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O Signor, per cortesia1, manname la malsanìa2! A mme la freve quartana, la contina e la terzana, la doppla cotidïana co la granne ydropesia3. A mme venga mal de dente, mal de capo e mal de ventre; a lo stomaco dolur’ pognenti e ’n canna la squinanzia4. Mal dell’occhi e doglia de flanco e la postema al canto manco; tiseco me ionga enn alto e d’onne tempo fernosìa5. Aia ’l fecato rescaldato, la melza grossa e ’l ventr’enflato e llo polmone sia ’mplagato cun gran tòssa e parlasia6. A mme venga le fistelle con migliaia de carvuncilli, e li granci se sian quelli che tutto replen ne sia7. A mme venga la podraga (mal de cóglia sì me agrava), la bisinteria sia plaga e le morroite a mme sse dìa8. A mme venga ’l mal de l’asmo, iongasecce quel del pasmo; como a can me venga el rasmo, entro ’n vocca la grancia9. A mme lo morbo caduco de cadere enn acqua e ’n foco e ià mai non trovi loco, che eo afflitto non ce sia10. A mme venga cechetate, mutezza e sordetate, la miseria e povertate e d’onne tempo entrapparìa11. Tanto sia ’l fetor fetente che non sia null’om vivente, che non fuga da me dolente, posto en tanta enfermaria12. En terrebele fossato, che Riguerci è nomenato, loco sia abandonato da onne bona compagnia13. Gelo, grando e tempestate, fulgure, troni e oscuritate; e non sia nulla aversitate, che me non aia en sua bailìa14. Le demonia enfernali sì mme sian dati a menestrali, che m’essèrcino en li mali, ch’e’ ho guadagnati a mea follia15. Enfin del mondo a la finita sì mme duri questa vita e poi, a la scivirita, dura morte me sse dìa16. Allegom’en sseppultura un ventr’i lupo en voratura e l’arliquie en cacatura en espineta e rogarìa17. Li miracul’ po’ la morte, chi cce vene aia le scorte e le deversazioni forte con terrebel fantasia18. Onn’om che m’ode mentovare sì sse deia stupefare e co la croce sé segnare, che reo escuntro no i sia en via19. Signor meo, non n’è vendetta tutta la pena ch’e’ aio ditta, ché me creasti en tua diletta et eo t’ho morto a villania20. 1 O Signor, per cortesia: l’invocazione iniziale allude nel suo primo verso, attraverso il termine «cortesia», al sistema di valori dominante nella letteratura provenzale, quello dell’“amor cortese”; all’interno di tale sistema (come rileverà poi Dante in De vulgari eloquentia, II, 2), accanto all’amore e alla virtù, assume notevole rilevanza anche la salute fisica (presupposto indispensabile per la prodezza nelle armi). Ma la «cortesia» chiesta a Dio da Jacopone è di natura ben diversa: egli invoca su di sé ogni sorta di malattia, operando un radicale capovolgimento di prospettiva rispetto alla tradizione letteraria occitanica. 2 malsania: malattia. Molti commentatori intendono lebbra (considerata all’epoca la malattia per antonomasia). Tuttavia ci sembra più opportuno attribuire al termine usato nella ripresa il suo significato generico, lasciando alle singole strofe, di volta in volta, la specificazione delle varie malattie. 3 A mme… ydropesia: A me <vengano> la febbre quartana (febbre che si manifesta ogni quattro giorni), la febbre continua e la terzana (che si manifesta ogni tre giorni), la febbre che viene due volte al giorno e l’idropisia che gonfia il corpo: sembra che sia questo il significato dell’aggettivo «granne», che viene trasferito metonimicamente dall’effetto (l’aspetto del corpo malato, che trattiene i liquidi sierosi dilatando l’addome) alla causa (l’idropisia). 4 mal de dente… squinanzia: A me venga<no> mal di denti, mal di testa e mal di ventre, dolori pungenti (dolur’ pognenti) allo stomaco e in gola (in canna) l’angina (squinanzia). Il verbo «venga», al singolare, si riferisce a una pluralità di soggetti (questa figura retorica si chiama sillessi). Si noti come al linguaggio tecnico della medicina se ne alterni uno popolaresco (come testimonia, tra l’altro, la non dotta metafora «in canna»). 5 Mal dell’occhi… fernosìa: <A me vengano> male agli occhi e dolore al fianco, e un ascesso (postema) dal lato sinistro (manco); ai polmoni (enn alto, cioè nella parte del corpo che si trova sopra i fianchi) mi venga (ionga) la tubercolosi (tiseco) e, in ogni tempo, il delirio (fernosìa). 6 Aia… parlasia: Possa io avere («aia», dal latino habeam) il fegato infiammato (rescaldato), la milza grossa e il ventre gonfio (enfiato), e i polmoni (llo polmone, al singolare, è sineddoche) siano piagati (’mplagato) con gran tosse e paralisi (parlasia). 7 fistelle… ne sia: A me vengano le fistole (fistelle) con migliaia di bubboni (carvuncilli), e i cancri (granci) siano tali (quelli) che ne sia tutto pieno. 8 podraga… mme sse dìa: Che mi venga la gotta (podraga, ossia podagra), il dolore ai testicoli (cóglia) mi tormenti (agrava) allo stesso modo (sì), la dissenteria (bisenteria) sia un tormento (metaforicamente plaga, piaga) e che mi si diano le emorroidi (morroite). La strofa enumera malattie particolarmente sgradevoli e vergognose: la degradazione che il poeta invoca su di sé si spinge infatti fin quasi all’imbestiamento, come dimostra la successiva strofa. 9 mal de l’asmo… grancia: Che mi venga il male dell’asma, le si aggiunga (iongasecce) quello dello spasmo (contrazione involontaria dei muscoli; secondo alcuni, angina pectoris, ossia spasmo dell’aorta); mi venga la rabbia (rasmo) come a un cane e un’ulcera (grancìa) in bocca. 10 morbo caduco… non ce sia: A me <venga> l’epilessia (morbo caduco: “mal caduco” è appunto il nome popolare della malattia), in modo che io cada in acqua e nel fuoco (gli attacchi di epilessia provocano convulsioni accompagnate da perdita di coscienza), e possa io non trovare mai un luogo in cui non ne sia afflitto. 11 cechetate… entrapparìa: A me vengano cecità, mutismo e sordità, la miseria e la povertà e in ogni tempo il rattrappimento delle membra (entrapparìa). 12 Tanto sia… enfermaria: Sia tanto forte il fetore («fetor fetente» è figura etimologica) che non ci sia alcun uomo vivente che non fugga da me sofferente (dolente), posto in simile stato di infermità (enfermaria). Da qui in poi, ultimato l’elenco dei mali che invoca su di sé, il poeta passa a descrivere la condizione di abiezione e abbandono che chiede a Dio per il resto della sua vita. 13 En terrebele… compagnia: Nel terribile fossato che è chiamato Riguerci, lì (loco, avverbio di luogo pleonastico) io sia abbandonato da ogni buona compagnia. Riguerci era una località non lontana da Todi. 14 Gelo… bailìa: <Mi affliggano> gelo, grandine e tempesta, folgore, tuoni e oscurità, e non ci sia alcun avverso fenomeno atmosferico (aversitate) che non mi abbia in suo potere (bailia, balìa). 15 Le demonia… follia: I diavoli dell’inferno mi siano dati come servitori, in modo che (sì… che) mi tormentino (essercino) con quei mali che ho meritato nel mio peccato (follia). 16 Enfin… me sse dìa: Fino alla fine del mondo duri per me (il pronome mme va inteso come dativo di svantaggio) questa vita e poi, al momento della dipartita (scivirita) mi si sia una morte violenta (dura). 17 Alleggom’… rogarìa: Scelgo per me (Alleggom’) come sepoltura il ventre del lupo che mi divorerà, e le mie reliquie (arliquie) <siano disperse> sotto forma di sterco (cacatura) tra spini (espineta) e rovi (rogarìa). Stridente il contrasto tra l’immagine plebea e il termine «arliquie», qui usato in senso antifrastico. Si capovolge l’immagine tradizionale della macerazione ascetica e della santità: le sofferenze della vita non vengono sopportate in vista di una ricompensa nell’altro mondo, ma sono destinate a continuare anche dopo la morte; i resti del corpo di fra’ Jacopone non verranno venerati come quelli dei santi, ma dispersi nel più vile dei modi. 18 Li miracul… fantasia: I miei miracoli dopo la morte <siano che> chi verrà in questo luogo (cce: si intende il luogo in cui si troveranno le «arliquie») abbia con sé schiere di spiriti malvagi (scorte) e abbia enormi tormenti (deversazioni forte) con terribili visioni (fantasia). 19 Onn’om… en via: Chiunque (Onn’om, ossia ogni uomo) mi senta nominare (mentovare) si debba (sse deia) spaventare (stupefare) e debba farsi il segno della croce in modo (sì) che non gli capiti durante il suo cammino (per via) qualche cattivo incontro (reo escuntro). Il poeta invoca su di sé, dunque, una fama sinistra che lo renda inviso agli uomini anche dopo la morte. 20 Signor meo… villania: O mio Signore, non è per me adeguata espiazione (vendetta) tutta la sofferenza di cui ho parlato, poiché (ché) tu mi creasti per tuo amore (en tua diletta) e io ti ho ucciso a tradimento (a villania). Il pronome «io» non fa riferimento a una colpa individuale, ma concentra sul soggetto tutti i peccati dell’umanità (in particolare il tradimento di Giuda e l’uccisione di Cristo); rispetto a tali peccati neanche i mali invocati su di sé, in vita e in morte, rappresentano un castigo sufficiente per l’offesa recata a Dio. Livello metrico Il componimento consta di 74 versi di diversa lunghezza, con prevalenza di ottonari (51); frequenti anche i novenari (22); solo il verso 9 è decasillabo1. La lauda jacoponica si rifà a una tradizione metrica illustre, quella della ballata; è costituita da una ripresa di 2 versi a rima baciata e da strofe di 4 versi, dei quali i primi 3 sono legati tra loro da assonanza (o, più raramente, da rima). L’ultimo verso di ogni strofa rima con la ripresa. Livello lessicale, sintattico, stilistico Il testo di di Jacopone, pur rivelando nettamente a livello morfologico la propria origine umbra, per esempio nell’assimilazione consonantica progressiva del gruppo nd, che diviene nn («manname», v. 2; «granne», v. 6; ecc.), dimostra in più punti la sicura conoscenza della tradizione poetica dotta italiana (si pensi alla presenza di rime siciliane come «vendetta» : «ditta» dei vv. 71-72, un fenomeno che ha origine nella trascrizione toscana della poesia della corte federiciana2). Quanto alla scelta lessicale, si uniscono una terminologia tecnica desunta dalla medicina e voci popolari, spesso plebee, che prevalgono nella seconda parte del componimento. Notevole il trattamento dei termini che fanno riferimento alla devozione religiosa («arliquie», v. 61, «miracul», v. 63), qui usati antifrasticamente (come meglio vedremo a conclusione dell’analisi tematica). Metrica e sintassi si sovrappongono perfettamente: in genere, ogni strofa comprende un periodo (più raramente due periodi separati da punto e virgola). La sintassi è paratattica (come si addice a un testo costruito sull’enumerazione dei sostantivi che designano i malanni). Poche le subordinate, per lo più consecutive. Livello tematico Il componimento può dividersi in tre sequenze; nella prima (vv. 3-38) si svolge il tema dei mali fisici che il poeta invoca su di sé; nella seconda (vv. 39-58) Jacopone prega Dio affinché gli conceda di essere abbandonato fino alla morte; nella terza (vv. 59-74) il tema trattato è l’abiezione post mortem; la conclusione (ultima strofa) spiega le ragioni per cui l’uomo ha meritato per sé tanta sofferenza. Il testo sembra costruito sulla frustrazione delle attese del lettore. Ciò si nota fin dalla ripresa, che fa rimare l’inatteso «malsania» con un termine come «cortesia», con trasparente riferimento al sistema di valori dominante nella tradizione letteraria provenzale: un sistema di valori (come si è detto nelle note) nel quale assume un ruolo rilevante la salute fisica. I mali fisici e la degradazione progressiva del corpo umano (vv. 3-38) L’elencazione dei malanni non sarebbe in sé sconcertante all’interno di una tradizione ascetica (lo stesso san Francesco, alla cui regola Jacopone in un primo momento aderì, pone l’accento sulla sopportazione di «infirmitate et tribulatione»). Ma del tutto nuovo, e lontano dalla spiritualità francescana, è il significato che qui assume la malattia. È anzitutto da rilevare come l’elenco dei mali sia disposto secondo un ordine non casuale. Si va da malattie gravi ma comuni (febbri, idropisia, dolori localizzati in varie parti del corpo, vv. 3-12), a mali che colpiscono gli organi interni (vv. 13-18), a malattie ripugnanti che deformano l’aspetto fisico (e che culminano nella terribile immagine di un corpo «tutto replen» di «granci», vv. 19-22), a malattie vergognose o che riguardano le parti basse del corpo (vv. 23-26), fino a mali propri più degli animali che dell’uomo, come il «rasmo» (rabbia, vv. 27-30). Pur tenendo presente che l’ordine dell’elencazione obbedisce talora a ragioni metriche (è per motivi di rima, ad esempio, che accanto al «rasmo», compaiono mali certamente non bestiali come l’«asmo»), ci sembra che l’elenco contenuto in questa prima parte della lauda sia ordinato secondo un climax: le malattie invocate da Jacopone degradano progressivamente il corpo umano fin quasi all’imbestiamento. Non deve sorprendere il fatto che, nella strofa immediatamente successiva a quella in cui culmina il climax, compaiano mali assai meno ignobili come l’epilessia, la cecità, il mutismo, la sordità; infatti questi ultimi mali, elencati nei vv. 31-38, pur non apparendo particolarmente degradanti dal punto di vista fisico, isolano tutti il malato dalla comunità, chiudendone (attraverso la perdita di coscienza o di vista, udito e parola) i canali di comunicazione con l’esterno, sicché il movimento centripeto del rattrappimento («entrapparia») che chiude la serie appare quasi come la somatizzazione della esclusione del soggetto rispetto al mondo esterno. A unificare questa prima sequenza, oltre agli aspetti tematici che si sono rilevati, è l’insistita anafora che scandisce 7 delle 9 strofe che la costituiscono («A mme»). L’abbandono e la morte (vv. 39-58) I mali elencati nei vv. 31-38 e culminanti nel rattrappimento fanno da cerniera tra la prima e la seconda sequenza, segnata da un mutamento del punto di vista (che diviene esterno rispetto al soggetto). Ne è una evidente spia stilistica la sostituzione dell’anaforico incipit di strofa «A mme» con elementi oggettivi come il fetore (v. 39), il fossato (v. 43), le intemperie (v. 47), i diavoli (v. 51). La sequenza si chiude con l’auspicio di una vita tormentata dai mali che duri fino alla fine del mondo (v. 55) e di una dura morte che concluda l’esistenza. L’abiezione post mortem (vv. 59-74) È a questo punto che si registra la più sorprendente novità del testo jacoponico. Dopo la morte, infatti, non c’è un premio o un riscatto (come è lecito aspettarsi dopo una vita di ascesi e di sacrificio, e come poteva essere logico attendersi nella prospettiva francescana, in cui la serena sopportazione di «infirmitate et tribulatione» garantiva la possibilità di essere «incoronati» dall’Altissimo). L’attesa del lettore viene invece nuovamente frustrata, attraverso un procedimento simile a quello già osservato a proposito della parola «cortesia». Infatti i termini dell’agiografia cristiana («arliquie», «miracul’») sono qui sottoposti a trattamento antifrastico, poiché le reliquie sono in realtà miseri resti destinati ad essere dispersi sotto forma di sterco di lupo, e i miracoli si concretano in una serie di apparizioni inquietanti e jettatorie (sicché lo stesso segno della croce – vv. 69-70 – sembra acquistare valore apotropaico piuttosto che devozionale). Non esiste dunque possibilità di catarsi per il peccato dell’uomo (l’ultima strofa dimostra come Jacopone non voglia punirsi per una colpa individuale, ma per le colpe dell’umanità). Per questo l’intero componimento si presenta costruito in forma di climax: dalla sofferenza fisica, sempre più degradante, all’abbandono, fino all’abiezione post mortem. I capovolgimenti del sistema dei valori tradizionali che abbiamo riscontrato nel testo di Jacopone (e che hanno il loro correlativo stilistico nell’uso antifrastico di parole come «cortesia», «arliquie», «miracul’»), la mescolanza tra l’infimo e il sublime (essenziale, in tal senso, è l’ultima strofa) consentono di accostare la poesia di Jacopone a quella che Michail Bachtin definisce «letteratura carnevalesca»; a quel filone letterario, cioè, che ci presenta una sorta di «mondo all’incontrario» e che sembra percorrere, in parallelo alle forme consacrate dalla tradizione, tutta la storia della nostra letteratura. Parlare di «letteratura carnevalesca» non equivale affatto, però, a parlare di letteratura incolta: il capovolgimento della tradizione illustre è possibile proprio in quanto si abbia, con questa tradizione, una consapevole dimestichezza. Il discorso sulla «letteratura carnevalesca» ha implicazioni profonde sulla nostra storia letteraria e andrà ripreso, sempre in ambito duecentesco, trattando della poesia comico-realistica3. 1 Il computo si basa sull’edizione delle Laude a cura di F. Mancini, Bari, Laterza, 1974. La tradizione manoscritta ci ha però consegnato diverse versioni dei testi di Jacopone, sensibilmente diverse sul piano linguistico. 2 Per fare un esempio, se in un testo siciliano abbiamo in rima le parole «vidiri» : «muriri», nella sua trascrizione toscana le parole-rima saranno «vedere» : «morire»: avremo quindi una rima tra due parole che presentano diverse vocali toniche; tale rima è detta rima siciliana. Lo stesso avviene in una rima come «amuri» : «duri», toscanizzata in «amore» : «dure». 3 Si è anche soliti usare per Jacopone la definizione di «espressionista», adattando alla poesia del Duecento un termine che propriamente si riferisce a correnti letterarie novecentesche. Si designa, in senso lato, come “espressionistica” una forma di rappresentazione artistica lontana dall’equilibrio, incline alla “deformazione” (in tal senso, sono espressionistiche le rappresentazioni del corpo di questa lauda), o all’esasperazione dei contrasti (si possono a tal proposito ripetere le osservazioni appena svolte sul “carnevalesco”); ma anche la compresenza stridente di termini appartenenti a registri differenti e lontani, come voci lessicali tecniche e dotte («ydropesia») e parole del gergo basso («coglia») rende il linguaggio artistico “espressionistico”. |
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