I10b
Giovanni Boccaccio
Le conseguenze sociali della peste
Decameron Introduzione, 4-9

4. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare1. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere2: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano3. Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male4: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere5. E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abandono: di che le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che a esse s’avvenisse, come l’avrebbe il propio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere6. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e essecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare7. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente8. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pistilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti9: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pistolenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta10.
5. E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno11. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano12: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito13; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano14. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro subsidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano15. E da questo essere abbandonati gli infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito16: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse17; il che, in quelle che ne guerirono fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione18. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno19; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pistolenza, era tanta nella città la moltitudine di quelli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo20. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi21.
6. Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato22. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pestilenza, o tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero23. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’eran di quelli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole24; la quale usanza le donne, in gran parte postposta la donnesca pietà, per salute di loro, avevano ottimamente appresa25. E erano radi coloro i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa acompagnato26; dei quali non gli orrevoli e cari cittadini, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente (che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva) sotto entravano alla bara27; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quatro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno28; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo oficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano29.
7. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il raguardamento di molto maggior miseria pieno30: per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano31. E assai n’erano che nella strada publica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno32. Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati33. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato34: e quindi fatte venir bare, e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola, ne ponevano35. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ’l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno36. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto e tal fiata più37. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre38; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti39. Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti40: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia41.
8. E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’ alcuna cosa risparmiò il circustante contado42. Nel quale, lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla città, per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno43; per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano44: anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno45. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere non che raccolte ma pur segate, come meglio piaceva loro se n’andavano46. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli47.
9. Che più si può dire, lasciando stare il contado e alla città ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ’l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti48? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti49! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere50! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati51!




1 Dalle quali cose… salute acquistare: E da questi fatti (Dalle quali cose: si riferisce al contagio descritto nei capoversi precedenti [I10a]) e da molti altri simili a questi o più gravi, ebbero origine diverse immaginazioni paurose (paure e imaginazioni, endiadi) in coloro che rimanevano vivi, e <esse> inducevano (tiravano) quasi tutti a uno scopo (a un fine) assai crudele, ossia (ciò era) di evitare e di sfuggire (di schifare e di fuggire, dittologia sinonimica) i malati e gli oggetti venuti a contatto con loro; e così facendo ognuno credeva di procurare la propria salvezza.

2 E erano… accidente: E vi erano alcuni i quali credevano (avvisavano) che vivere moderatamente ed evitare (il guardarsi da) ogni cosa superflua fosse un efficace rimedio (avesse molto… resistere) a simile accadimento (a così fatto accidente).

3 e fatta lor brigata… si dimoravano: e riunitisi in gruppi (fatta lor brigata), vivevano separati da tutti gli altri, e raccogliendosi e rinchiudendosi in quelle case dove non ci fosse nessun malato (dove niuno infermo fosse) e <ci fosse> da vivere meglio, facendo uso parsimonioso (temperatissimamente usando) di cibi delicatissimi e di vini ottimi e fuggendo ogni stravizio (lussuria), senza permettere ad alcuno di parlare <con loro> (senza lasciarsi parlare a alcuno) o <senza> volere sentire alcuna notizia <proveniente> da fuori sulla morte o sugli ammalati (infermi), vivevano (si dimoravano) con la musica (suoni) e con quei piaceri che potevano avere. Il periodo segue una costruzione alla latina, con la principale collocata alla fine delle varie proposizioni subordinate, perlopiù implicite con il verbo al gerundio. I verbi delle subordinate sono sempre posti a fine proposizione.

4 Altri… tanto male: Altri, indotti (tratti) nell’opinione contraria, affermavano che il bere abbondantemente, l’andare in giro (a torno) cantando e vivendo allegramente (sollazzando) e il dar soddisfazione al desiderio (appetito) di ogni cosa possibile (che si potesse), e ridere e farsi beffe di ciò che avveniva, fosse (esser, verbo all’infinito perché la proposizione, dipendente da «affermavano», è costruita alla latina) medicina efficacissima (certissima) per un così grande male.

5 e così come… in piacere: e così come lo dicevano lo mettevano in pratica (in opera) come potevano, andando giorno e notte ora in quella, ora in quell’altra taverna, bevendo senza moderazione e senza misura (senza modo e senza misura; poiché «modo» va inteso nel significato latino, come nell’oraziano «est modus in rebus», l’espressione costituisce una dittologia sinonimica) e comportandosi in questo modo (ciò… faccendo) soprattutto (molto più) nelle case degli altri (per l’altrui case), non appena (solamente che) sapessero <che c’erano> lì (vi sentissero) cose che risultassero di loro gradimento o gusto (lor venissero a grado o in piacere, altra dittologia sinonimica).

6 E ciò… potere: E potevano fare ciò facilmente (di leggiere), poiché (per ciò che) ognuno, come se non dovesse più vivere, aveva abbandonato le sue cose come <aveva abbandonato> se stesso (aveva, sì come sé, le sue cose messe in abandono): per la qual cosa (di che) la maggior parte delle abitazioni erano divenute comuni, e così le usava chi non vi risiedeva abitualmente (lo straniere), purché ne entrasse in possesso (pure che ad esse s’avvenisse), come le avrebbe usate il proprietario; e nonostante questa (con tutto questo) intenzione (proponimento) disumana (bestiale), evitavano sempre gli ammalati quanto era possibile (a lor potere). Si comincia a descrivere uno degli effetti sociali della peste, lo sciacallaggio di coloro i quali approfittavano del contagio per impadronirsi delle ricchezze altrui, violando la proprietà privata.

7 E in tanta afflizione… d’adoperare: E in così grande sofferenza e miseria (afflizione e miseria, dittologia sinonimica) della nostra città la venerabile (reverenda) autorità delle leggi, sia divine che umane, era quasi tutta crollata e distrutta (caduta e dissoluta, dittologia sinonimica) per via degli amministratori ed esecutori di esse, i quali, come gli altri uomini, erano tutti o morti, o malati, o rimasti così sprovvisti (stremi) di dipendenti (famiglia), che non potevano svolgere alcuna funzione (uficio); per cui a ciascuno era lecito fare (d’adoperare) quel che gli piaceva (quanto a grado gli era).

8 Molti altri… puzzolente: Molti altri tenevano (servavano) una via di mezzo (mezzana), tra questi due <estremi> di cui sopra si è parlato (di sopra detti), non limitandosi nei cibi quanto i primi (cfr. nota ) né lasciandosi andare (allargandosi) al bere e alle altre dissolutezze quanto i secondi (cfr. nota ), ma facevano un uso sufficiente delle cose secondo i loro desideri (appetiti) e andavano in giro senza rinchiudersi, portando nelle mani chi fiori, chi erbe profumate (odorifere) e chi diversi generi (diverse maniere) di spezie (spezierie) e avvicinandole spesso al naso, ritenendo (estimando) che fosse un’ottima cosa ristorare il cervello (cerebro) con tali odori, poiché (con ciò fosse cosa che) tutta l’aria sembrava (paresse, al congiuntivo perché retto da «con ciò fosse cosa che») impregnata e puzzolente per il puzzo dei corpi morti, dei malati (delle infermità, metonimia) e delle medicine.

9 Alcuni… loro davanti: Alcuni erano di avviso (sentimento) più crudele, benché (come che) per caso (per avventura) <questo modo di pensare> fosse più prudente (sicuro), e dicevano (dicendo) che non c’era nessun’altra medicina (niuna altra medicina essere, costrutto latineggiante) contro le pestilenze migliore o altrettanto buona che il fuggire davanti a esse.

10 e da questo argomento… esser venuta: e mossi da questa convinzione (argomento), preoccupandosi solo per se stessi, molti (assai) uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i loro luoghi e i loro parenti e le loro cose, e cercarono la campagna (contado) di altre città (altrui) o almeno di Firenze (il lor), come se l’ira di Dio con quella pestilenza non si indirizzasse (procedesse) a punire le colpe (iniquità) degli uomini dovunque (dove) essi fossero, ma <una volta> eccitata (commossa) mirasse (intendesse) a colpire (opprimere) soltanto coloro che si trovassero dentro le mura della loro città, o come se credessero (quasi avvisando, riferito a «uomini e donne») che in quella <città> non dovesse rimanere nessuno e che la sua ultima ora fosse giunta.

11 E come… languieno: E sebbene (come che) non morissero tutti costoro che avevano così diverse opinioni (così variamente oppinanti), non per questo tutti sopravvivevano (campavano): anzi, ammalandosi (infermandone) i <sostenitori> di ciascuna <opinione> in gran numero (molti) e in ogni luogo, languivano (languieno) quasi completamente (per tutto) abbandonati, avendo essi stessi, quando erano sani, dato esempio a coloro che non erano contagiati (sani rimanevano). Coloro insomma che, pur essendo mossi dalle più diverse «paure e imaginazioni», erano arrivati alla comune e disumana conclusione «di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose» (cfr. nota 1), trascurando i normali rapporti di solidarietà sociale con i loro concittadini, subivano lo stesso trattamento una volta colpiti dal contagio.

12 E lasciamo stare… di lontano: E tralasciamo <il fatto> che ogni cittadino evitasse gli altri cittadini, e <che> quasi nessun vicino avesse cura dell’altro <vicino>, e <che> i parenti si vedessero (visitassero) insieme rare volte o mai, e da lontano. Inizia qui un climax ascendente che descrive gli effetti della peste sui comportamenti sociali. Il contagio recide i rapporti non solo tra concittadini, ma anche tra vicini di casa e tra parenti.

13 era con sì fatto… il suo marito: questa sofferenza (tribulazione) era entrata negli animi (petti) degli uomini e delle donne con tale paura (sì fatto spavento) che un fratello abbandonava l’altro, lo zio <abbandonava> il nipote, la sorella <abbandonava> il fratello, e spesso la donna <abbandonava> suo marito. È il secondo momento del climax: anche i rapporti di parentela più stretti vengono recisi dal contagio.

14 e… schifavano: e, <il> che è cosa più grave (maggior) e quasi incredibile, i padri e le madri evitavano (schifavano) di andare a trovare (visitare) e di assistere (servire) i figlioli, come se (quasi) non fossero <figli> loro. È il momento culminante del climax: la dissoluzione dei rapporti interpersonali e del senso di umanità giunge al punto che i genitori abbandonano i figli.

15 Per la qual cosa… perdevano: Per cui a coloro, il cui numero (moltitudine) era inestimabile, sia uomini che donne, che si ammalavano, non rimase nessun altro aiuto (niuno altro subsidio) che la carità degli amici (e di costoro ce ne furono pochi) o la cupidigia dei servi (de’ serventi), i quali attratti (tratti) da compensi grandi e sproporzionati (grossi salari e sconvenevoli) <li> servivano, benché nonostante ciò (per tutto ciò, ossia nonostante i lauti compensi) <i servitori> non fossero divenuti numerosi (molti): e quei pochi (quegli cotanti) erano uomini o donne di mentalità grossolana (di grosso ingegno), e per la maggior parte non esperti (non usati) di tali servizi, i quali limitavano il loro servizio a (di niuna altra cosa servieno che di) porgere alcune cose richieste (adomandate) dai malati o a constatare la loro morte (riguardare quando morieno); e, svolgendo tale servizio, molte volte rovinavano (perdeano) se stessi insieme col guadagno. Questi servitori insipienti e avari, insomma, erano spesso essi stessi vittime del contagio.

16 E da questo… udito: E a causa di questa <abitudine che> gli ammalati fossero (essere) abbandonati dai vicini, dai parenti e dagli amici, e <a causa del fatto> di avere penuria di servitori, ebbe origine (discorse) un’usanza quasi mai prima (davanti) udita.

17 che niuna… richiedesse: che nessuna donna, per quanto (quantunque) fosse leggiadra o bella o gentile, ammalandosi (infermando) provava ritrosia (curava) nell’avere al suo servizio un uomo, sia che (qual che) egli fosse giovane o no (o altro), e <non provava ritrosia> nel mostrare (aprire) a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo, non diversamente (non altramenti) di come avrebbe fatto con una donna, purché (solo che) lo richiedesse il bisogno della sua malattia. La peste distrugge dunque nelle donne il naturale senso del pudore.

18 il che… cagione: il che nelle donne (in quelle) che ne guarirono fu forse motivo (cagione) di minore rispettabilità (minore onestà) nel tempo che seguì.

19 E oltre… sarieno: E inoltre (oltre a questo) da ciò (ne, ossia dall’abbandono dei malati) conseguì (seguio) la morte di molti che sarebbero sopravvissuti (campati sarieno) se per caso (per avventura) fossero stati aiutati (atati).

20 di che… a riguardarlo: sicché (di che), in parte (tra) per la mancanza di adeguate cure (servigi), che i malati non potevano ricevere, in parte (e) per la forza del contagio, era così grande (tanta) nella città il numero (moltitudine) di coloro che di giorno e di notte morivano, che era cosa stupefacente (uno stupore) a sentirne parlare, nonché a constatarlo di persona (riguardarlo).

21 Per che… vivi: Per cui, quasi a causa della necessità, si diffusero, tra coloro che sopravvivevano (li quali rimanean vivi), abitudini opposte alle usanze precedenti (cose contrarie a’ primi costumi) dei cittadini. Si introduce qui una ulteriore conseguenza sociale del contagio: l’abbandono di usanze funebri tradizionali, improntate a pietà religiosa e senso di umanità, e l’affermarsi di altri costumi diversi e disumani.

22 Era usanza… piagnevano: Era usanza, come ancora oggi vediamo fare di solito (usare), che le donne imparentate e <le> vicine si radunassero nella casa del morto e lì piangessero con quelle che erano con loro in più stretti rapporti (più gli appartenevano); e d’altra parte davanti alla casa del morto si riunivano con i suoi parenti i vicini e molti altri cittadini, e secondo il rango sociale (qualità) del morto vi veniva il clero (chiericato); ed egli era trasportato sulle spalle (omeri) dei suoi pari, con solenne rito (pompa) funebre con candele accese (cera) e con canti, alla chiesa da lui precedentemente scelta (prima eletta) prima della (anzi la) morte. Si tratta dei normali riti funerari, che si celebravano prima della pestilenza e che sarebbero ripresi solo dopo di essa.

23 Le quali cose… sopravennero: E queste usanze (Le quali cose), quando iniziò ad aumentare (poi che a montar) la ferocia della pestilenza, quasi cessarono, o completamente o in gran parte, e ne sopraggiunsero al loro posto delle altre nuove.

24 Per ciò che… compagnevole: Per cui, non soltanto le persone morivano senza avere intorno molte donne (cfr. nota ), ma vi erano molti che trapassavano da questa vita senza testimoni; e pochissimi erano coloro ai quali furono concessi (concedute) i pianti pietosi e le lacrime amare dei loro cari (suoi congiunti), anzi, al posto di quelli dai più (per li più) si usavano risate, scherzi (motti) e feste con allegre compagnie (festeggiar compagnevole).

25 la quale usanza… appresa: usanza che le donne, avendo in gran parte dimenticato (postposta) la pietà femminile (donnesca), avevano molto bene appresa per la loro salvezza.

26 Ed erano radi… accompagnato: Ed erano pochi quelli i cui cadaveri (i corpi de’ quali) fossero accompagnati (accompagnato: il participio al singolare è riferito a «corpi»; questa forma indeclinata è tipica del Trecento) alla chiesa da più di dieci o dodici loro vicini.

27 de’ quali… bara: e sotto la <loro> bara non si ponevano (entravano) <per portarle in spalla> gli onorevoli ed illustri (orrevoli e cari, dittologia sinonimica) cittadini, ma una specie (maniera) di beccamorti provenienti da gente di bassa condizione (minuta gente) che si facevano chiamare becchini, e che facevano questi servizi a pagamento (prezzolata, concordato con «maniera»).

28 e quella… senza alcuno: e quella <specie di becchini>, con passi frettolosi, non lo portavano (il, pronome complemento riferito al morto) a quella chiesa che egli aveva scelto (disposto) prima della morte, ma quasi sempre (le più volte) alla più vicina, dietro quattro o sei preti con poche candele (poco lume, singolare collettivo) e tal volta (fiata) senza alcuna candela.

29 li quali… il mettevano: i quali <preti> con l’aiuto dei suddetti becchini, senza affaticarsi in una celebrazione troppo lunga o solenne, lo (il) mettevano in qualunque sepolcro trovassero prima (più tosto) libero.

30 Della minuta… pieno: La vista (il raguardamento) della gente povera (minuta) e forse in gran parte di quella di media condizione (mezzana, la borghesia) era molto più miserevole (di molto maggior miseria pieno).

31 per ciò… tutti morivano: per il fatto che essi, nella maggior parte dei casi (il più) trattenuti nelle loro case o dalla speranza o dalla povertà, restando nelle vicinanze si ammalavano a migliaia ogni giorno, e non essendo né serviti né aiutati (atati) in alcun modo, quasi senz’alcuno scampo (redenzione) morivano tutti.

32 E assai n’erano… tutto pieno: E ce n’erano molti che di giorno o di notte morivano (finivano) sulla pubblica strada e molti, benché (ancora che) morissero nelle case, facevano capire (sentire) ai vicini di essere morti (sé esser morti, proposizione infinitiva alla latina) prima con il puzzo dei loro cadaveri in decomposizione (corrotti) che in altro modo; e tutto <era> pieno di questi e degli altri che morivano dappertutto.

33 Era… trapassati: Una medesima usanza era per lo più (il più) osservata dai vicini, mossi più (non meno, litote) dalla paura (tema) che la decomposizione (la corruzione) dei cadaveri potesse nuocere loro (non gli offendesse, costruzione ricalcata su quella latina dei verba timendi) che dalla carità che avevano nei confronti dei morti (a’ trapassati).

34 Essi… andato: Essi (cioè i vicini) sia da soli (per se medesimi) sia con l’aiuto di alcuni becchini (portatori), quando potevano trovarne, portavano fuori dalle (traevano delle) loro case i corpi dei morti (già passati) e li ponevano davanti alle loro porte, dove, specialmente di mattina, chi fosse andato in giro (attorno andato) avrebbe potuto vederne moltissimi (senza numero).

35 e quindi… ponieno: e quindi, fatte sopraggiungere le bare, ve li deponevano (ne ponieno), e <ci> furono alcuni (tali) che per mancanza (per difetto) <delle bare li deponevano> sopra qualche tavola.

36 Né fu una bara… ne contenieno: E ci furono diverse bare (Né fu una bara sola quella, litote) che contennero insieme (insiememente, forma con suffisso tipica del Trecento) due o tre di essi (ne, riferito ai morti) e <ciò> non avvenne soltanto (pure) una volta, ma se ne sarebbero potute contare (annoverare) molte di quelle che contenevano la moglie e il marito, due o tre fratelli, il padre e il figlio, o gruppi del genere (così fattamente).

37 E infinite volte… e tal fiata più: E avvenne un’infinità di volte che, mentre due preti andavano con una croce per <il funerale di> qualcuno, tre o quattro bare, trasportate dai becchini, si misero dietro alla prima (a quella); e mentre (dove) i preti credevano di dovere (avere a) seppellire un morto, ne dovevano (aveano) <seppellire> sei o otto e talora (tal fiata) di più.

38 Né erano per ciò… di capre: Né per questo <i morti> erano onorati da alcuna lacrima o candela o accompagnamento <funebre>, anzi la cosa era giunta a tal punto (a tanto), che <ci> si curava degli uomini che morivano non diversamente (non altramenti) da quanto oggi <ci> si curerebbe di capre. Il paragone tra la sepoltura degli uomini e quella delle capre sottolinea la perdita del comune senso di umanità.

39 perché assai… curanti: per cui apparve assai chiaro (assai manifestamente apparve) che la grandezza dei mali aveva reso (far) accorti (scorti) e rassegnati (non curanti) anche (eziandio) i semplici davanti a quelle <disgrazie> (quello) delle quali, con piccoli e non frequenti dolori (con piccoli e radi danni), il corso naturale degli eventi non aveva potuto insegnare (mostrare) ai saggi la necessità di sopportarle pazientemente (doversi con pazienza passare). Il periodo, complicato da un anacoluto («quello che»… «far di ciò») è assai difficile da parafrasare, ma il senso complessivo è chiaro: in condizioni normali, cioè quando i dolori sono moderati e non frequenti, i savi non sanno rassegnarsi; invece durante la peste la rassegnazione, data l’entità del male, era stata appresa anche dagli ignoranti.

40 Alla gran moltitudine… i sopravegnenti: Non essendo la terra consacrata alle sepolture sufficiente alla gran quantità (moltitudine) di cadaveri di cui si è parlato (mostrata), che affluiva a ogni chiesa ogni giorno e quasi a ogni ora, soprattutto se si fosse voluto (massimamente volendo) dare a ciascuno una sepoltura adeguata (luogo proprio) secondo l’antico costume, nei cimiteri delle chiese, poiché non c’era spazio (ogni parte era piena), si facevano fosse grandissime nelle quali si mettevano a centinaia i cadaveri che arrivavano (i sopravegnenti).

41 e in quelle stivati: e avendoli ammassati (stivati) in quelle, come si mettono a strati (a suolo a suolo) le mercanzie nelle navi, venivano ricoperti con poca terra fino a quando si arrivava (pervenia) alla sommità della fossa. Dopo quella delle capre (cfr. nota ), un’altra similitudine che sottolinea la perdita del senso di umanità: i cadaveri sono ridotti a semplici oggetti da ammassare in modo che occupino il minor spazio possibile.

42 E acciò… morieno: E affinché non vada più inseguendo (più ricercando non vada), <soffermandomi> su ogni <minimo> dettaglio (dietro a ogni particolarità), le nostre passate disgrazie (miserie) accadute in città, dico che una così infausta realtà (così inimico tempo, ossia la peste) imperversando (correndo) per la città stessa (per quella), non per questo risparmiò in minima misura (meno d’alcuna cosa) il contado circostante.

43 Nel quale… morieno: Dove (Nel quale, riferito a «contado), lasciando da parte i castelli, che erano simili, <sebbene> nel loro piccolo (nella lor piccolezza), alle città, per le isolate case di campagna (sparte ville) e per i campi i contadini (lavoratori) miseri e poveri e le loro famiglie morivano, senza alcun intervento (alcuna fatica) di medici o aiuto di servitori, per le strade e per i loro campi coltivati (colti) e per le case, di giorno e di notte indifferentemente, non come uomini, ma quasi come bestie.

44 per la qual cosa… curavano: e per questo motivo essi (cioè i contadini), divenuti negligenti (lascivi) nelle loro usanze così come coloro che abitavano in città (i cittadini), non si preoccupavano di alcuna loro attività o faccenda.

45 anzi tutti… con ogni ingegno: anzi tutti, quasi <come se in> quel giorno nel quale erano giunti (si vedevano essere venuti) aspettassero la morte, si sforzavano con ogni mezzo (con ogni ingegno) non di aiutare <a nascere> i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quei <frutti> che si trovavano presenti. Nelle campagne si capovolge il paradigma dell’operosità degli allevatori e dei contadini, non più intenti a far prosperare il bestiame e accrescere il raccolto, ma frettolosi di consumare i beni attualmente disponibili.

46 Per che adivenne… se n’andavano: Per cui avvenne <che> i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e gli stessi cani fedelissimi agli uomini, cacciati fuori dalle loro stalle (case), se ne andavano come meglio piaceva loro per i campi, dove ancora erano abbandonate le biade, senza essere state non dico (non che) raccolte, ma neppure mietute (pur segate).

47 E molti… si tornavano satolli: E molti, quasi come <esseri> intelligenti (razionali), dopo che di giorno si erano ben nutriti, di notte tornavano sazi (satolli) alle loro stalle (case), senza alcuna guida (correggimento) di pastore. È un paradossale capovolgimento del rapporto uomini-animali: in un contesto in cui sono spariti i tratti distintivi dell’umanità, solo le bestie sembrano comportarsi come esseri razionali.

48 Che si può più dire… dentro avuti: Che cosa si può più dire, lasciando da parte il contado e tornando <a parlare della> città, se non che la crudeltà degli influssi astrali (del cielo), e forse in parte quella degli uomini, fu tale che tra il marzo e il luglio successivo (il prossimo luglio vegnente) – in parte (tra) per la virulenza (forza) del contagio della peste, in parte (e) per il fatto che molti malati erano male assistiti o abbandonati in stato di bisogno, a causa della paura che avevano i sani – si calcola con certezza (si crede per certo) che dentro le mura della città di Firenze siano morti (essere stati di vita tolti, consueta costruzione dell’infinitiva alla latina) più di centomila esseri umani, mentre (che) forse, prima della malattia mortale (accidente mortifero), non si sarebbe pensato (estimato) che in città (dentro) ve ne fossero stati (avervene… avuti) altrettanti?

49 O quanti gran palagi… rimaser voti: O quanti grandi palazzi, quante belle case, quante nobili abitazioni (abituri), precedentemente (per addietro), piene di famiglie, di signori e di dame (donne, dal latino dominae), rimasero vuote fino al più umile fanciullo (menomo fante)!

50 O quante memorabili… rimanere: O quante stirpi illustri (memorabili schiatte), quante grandissime eredità, quante famose ricchezze si videro restare senza erede legittimo (successor debito)!

51 Quanti valorosi… passati: Quanti uomini valorosi, quante belle donne, quanti gentili giovani, che non altri, ma Galeno, Ippocrate (due famosi medici greci che vissero, il primo, a Pergamo nel II sec a.C., il secondo a Coo nel V sec. a.C.) o Esculapio (dio inventore della medicina) avrebbero giudicato sanissimi, la mattina pranzarono con i loro genitori (parenti, latinismo), compagni e amici, e (che: il pronome relativo va riferito a «uomini», «donne» e «giovani») poi la sera subito successiva (veggente appresso) cenarono con i loro antenati (passati) nell’altro mondo! Secondo Branca Boccaccio cita indirettamente in questo periodo un detto di Leonida prima della battaglia delle Termopili, conosciuto grazie alle Tusculanae disputationes di Cicerone («Hodie apud inferos fortasse cenamibus»; I, 42) o ai Factorum et dictorum memorabilium libri novem di Valerio Massimo («Sic prandete commilitones, tamquam apud inferos cenaturi»; III, 2-3). Il periodo è di tono elevato: la ripetizione anaforica di «quante» e «quanti» domina l’intero passo, rafforzata dal parallelismo («quante» - «quanti» seguito da aggettivo). Sono inoltre presenti il cursus velox («nobili abituri»; «debito rimanere»; «Ipocrate o Esculapio»), il cursus planus («di signori e di donne»; «compagni e amici») e il cursus tardus («ricchezze si videro; giudicati sanissimi») [I10a, analisi, nota 2].



Dalla fisiologia della peste alla psicologia dei sopravvissuti
Il secondo movimento di questa introduzione tripartita, dedicato a descrivere gli effetti etico-sociali della peste, si innesta sull’immagine terrificante dei porci morti sulla pubblica via dopo essere venuti a contatto con gli stracci di un appestato. Concludendo la descrizione fisiopatologica del contagio, il narratore aveva sottolineato come tale racconto potesse apparire incredibile a chi lo ascoltasse («Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire») e tuttavia aveva chiamato i propri occhi a testimoni della veridicità dello stesso [I10a, 3]. Ora la narrazione si sofferma sulle reazioni psicologiche di quanti quotidianamente assistevano a tale misero spettacolo.
Il tono, come si è mostrato nelle note, è generalmente elevato, con periodi ipotattici di grande complessità e frequenti iperbati, costruzioni latineggianti, ecc. Al centro della narrazione non sono più gli appestati con le loro sofferenze, ma coloro che in qualche maniera sono scampati al contagio (anche se rimangono esposti al rischio di contrarlo in qualsiasi momento), con le loro reazioni psicologiche. Tali reazioni appaiono assai varie e il narratore si sofferma a descriverle puntualmente. Tutte però producono il medesimo effetto di disgregazione del civile consorzio e dei naturali rapporti di solidarietà che ne sono il fondamento.
Sia che si riuniscano a vivere con prudenza fuggendo ogni contatto con l’esterno, sia che si lascino andare alla crapula e allo sciacallaggio invadendo abitazioni incustodite e saccheggiando ricchezze abbandonate, sia infine che preferiscano adottare una via di mezzo tra questi due estremi, i fiorentini sopravvissuti pervengono «tutti quasi a un fine […] assai crudele», che consiste nello «schifare e fuggire gli infermi e le lor cose». Firenze, che nella prima parte dell’Introduzione era stata definita «egregia» [I10a, 3] in quanto paradigma di civiltà, si presenta dunque ora agli occhi del lettore come la negazione della civiltà stessa. Disponendo gli elementi del racconto secondo un ben calcolato climax, il narratore analizza il disordine morale in cui è precipitata la città, corrispettivo del disordine naturale rappresentato dal contagio.

Lo stravolgimento dei rapporti sociali e giuridici
Nella Firenze flagellata dalla peste la vita sociale è distrutta dalle fondamenta. Gli uomini «schifano» gli altri uomini, decidono di vivere in solitudine («da ogni altro separati») ovvero si considerano sciolti da tutti vincoli sociali e morali e vivono «senza modo e senza misura» [3]. Eclatante è il fatto che in una società di mercanti, in cui la proprietà privata è valore fondante e garanzia del prestigio personale, proprio quest’ultima venga abbandonata e offesa. Il disordine si riflette anche nella diffusa illegalità, dal momento che coloro che hanno il compito di imporre il rispetto delle norme muoiono insieme agli altri e non possono più compiere il loro essenziale ufficio.

Lo stravolgimento dei rapporti familiari e di vicinato
La peste recide anche i vincoli interni alla famiglia e quelli, ad essi analoghi, che regolano il vicinato. Il normale tessuto dei rapporti affettivi si disgrega di fonte a un unico sentimento, l’egoistico istinto di conservazione. Perfino i genitori smettono di curare i figli malati. In questo contesto anche il senso del pudore, uno dei fondamentali presupposti etici del vivere sociale, finisce per perdersi. Le donne, abbandonate a se stesse e non più assistite dalla famiglia o dai vicini, non si preoccupano nemmeno di mostrare il proprio corpo agli uomini.

I nuovi e feroci costumi di Firenze
Il piano etico e il piano sociale non possono essere scissi. «Quasi di necessità», sottolinea il narratore, tra i sopravvissuti si affermarono «cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini». Nella città in cui è distrutto il naturale senso del pudore, è logico che venga a cadere ogni rispetto per la morte. I riti funebri perdono la loro solennità e sacralità, si riducono ad azioni da svolgere nel più breve tempo possibile secondo l’unica legge dell’istinto di sopravvivenza: i morti rappresentano un pericolo incombente di contagio, dunque devono essere sbrigativamente eliminati. La rappresentazione della morte abbandona qui l’esattezza fisiopatologica della prima parte dell’Introduzione [I10a] e tocca le sue punte più macabre: desta orrore, spavento, contiene particolari orridi e raccapriccianti, si sofferma sul disfacimento del corpo senza dire nulla sul destino ultraterreno dell’anima. Queste pagine del Decameron sono lontanissime dalla rappresentazione serena della morte che caratterizzava per esempio la spiritualità francescana [C1] e che si ritrova anche in Dante. Il senso del macabro si afferma qui per la prima volta nettamente nella cultura letteraria medievale1.
La descrizione degli usi funebri sottolinea la perdita del senso di umanità da parte dei cittadini, i quali non hanno rispetto neanche dei luoghi sacri, abbandonano per strada i corpi dei defunti come se fossero rifiuti, creano fosse comuni ove gettare i cadaveri. Per la seconda volta nell’Introduzione, dopo l’episodio dei due porci [I10a, 3], il narratore si sofferma sul mondo degli animali: «non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre» [7]; si tratta di una non casuale sottolineatura dell’imbestiamento cui la peste ha condotto gli uomini, fino a sottrarre loro i segni distintivi della loro specie.

Uomini e bestie nel contado
In conclusione dell’Introduzione il narratore sposta la sua attenzione verso il «circustante contado». L’epidemia di peste si diffonde anche in campagna, luogo in cui il lavoro viene tradizionalmente celebrato come un sacro valore. Anche qui gli effetti disgreganti della peste sono talmente gravi che l’uomo abbandona il raccolto e la cura del bestiame. Per la terza volta, l’Introduzione mette in scena gli animali. Si verifica qui un vero e proprio capovolgimento del loro rapporto con gli uomini: sono infatti le stesse bestie, «quasi come razionali» (cioè come se fossero dotate di intelligenza e raziocinio) a ritornare autonomamente nelle stalle dopo aver soddisfatto l’istinto primario della fame. Con gli animali che prendono il posto dei pastori si conclude la descrizione degli effetti sociali della peste. Questa ha creato un vero e proprio mondo alla rovescia. Dopo aver nuovamente precisato le circostanze temporali dell’evento («infra ’l marzo e il prossimo luglio vegnente» ) il narratore, con una serie di interrogative dirette e di proposizioni esclamative, passa a celebrare il trionfo della morte, culminante nella macabra cena di coloro che, ancora vivi a pranzo, morivano prima del tramonto e quindi desinavano nell’aldilà con i loro antenati [9].

Dal mondo alla rovescia alla ricostituzione della socialità
Il tema macabro qui introdotto non rappresenta affatto, come pure sarebbe lecito attendersi da un autore medievale, un memento mori2. Esso non prelude in alcun modo alla celebrazione del distacco dalla terra e della rinuncia alla vita. Tale tema costituisce invece l’ultimo momento della descrizione di un mondo capovolto, della terrificante pittura di una società in cui tutte le leggi sono dissolte o stravolte. È questo lo sfondo sul quale, con forte effetto di contrasto, si dispiegherà la narrazione delle cento novelle del Decameron. Il narratore sta ormai per introdurre sulla scena i protagonisti umani del suo libro, i primi personaggi che verranno nominati e saranno provvisti di un'identità. Al quadro orribile, “meraviglioso” e disumano della peste succederà dunque la rappresentazione dell’allegra brigata dei giovani fiorentini [I10c]. A loro toccherà il compito di costituire il nucleo di una nuova socialità, di tessere una nuova rete di relazioni che ripristini i fondamenti della civiltà e rimetta al centro di essa i valori propriamente umani che la peste ha distrutto.




1 L'affermarsi di tematiche macabre appare un fenomeno della metà del Trecento. A questo periodo, più precisamente agli anni 1336-1342, risale una dele più famose rappresentazioni macabre delle arti figurative, il Trionfo della morte del Camposanto di Pisa. Si potrebbe osservare come alcuni elementi dell’opera di Jacopone, con la loro insistenza sul tema della morte, della malattia, del disfacimento, anticipino il tema del macabro. Tuttavia in Jacopone la morte e la sofferenza vengono invocate a punizione dei peccati dell’uomo [C3], e tale elemento distanzia nettamente la prospettiva del frate di Todi da quella presente in queste pagine di Boccaccio.

2 Epressione latina della liturgia che invita il fedele a ricordarsi di dover morire. Costituisce un invito a distaccarsi dai beni materiali e dalla vita terrena in quanto la vera vita è quella dell’aldilà e il mondo temporale è luogo di semplice transito verso l’eternità.



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