochistico di tale atteggiamento è comune a O Segnor per cortesia [C3], dove non a caso ritorna il termine «cortesia», anche in quel testo ribaltato paradossalmente di significato. Tale estremismo corrisponde ad un altro nucleo concettuale e stilistico della poesia del frate todino, espresso qui dal termine «esmesuranza», vale a dire mancanza di limite, misura. Ciò diviene un precetto pratico, oltre che stilistico: la mancanza di misura porta ad agire al di là di ogni limite della cortesia, cioè della convenienza personale e delle convenzioni sociali: sia che Jacopone si scagli violentemente contro personaggi assai più potenti di lui, sfidandone la vendetta (è il caso di Bonifacio VIII, che lo fa imprigionare); sia che esponga se stesso al pubblico ludibrio, sfidando il sentimento del proprio e del comune senso del pudore per ansia di umiliazione e di martirio; sia che tale atteggiamento implichi un «parlare esmesurato», come Jacopone afferma in O iubelo del core [C4], fornendo una chiave di lettura stilistica dei suoi testi. In quella lauda, come in questa, la misura è costituita solo dall’amore di Cristo, che è sentito come smisurato, infinito. Tanto il poeta mistico se ne innamora che non riesce a trattenere l’entusiasmo; ne deriva una poetica del grido e insieme del pastiche: nell’espressione di Jacopone possono fondersi voci del linguaggio sublime e di quello basso, termini tecnici, letterari, volgari, sacri e profani, ridotti tutti al comune denominatore di un’espressione che è insieme lode e invettiva, polemica e gnome. Qui l’«esmesuranza» si specifica come critica della razionalità logica della scolastica, della filosofia universitaria medievale. Come in O Segnor per cortesia [C3] veniva evocata la corporalità nella sua forma più cruda, anche qui alla razionalità astratta della teologia viene contrapposto il linguaggio del corpo. Solo che in questo caso assume la forma del movimento, della «danza». Non si tratta dunque di analizzare e di comprendere, ma di entrare nella danza, fare quindi esperienza concreta dell’amore di Cristo. Anche in ciò il linguaggio della mistica si avvicina a quello della poesia erotica coeva: anche Dante, Cavalcanti e i “fedeli d’amore” rivendicano infatti un pubblico che conosca l’esperienza amorosa per «prova». 1 Le citazioni sono tratte da Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 19836 p. 146. |
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