DIV14b
Dante Alighieri
L’ultimo del Paradiso - La visione di Dio
Divina Commedia Paradiso, XXXIII, 40-145

[Paradiso, canto XXXIII, vv. 40-145]
San Bernardo ha appena rivolto la sua preghiera alla Vergine, affinché conceda a Dante la visione di Dio [DIV14a]. Da questo momento, in Paradiso, nessuno parlerà più: Dante personaggio vive la sua esperienza mistica; Dante poeta la racconta, spingendo il linguaggio poetico ai limiti estremi della sua capacità di rappresentazione.

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati1; 42

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro2. 45

E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii3. 48

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea4: 51

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera5. 54

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio6. 57

Qual è colui che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede, 60

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa7. 63

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla8. 66

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi, 69

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente9; 72

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria10. 75

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi11. 78

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito12. 81

Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi13! 84

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna14: 87

sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume15. 90

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo16. 93

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa,
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo17. 96

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa18. 99

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta19; 102

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto20. 105

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella21 . 108

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante; 111

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’io, a me si travagliava22. 114

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza23; 117

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri24. 120

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer «poco»25. 123

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi26! 126

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta, 129

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo27. 132

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige, 135

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova; 138

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne28. 141

A l’alta fantasia qui mancò possa29;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa, 144

l’amor che move il sole e l’altre stelle30.






1 Li occhi… le son grati: Gli occhi <della Vergine>, amati (diletti) e venerati da Dio, fissi in colui che aveva pregato (ne l’orator, ossia san Bernardo), ci (ne) dimostrarono quanto le siano gradite le preghiere devote.

2 indi… tanto chiaro: poi si indirizzarono alla luce eterna <di Dio>, nella quale non si deve pensare che, da parte di (per) <ogni altra> creatura, si possa rivolgere (s’invii) lo sguardo (l’occhio) in modo così diretto (tanto chiaro). A nessuna creatura (né uomo né angelo) è concesso di guardare Dio come alla Vergine.

3 E io… in me finii: E io, che mi avvicinavo (appropinquava, verbo usato intransitivamente come il latino adpropinquo) alla meta ultima (al fine) di tutti i desideri (la visione di Dio è il massimo bene che si possa desiderare), così come dovevo <fare>, portai al culmine (finii) in me stesso l’ardore del desiderio. L’avvicinarsi al bene supremo accende e esalta il desiderio di Dante. L’espressione «fine di tutti i disii» riprende San Tommaso, che definisce Dio «ultimus finis humanae voluntatis» [«fine ultimo della volontà umana»] (Summa theologiae, II, ii, 122, 2).

4 Bernardo… qual ei volea: Bernardo mi faceva cenno, sorridendo, affinché io guardassi in alto (suso); ma io mi ero atteggiato (era) già spontaneamente (per me stesso) come (tal qual) egli voleva.

5 ché la mia vista… è vera: perché la mia vista, divenendo pura (sincera), sempre di più (e più e più) penetrava nel (entrava per lo) raggio dell’alta luce <di Dio> che deriva solo da se stessa (che per sé è vera, a differenza di tutte le altre luci, che dipendono da quella divina). Le facoltà di Dante si affinano progressivamente; ciò gli consente di volgere con sempre maggior sicurezza lo sguardo verso Dio.

6 Da quinci innanzi… oltraggio: Da questo momento in poi (Da quinci innanzi) la mia visione (veder, infinito sostantivato) fu maggiore (maggio) di quanto possa mostrare la parola, che è inadeguata (cede) a tale visione, così come (e) la memoria è inadeguata a tale dismisura (oltraggio, dal francese antico outrage – a sua volta derivato dal latino ultra – è da intendere senza la connotazione negativa che il termine possiede nell’italiano attuale). Il poeta confessa una duplice inadeguatezza: né la sua memoria né la sua parola potranno rendere appieno la visione, che ne travalica di gran lunga le capacità. Nelle terzine successive (vv. 58-66) egli ribadirà questo concetto con una serie di similitudini.

7 Qual è colui… nacque da essa: Quale è colui che vede <qualcosa> in sogno (sognando), in modo tale che dopo il sogno gli rimane impressa la sensazione (passione), ma tutto il resto non ritorna (riede, dal latino redire, ritornare) alla memoria (mente), tale sono io (il pronome si riferisce a Dante poeta, impegnato a ricordare e a raccontare), poiché è quasi interamente svanita (cessa, latinismo) la mia visione, e ancora mi gocciola (distilla, metafora) nel cuore la dolcezza (il dolce, aggettivo sostantivato) che nacque da essa. Lo stesso San Bernardo, di cui Dante ha fatto un personaggio di questo canto, descriveva la visione mistica come un excessus mentis seguito da amnesia.

8 Così la neve… di Sibilla: Così la neve si scioglie (disigilla) al sole; così la sentenza della Sibilla, scritta sulle (ne le) foglie leggere (lievi), si disperdeva al vento. La prima similitudine è in stretto rapporto con la terzina precedente: la neve rappresenta il sogno o la visione, che non ricordiamo già più quando siamo svegli, ma che ancora ci versa in cuore qualche goccia della sua dolcezza («distilla»), come neve che si sciolga al sole. La seconda similitudine proviene da Virgilio: la Sibilla Cumana era una sacerdotessa di Apollo che scriveva le sue profezie sulle foglie, disponendole in ordine nel suo antro. Ma quando qualcuno ne apriva la porta, il vento rimescolava tutte le foglie: la profezia diveniva così incomprensibile proprio nel momento in cui qualcuno si apprestava a leggerla.

9 O somma luce… a la futura gente: O immensa luce <di Dio> che tanto ti innalzi (levi) rispetto a ciò che l’uomo può concepire (da’ concetti mortali), presta nuovamente alla mia memoria (mente) un tenue ricordo (un poco) di come <allora ti> manifestavi (di quel che parevi), e rendi (fa) la mia lingua tanto potente che io possa mostrare ai posteri (a la futura gente) almeno una scintilla (favilla) della tua gloria. Nell’Epistola a Cangrande Dante – con riferimento al canto I del Paradiso spiega il termine «gloria» con «divinum lumen» o «divinus radius»: vi è dunque un’identificazione tra «gloria» e «luce».

10 ché per tornare… di tua vittoria: poiché si avrà un concetto più adeguato (più si conceperà) del tuo splendore (di tua vittoria) per il fatto che esso torni un po’ (per tornare alquanto) alla mia memoria, e per il fatto che esso risuoni (per sonare) un po’ in questi versi. Di nuovo Dante insiste sull’insufficienza di memoria e lingua, chiedendo a Dio di compensarla almeno in parte con la propria ispirazione.

11 Io credo… fossero aversi: Io credo che, a causa della luminosità (acume) del vivo raggio <di Dio> che io seppi sostenere con lo sguardo (ch’io soffersi, dal verbo latino suffero, che significa tollerare), sarei rimasto abbagliato (smarrito) se i miei occhi si fossero distolti (aversi, latinismo) da esso. A differenza della luce fisica, che può accecare chi la guarda, quella di Dio impedisce di distogliere da essa lo sguardo (da intendersi, nel contesto di questo canto, come sguardo intellettuale).

12 E’ mi ricorda… valore infinito: Io mi ricordo (E’ mi ricorda, costruzione impersonale) che per questo <motivo> io osai ancora di più (fui più ardito) tenere lo sguardo fisso (a sostener), fin quando portai a congiungersi (giunsi) il mio sguardo (l’aspetto mio) con l’infinita virtù (valore infinito) <di Dio>. Il progressivo potenziarsi delle facoltà visive conduce Dante alla visione intellettuale di Dio.

13 O abbondante… vi consunsi: O immensa (abbondante) grazia <di Dio>, per la quale (ond’) io osai (presunsi, verbo qui usato senza nessuna connotazione negativa) penetrare con lo sguardo nella (ficcar lo viso per la) luce eterna <di Dio>, fin quando (tanto che) adoperai fino all’estremo delle sue possibilità (consunsi) la capacità visiva (veduta)! Come prima aveva spinto all’estremo «l’ardor del desiderio» (cfr. nota ), adesso Dante conduce la vista al massimo della sua capacità.

14 Nel suo profondo… si squaderna: Vidi che nella sua profondità (Nel suo profondo, riferito alla «luce etterna») si raccoglie internamente (s’interna), legato con amore in unità (in un volume, metafora) tutto ciò che per l’universo si disperde (squaderna, metafora). La molteplicità dell’universo, che a noi appare dispersa e priva di ordine come i fogli di un volume squinternato, si raccoglie invece, nella profondità di Dio, in perfetta unità.

15 sustanze e accidenti… semplice lume: <vidi che nella sua profondità si congiungono> le sostanze (nella filosofia aristotelica, tutto ciò che esiste per sé), gli accidenti (tutto ciò che inerisce alla sostanza ma non riguarda la sua essenza) e le loro relazioni reciproche (lor costume), come se fossero amalgamati (conflati, latinismo) insieme, in modo tale che ciò che io racconto è solo un misero barlume (semplice lume).

16 La forma universal… ch’i’ godo: So di aver visto (credo ch’i’ vidi) il principio (forma) universale di questa unione (nodo) <del molteplice nell’uno>, perché, dicendo <ora> questo, sento che godo più intensamente (più di largo). Dante non ricorda più questa «forma universal» ma, nell’atto in cui ne parla, prova una gioia che lo convince di averla vista; cfr. vv. 58-63.

17 Un punto solo… l’ombra d’Argo: Un istante solo (un punto solo: quello in cui ha visto la «forma universal di questo nodo») è per me causa di una dimenticanza (letargo) maggiore, di quanto venticinque secoli <siano stati causa di dimenticanza> di fronte all’impresa che portò Nettuno ad ammirare l’ombra della nave Argo. Secondo la cronologia medievale, la nave Argo salpò alla volta della Colchide nel 1223 a.C. (dunque venticinque secoli prima di Dante), effettuando la prima traversata della storia e suscitando lo stupore di Nettuno, che ne vide la chiglia dalle profondità marine. Quest’impresa era spesso considerata l’atto iniziale della civiltà umana. Il lunghissimo tempo trascorso dal viaggio di Argo – cioè, appunto, l’intera storia della civiltà – non ha dunque determinato una completa dimenticanza di questo pur remoto evento; enormemente maggiore è la dimenticanza di Dante, relativa a un semplice istante («un punto solo»). La similitudine sottolinea di nuovo l’impossibilità, per il poeta, di ricordare e raccontare adeguatamente ciò che ha visto.

18 Così la mente… faceasi accesa: Così (cioè, forse, con stupore simile a quello di Nettuno; ma l’interpretazione è discussa) la mia mente, tutta assorta (sospesa), osservava fissa, immobile e attenta, e sempre <più> si infiammava dal desiderio (faceasi accesa) di guardare. Ancora una volta, la visione di Dio ci viene descritta come un processo in cui le capacità e il desiderio di conoscenza di Dante si accrescono continuamente.

19 A quella luce… mai si consenta: Davanti a quella luce si diventa tali che è impossibile che si desideri (consenta) mai distogliere lo sguardo da essa (volgersi da lei) verso un’altra visione (aspetto).

20 però che ’l ben… lì è perfetto: poiché (però che) il bene, che è l’oggetto cui tende la volontà (del volere obietto) si raccoglie tutto in essa (in lei, cioè nella luce di Dio) e, fuori da quella, è incompiuto (defettivo) tutto ciò che in essa () è compiuto (perfetto).

21 Omai sarà… a la mammella: D’ora in poi la mia parola (favella) sarà, anche solo (pur) di fronte a quel <poco> che io ricordo, più inadeguata (corta) di quella di un bambino (fante, aferesi da “infante”, che significa colui che non parla) che succhi ancora il latte della mamma (che bagni ancor la lingua alla mammella).

22 Non perché più… si travagliava: Non perché vi fosse più di un unico aspetto (semplice sembiante) nella viva luce che io guardavo (mirava), la quale è eternamente identica a come era prima (tal è sempre qual s’era davante); ma, a causa della mia vista che acquistava potenza (s’avvalorava) in me mentre guardavo (guardando), quello che era un unico aspetto (una sola parvenza) mi appariva continuamente diverso (a me si travagliava), in quanto ero io che cambiavo (mutandom’io). Il periodo delle due terzine, scandito da un punto e virgola ma da leggere unitariamente, ha come verbo reggente «travagliava» (v. 114). Dante vede in Dio un aspetto che muta di continuo, ma non perché Dio – che è eterno e immutabile – sia davvero come egli lo sta vedendo, bensì perché la facoltà visiva del poeta, arricchendosi progressivamente, scorge in lui in successione ciò che è invece sempre compresente. Si tratta in un certo senso di un’«illusione ottica» (Quaglio) che – come vedremo nell’approfondimento – non è affatto ingannevole, dal momento che indica la “metamorfosi” di Dante, il suo ««trasumanar» (cfr. Paradiso, I, v. 70).

23 Ne la profonda… contenenza: Nella profonda e luminosa (chiara) essenza (sussistenza) dell’alta luce mi apparvero tre forme circolari (giri: il termine può indicare cerchi o sfere), di tre colori diversi ma (e) che occupavano lo stesso spazio (d’una contenenza). Occupando esattamente lo stesso spazio, i «tre giri» sono necessariamente concentrici e delle stesse dimensioni. Questa visione sarebbe umanamente impossibile, poiché oggetti concentrici non possono avere dimensioni identiche e continuare, al tempo stesso, a essere tra loro distinti. Qui invece i «giri» sono tre (come dimostrano i «tre colori»). La visione di Dante illustra il mistero della Trinità, per cui Dio è contemporaneamente uno e trino.

24 e l’un da l’altro… si spiri: e uno di essi (il Figlio) sembrava riflesso dall’altro (il Padre) come arcobaleno è riflesso da arcobaleno (come iri da iri), e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava fuoco che spirasse allo stesso modo dall’uno e dall’altro (quinci e quindi).

25 O quanto è corto… poco: O quanto è insufficiente (corto) e quanto è debole (fioco) la parola (il dire) di fronte al mio ricordo (concetto)! E quest’ultimo, di fronte alla visione (a quel ch’i’ vidi), è tanto <piccolo> che non basta dire che è “poco”. Cfr. note e .

26 O luce etterna… arridi: O luce eterna, che in te sola ti posi (sidi, latinismo), sola comprendi te stessa (t’intendi) e, tu che sei da te compresa (da te intelletta) e che comprendi te stessa (te intendente), ami te stessa e <di te> ti compiaci (arridi)! Nel Convivio (II, v, 11) Dante parla di Dio come luce «che sola se medesima vede compiutamente». La terzina sembra inoltre richiamare Matteo, XI, 27: «nemo novit Filium, nisi Pater; neque Patrem quis novit, nisi Filius» [«nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio»]. Questi versi, che contengono un vertiginoso poliptoto, sono così spiegati da Sapegno: «la luce […] in quanto è intendente se stessa è il Padre; in quanto è intelletta da se stessa, il Figlio, in quanto ama e arride a se stessa, che intende ed è intesa, è lo Spirito Santo».

27 Quella circulazion… era messo: Quella forma circolare (circulazion) che in te (il poeta si rivolge alla «luce etterna» di Dio; cfr. v. 124) appariva generata (concetta) come luce riflessa (ossia il Figlio), <dopo essere stata> per un certo tempo (alquanto) osservata (circunspetta, latinismo) dai miei occhi, mi apparve dentro di sé dipinta dell’immagine dell’uomo (de la nostra effigie) con il suo stesso colore (del suo colore stesso), per cui il mio sguardo (viso) era tutto concentrato (messo) in lei. Questa visione, relativa alla natura umana e divina al tempo stesso di Cristo, sarebbe fisicamente impossibile, perché non può essere visibile una pittura dello stesso colore dello sfondo su cui è dipinta.

28 Qual è ’l geometra… venne: Come il matematico (geomètra) che si applica (affige) tutto per trovare la quadratura del cerchio e, pur pensando, non trova quel principio di cui avrebbe bisogno (ond’elli indige, latinismo), tale divenni (mi fec’) io di fronte a quella inaudita (nova) visione: volevo vedere come si adattasse (si convenne) l’immagine <umana> alla forma circolare e come essa possa trovarvi luogo (vi s’indova, verbo parasintetico composto dall’avverbio “dove” con l’aggiunta del prefisso “in”); ma non erano adatte a ciò (da ciò) le ali dell’uomo (le proprie penne, metonimia; l’immagine delle ali rappresenta a sua volta, metaforicamente, le capacità umane); <e non avrei visto la verità> se non fosse avvenuto che (se non che) la mia mente fu colpita da un’illuminazione divina (fulgore) nella quale (in che) il suo desiderio (sua voglia) fu esaudito (venne). Il tentativo di spiegare razionalmente il mistero di Cristo, insieme vero uomo e vero Dio, è paragonato al tentativo dei matematici di trovare il rapporto esatto tra circonferenza e diametro del cerchio (tentativo vano, perché questo rapporto è sempre costituito da un numero irrazionale, il •). La soluzione del mistero di Cristo è quindi affidata a un’illuminazione divina, molto più alta del metaforico volo intellettuale dell’uomo.

29 A l’alta fantasia… possa: Alla potente facoltà immaginativa (fantasia) mancò qui <ogni> capacità (possa). La soluzione del mistero trascende completamente, stavolta, la possibilità umana di tradurre la verità in immagini sensibili.

30 ma già volgeva… l’altre stelle: ma già Dio, che è amore e motore immobile dell’universo (l’amor che move il sole e l’altre stelle), muoveva (volgeva) il mio desiderio <di sapere> e la mia volontà (velle, lett. volere, è infinito del verbo latino volo), <rendendoli> simili a ruota che si muove di moto uniforme (igualmente è mossa). L’ultima immagine rappresenta lo sciogliersi del «dramma dell’intelligenza» (Sapegno) di questo canto, che si placa nel ritmo perfetto dell’ordine universale. Il verso conclusivo della cantica richiama il primo: «La gloria di colui che tutto move» (Paradiso, I, v. 1); il Paradiso si chiude inoltre con la parola «stelle», come avveniva anche nelle due cantiche precedenti: «e quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno, XXXIV, v. 139); «puro e disposto a salire a le stelle» (Purgatorio, XXXIII, v. 145).



IL TESTO
Cosa Dante può dirci di Dio
Fin dal primo canto del Paradiso, l’autore della Commedia ha avvertito il lettore dell’inaudita difficoltà della materia. Egli ha visto cose impossibili da «ridire», poiché la visione di Dio – affidata all’intelletto e non alle percezioni sensoriali – non può essere adeguatamente conservata dalla memoria (che si fonda, invece, proprio sulle sensazioni [DIV2a]). Ci troviamo pertanto di fronte, nell’ultimo canto del Paradiso, a una materia per definizione non rappresentabile. Dante, però, intende lo stesso rappresentarla.

La parola e il silenzio (vv. 40-54)
Ad aprire il canto, come sappiamo, è stato il mistico san Bernardo, il quale ha chiesto alla Vergine Maria di concedere a Dante l’ultima illuminazione [DIV14a]. Finita la preghiera, in Paradiso si fa silenzio. Un silenzio che non è assoluta immobilità solo perché è increspato da un gioco di sguardi: gli occhi della Vergine, fissi in Bernardo, mostrano già che la preghiera sarà esaudita; Bernardo sorride a Dante e gli fa cenno di guardare più in alto; ma Dante non ha avuto bisogno di questo cenno: la sua vista, che va affinandosi e purificandosi, comincia già a rivolgersi alla luce di Dio.

Visione, memoria, linguaggio (vv. 55-66)
Il poeta ribadisce, sulla scorta di quanto già detto all’inizio della cantica, l’inadeguatezza della sua «memoria» rispetto all’«oltraggio» della visione; e avverte il lettore dell’esistenza di un ulteriore limite, relativo al linguaggio, anch’esso del tutto inadeguato a esprimere ciò che ha visto. Questo scacco della memoria e della parola è espresso dalla similitudine del sogno – quante volte abbiamo l’impressione di ricordarne uno, eppure non siamo capaci di raccontarlo? – che si arricchisce e completa in quella della neve che si scioglie al sole e in quella, stupenda, dell’antro della Sibilla: che nega il segreto dei suoi responsi, disperdendoli nel vento, proprio quando chi vorrebbe conoscerli prova ad aprirne la porta.

Invocazione a Dio (vv. 67-75)
Consapevole di questo duplice limite, Dante poeta invoca l’ispirazione divina per ingaggiare la sua battaglia contro di esso. A Dio egli chiede di riportare alla sua memoria («mente») qualche sprazzo della visione, e di dare alla sua lingua la forza necessaria perché possa lasciare almeno «una favilla» della sua gloria ai futuri lettori. Gli occhi di Dante personaggio, intanto, hanno smesso di essere puramente umani: la sua vista intellettuale si fissa alla luce di Dio e, anziché esserne accecata, ne riceve sempre maggior forza. L’accecamento, a questo punto, si avrebbe se essa fosse distolta dall’oggetto della visione.

Prima verità: l’unità dell’universo in Dio (vv. 76-93)
E qui, per la prima volta, Dante ci dice cosa ha visto in Dio. Egli ci parla di un’unità profonda – la reductio ad unum di cui discutevano i filosofi del Medioevo –, ci dice di aver visto il molteplice nell’uno, il principio universale per cui la realtà, che «si squaderna» per il creato senza ordine apparente, si «interna» invece in Dio secondo una logica perfetta. Sia «squaderna» che «interna» sono verbi dal probabile simbolismo numerico: il primo rimanda al numero quattro – che rappresenta il mondo e gli elementi di cui è costituito –, mentre l’altro è derivato dal numero tre, che invece rappresenta Dio e la Trinità. Dante vede dunque l’intero universo in Dio, lo vede come totalità ridotta a unità. Quale sia il principio, la «forma universal di questo nodo», egli non può dire; ma è certo di averlo, almeno per un momento, saputo con chiarezza. Sa di averlo visto perché – così come accade dell’indeterminata dolcezza lasciataci da un sogno – il solo provare a raccontarlo gli accende in cuore un godimento non altrimenti spiegabile.

Primo intermezzo: Dante si trasforma (vv. 94-108)
Le capacità visive di Dante continuano ad affinarsi. E continua perciò a crescere la distanza tra ciò che ha visto, ciò che ricorda e ciò che potrà dirci. Questa denuncia dell’impossibilità della parola, ridotta ormai a infantile lallazione non solo a fronte della visione inaudita, ma anche del semplice ricordo di essa, prepara la descrizione della più impossibile delle visioni1: quella per cui Dio si mostra a Dante nell’evidenza del suo essere insieme uno e trino.

Seconda verità: l’impossibile visione della Trinità (vv. 109-120)
Ciò che Dante adesso ci descrive è un mutamento, un travaglio, un divenire. E invece Dio è essere, permanenza, eternità. Se il mutamento che ora il poeta ci racconta fosse inganno, la Commedia tradirebbe il suo lettore dopo averlo illuso per novantanove canti. Ma ciò che vede Dante non è inganno: Dio non gli appare sempre identico a se stesso perché, mentre lo vede, è Dante stesso che cambia e si trasforma. In tal modo, ciò che eternamente sussiste in sé potrà esser visto in successione temporale e, per questa via, potrà divenire rappresentabile dalla parola poetica. Il canto a questo punto, per parlarci di Dio, ci accenna a tre «giri» (senza specificare se siano cerchi o sfere). L’indeterminatezza è opportuna, e la precisazione geometrica conta poco. Il problema è ben diverso: i «tre giri» sono di uguale dimensione e occupano lo stesso spazio («d’una contenenza»), il che ne implica anche la concentricità. Essi sono però «di tre colori» diversi. Una simile entità, quale che ne sia la forma esatta, non sarebbe mai esperibile dai sensi: tre «giri» diversi non potranno mai essere al tempo stesso «di tre colori» e «d’una contenenza», perché quest’ultima impedirebbe loro, semplicemente, di essere «tre». Ma Dante, i «tre giri», non li sta vedendo contemporaneamente: la sua vista si “avvalora” progressivamente, e ciò gli permette di vederli uno dopo l’altro. I tre colori, nell’unica «contenenza», gli si mostrano quindi in successione. Continuiamo a sapere che un oggetto simile non può esistere in natura; ma ora sappiamo anche come Dante possa averlo visto (e non è poco). È dunque per questa via – tramite la geniale introduzione della dimensione del tempo a contatto con quella dell’eternità – che Dante ci offre una rappresentazione poetica senza uguali dell’unità e trinità di Dio.
Una volta risolto il problema di rappresentare la Trinità come unità, non è più difficile per il poeta indicare i reciproci rapporti tra Padre, Figlio e Spirito Santo: il Figlio è riflesso del Padre come arcobaleno da arcobaleno; lo Spirito Santo è invece fuoco che procede dal Padre e dal Figlio.

Secondo intermezzo: un’altra confessione di impotenza (vv. 120-123)
Di nuovo Dante, a questo punto, deve ricordarci che le sue parole non sono che un rudimentale accenno al suo ricordo, e che il suo ricordo è poco più che nulla di fronte alla visione. Ma sappiamo ormai, da lettori di questo canto, che simili professioni di impotenza preparano le prove più inaudite affrontate dalla parola poetica.

Terza verità: l’invisibile visione dell’Incarnazione (vv. 124-132)
Dopo il mistero della Trinità, è quindi la volta dell’Incarnazione. Gesù Cristo è vero uomo e vero Dio, e Dante ci mostra questo dogma sotto forma di una visione invisibile. Cristo, «lume riflesso» (v. 128) o «iri da iri» (v. 118), appare dipinto dentro di sé della «nostra effige» (cioè della natura umana di ciascuno di noi). Ma se ciò che è dipinto è la natura umana, e se lo sfondo è quella divina, il poeta precisa anche che qui si tratta d’un dipinto che non si distingue dallo sfondo («del suo colore istesso»); esattamente come la natura umana, in Cristo, non può distinguersi da quella divina. Dante si muove ai limiti concessi alla sua arte: sta descrivendoci l’ossimoro del dogma, sta offrendoci l’evidenza poetica dell’ineffabile.

La resa finale della ragione (vv. 133-144)
La ragione, compagna indispensabile di questo viaggio verso l’illuminazione mistica, non lo ha ancora abbandonato. Non è un caso che egli si paragoni al matematico che vuol risolvere il problema della quadratura del cerchio e che si proponga, con la stessa frustrata ostinazione, di spiegare come possa l’immagine dell’umana natura adattarsi al cerchio che è Cristo e prendervi luogo. È qui, ma solo qui, che la ragione è costretta ad abbandonare il campo: «non eran da ciò le proprie penne». La «fantasia», che è riuscita a tradurre in immagine sensibile perfino la visione invisibile e la visione impossibile, nulla può più dinanzi al fulgore che appaga il desiderio di conoscenza del personaggio che ha viaggiato nell’oltretomba. Ora egli sa ciò che nessun matematico può sapere e ciò che nessun uomo, nemmeno Dante stesso, può ricordare. Il poeta potrà concedere al lettore, una volta che questa «voglia» sia stata soddisfatta e che la spaventosa tensione intellettuale del canto sia stata placata, solo il lento movimento dell’ultima similitudine: che è immagine di perfetta circolarità e, al tempo stesso, di pieno fondersi dell’individuo nel ritmo universale di Dio. Quel Dio che muove il «disio» e il «velle» di Dante personaggio, facendo di lui il placido raggio di una «rota ch’igualmente è mossa»; quel Dio che, in un non diverso moto d’amore, muove per tutto il creato «il sole e l’altre stelle».

IL PROBLEMA
Le costrizioni della lingua
Proviamo a soffermarci, a conclusione di quest’ultimo approfondimento, soltanto su uno degli infiniti problemi sollevati da questo canto. Potremmo dire che si tratta di un semplice problema tecnico – ossia della questione dei limiti della lingua poetica e delle costrizioni che essa impone a chi la usa –, ma sappiamo anche quante volte, su tale problema, il poeta abbia richiamato l’attenzione in questo canto. Abbiamo visto come Dante professi ripetutamente la propria incapacità di parlare; ma abbiamo anche visto come egli tenda al massimo le risorse del linguaggio, fino a darci davvero l’impressione di aver visto Dio e di averci perfino comunicato qualcosa di questa visione.
In qualsiasi arte, il mezzo utilizzato comporta delle costrizioni. La musica strumentale, ad esempio, può destare emozioni, ma non può comunicare dei veri e propri concetti. La poesia può raccontare meglio di molte altre arti, mentre le sue capacità di descrivere non sono paragonabili a quelle della pittura o della scultura. Queste ultime, del resto, hanno possibilità narrative molto ridotte rispetto a quelle concesse alla parola. Uno studioso del Settecento, Gotthold Ephraim Lessing, ha teorizzato l’esistenza di limiti reciproci tra la poesia e le arti figurative e ne ha illustrato la ragione: la poesia si serve di suoni che si succedono del tempo, ed è per questo più adatta a narrare fatti che si succedono nel tempo. Le arti figurative usano invece segni che coesistono nello spazio, e sono quindi più adeguate a descrivere oggetti coesistenti nello spazio2.
Il compito che Dante si è prefisso in questo canto appare, se osservato da questo punto di vista, di una difficoltà spaventosa: egli dovrà usare un sistema di segni che si succedono nel tempo (la lingua) per descrivere un “oggetto” (Dio) che non solo è estraneo al divenire, ma è addirittura fuori dal tempo, è eternità. Le costrizioni imposte dal mezzo di rappresentazione della poesia non potrebbero apparire maggiori, e la possibilità di rappresentare quest’oggetto non potrebbe apparire più remota. Ma Dante riesce nell’impresa. E non lo fa – paradossalmente – nonostante queste costrizioni, bensì proprio grazie a queste costrizioni. Egli ci descrive l’Eterno proprio perché sfrutta fino in fondo la “risorsa tempo” della poesia. Egli ci descrive Dio proprio perché non s’illude di poterlo descrivere per quello che è.

Come Dante ci parla di Dio
Proprio mentre sembra muoversi ai limiti dell’afasia, e mentre continuamente ne dichiara il rischio, Dante ci offre infatti la più strabiliante prova della capacità della parola poetica. La soluzione da lui adottata è genialmente semplice: egli non si concentra sulla descrizione dell’oggetto della sua visione, bensì sulla narrazione dell’atto del vedere. Quest’atto presuppone un trasumanare, ma un trasumanare progressivo che è soggetto al divenire. Dio è; ma Dante che lo vede si trasforma di continuo. La sua vista si avvalora e gli svela, di istante in istante, diversi aspetti dell’unica sussistenza divina. Ciò non comporta un mutamento di quest’ultima, ma implica che essa appaia a Dante sotto forme sempre differenti. Diviene a questo punto plausibile – proprio grazie alla dimensione “tempo” propria del linguaggio poetico – il fatto che Dante possa vedere la Trinità sotto la meno visibile delle forme. I «tre giri» di cui il poeta ci parla si presentano, contro ogni legge di esperienza, in un unico spazio, con un’unica forma e tuttavia di tre colori diversi. E, l’abbiamo già detto, pensare a tre sfere o cerchi che siano concentrici e di identica dimensione è impossibile perché, se così fosse, essi non sarebbero più tre ma uno. Il fatto è che, a Dante, i «tre giri» si presentano in successione perché è lui che, mutando, vede svolgersi nel tempo ciò che è eternamente compresente. Ciò che non è spiegabile razionalmente (il fatto che Dio, contemporaneamente, sia uno e trino) lo diviene poeticamente, grazie al geniale sfruttamento dantesco della “risorsa tempo”.

«Nel mezzo del cammin di nostra vita»
La trama delle implicazioni di questo canto, di certo, non può esaurirsi in quest’aspetto tecnico. Ogni lettore che lo rilegga, ogni volta, ci troverà inevitabilmente qualcosa che prima non aveva visto. Ma è bene ricordare – proprio ora, di fronte a una delle più alte pagine della poesia di ogni tempo – che un discorso critico è, appunto, un discorso. E che esso può sì supportare la lettura dell’opera, ma mai deve sostituirsi ad essa. Dante Alighieri, una volta vissuta o immaginata l’esperienza mistica di quest’ultima visione, ha preso in mano la penna e ha cominciato a scrivere: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». A noi, uomini di un oggi lontano eppure ancora capace di ascoltare la sua voce, non resta di meglio che aprire la sua Commedia e cominciare (o ricominciare) a leggerla.


1 Per i concetti di “visione impossibile” e “visione invisibile”, così come per numerosi spunti e suggestioni di questo e dei precedenti approfondimenti, siamo debitori del magnifico, e mai accademico, commento di Vittorio Semonti (L’inferno di Dante; Il Purgatorio di Dante; Il Paradiso di Dante, Milano, Rizzoli, 2001).

2 Lessing non esclude però che ciascuna delle arti possa svolgere anche funzioni diverse da quella principale; ma queste funzioni possono essere esercitate sempre tenendo conto della specifica natura del linguaggio di ogni arte. La teoria sui confini delle arti è contenuta nel Laocoonte (1766).



print

print