B16
Anonimo
Il placito di Capua

Sao1 ko2 kelle3 terre, per kelle fini4 que5 ki6 contene7, trenta anni8 le possette parte sancti Benedicti9.

So che quelle terre, entro quei confini che qui sono indicati, per trenta anni le ebbe in possesso il monastero di San Benedetto.





Placito: sentenza emessa da un giudice a conclusione del processo; dal latino placitum, ciò che è piaciuto (al giudice).

1 Sao: So. È forma di origine discussa. Il latino aveva sapio e i dialetti campani saccio. Potrebbe trattarsi di una forma creata per analogia con altre forme campane (dao, stao). Qualcuno pensa invece che si tratti di una forma proveniente dall’Italia settentrionale, diffusa attraverso scambi culturali (per esempio i pellegrinaggi) o comunque conosciuta e usata dai giuristi..

2 ko: che, dal latino quod che in età imperiale, introduceva regolarmente le proposizioni dichiarative. Questa forma si sostituisce al costrutto classico dell’accusativo con l’infinito.

3 kelle: quelle, dal latino eccu(m) illae.

4 per…fini: entro quei confini. Il plurale femminile “fini” è usato ancora oggi in Campania.

5 que: pronome relativo, che non presenta – a differenza della congiunzione quod – l’evoluzione di qu in k.

6 ki: qui, dal latino eccu(m) hic.

7 contene: i testimoni che pronunciavano la formula tenevano in mano una carta sulla quale erano indicati i confini delle terre sul cui possesso si disputava.

8 trenta anni: secondo il diritto romano – dal quale derivano molte norme giuridiche moderne – chi dimostra di avere posseduto un bene per un lungo periodo di tempo (in questo caso, trattandosi di terre, devono trascorrere almeno trent’anni) ne è considerato, a tutti gli effetti, proprietario. Questo istituto giuridico si chiama usucapione.

9 parte sancti Benedicti: si usa qui, per il complemento di specificazione, la forma del genitivo singolare latino (anche se «sancti» veniva ormai pronunciato «Santi»). Si tratta di un uso comune nella denominazione di luoghi. Da esso deriva la moderna denominazione delle strade e delle piazze senza la preposizione “di” (“piazza Santa Maria degli Angeli” e non “piazza di Santa Maria degli Angeli”, “via Garibaldi” e non “via di Garibaldi”, ecc).



Livello lessicale, sintattico, stilistico
Il documento è databile al marzo 960 d.C. e presenta alcuni fenomeni linguistici tipici del volgare di area campana:
- la perdita della u nella labiovelare qu, che si trasforma in «ko» (dal latino quod); la forma del pronome relativo rimane invece vicina all’uso latino («que»).
- il verbo «contene», che non ha subito il dittongamento tipico del toscano (da cui l’italiano “contiene”).
- l’uso pleonastico del pronome «le» (diffuso anche oggi nel parlato), che rafforza, in funzione di complemento oggetto, la precedente espressione «kelle terre».
Ancora latina è la forma del genitivo «sancti Benedicti» per indicare i terreni posseduti dal monastero, secondo un uso peraltro frequente per la denominazione dei luoghi (cfr. nota 10). Di incerta origine, infine, è la forma «sao» (cfr. nota 2).

Livello tematico
L’uso del volgare in questo documento (che fa parte di una raccolta comprendente quattro placiti) è filtrato dalla mediazione di uomini di legge che padroneggiavano perfettamente il latino. Il giudice Arechisi era stato chiamato a risolvere una lite giudiziaria tra un tale Rodelgrimo di Aquino e l’abate del monastero di Montecassino: l’uomo rivendicava come propri dei terreni che, invece, tre testimoni indicarono come possedimenti del monastero, localizzandone i confini su una carta. Gli atti furono trascritti in latino, ma contenevano questa formula in volgare, ripetuta da tutti e tre i testimoni (che parlarono, come dice il verbale, «quasi ex uno ore», quasi con una bocca sola). La deposizione dei tre testimoni viene trascritta da un notaio.
La compresenza di latino e volgare nel verbale del dibattimento può essere esemplificata da questo passo del Placito, nel quale le due lingue si succedono senza segni di interpunzione:

Ille autem, tenens in manum memoratam abbreviaturam, et tetigit eam cum alia manu, et testificando dixit sao ko kelle terre…1

È evidente che si tratta di un volgare filtrato da uomini di cultura. La stessa identità della formula, ripetuta esattamente dai tre testimoni, dimostra che il testo è frutto della “dettatura” del giudice. Non siamo quindi di fronte alla «riduzione scritta di frasi pronunciate ex abrupto», bensì ai «primi documenti di un linguaggio cancelleresco» (Migliorini).
Il giudice e il notaio, evidentemente, si sono trovati di fronte alla necessità di acquisire e trascrivere le dichiarazioni in una lingua che fosse comprensibile non solo ai testimoni, ma a tutta la comunità locale, a persone non direttamente impegnate nella disputa ma comunque interessate all’esito della stessa.
L’uso del volgare ha quindi, in questo conteso, funzione ben diversa da quella rivestita nell’Indovinello Veronese [B15]; non ci troviamo più di fronte al divertimento linguistico di uomo di cultura, ma alla necessità – avvertita sempre da uomini dotti, abituati ad esprimersi in latino – di accogliere negli atti, almeno in parte, forme linguistiche a tutti comprensibili.




1 Quello quindi, tenendo in mano la memoria citata, la toccò con l’altra mano, e disse testimoniando “so che quelle terre”…


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