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[Inferno, canto IV, vv. 1-45] Nel IV canto dell’Inferno Dante racconta di essere rinvenuto dallo svenimento che l’aveva colto in riva all’Acheronte e di essersi ritrovato nel primo cerchio, dove ha sede il Limbo. Le anime qui relegate non hanno commesso gravi peccati: vi si incontrano i più grandi spiriti dell’antichità (eroi, poeti, filosofi, scienziati), degni d’ammirazione per la loro grandezza d’animo, eppure esclusi dal Paradiso perché non hanno ricevuto il battesimo o perché, se vissuti prima di Cristo, non hanno abbracciato la religione ebraica. Lo stesso Virgilio è condannato a patire insieme a loro. La sofferenza di queste anime non consiste in una pena e vera e propria, ma nel desiderio inappagato di vedere Dio. Ciò spiega il turbamento con cui il maestro si rivolge in questi versi a Dante. Ruppemi l’alto sonno ne la testa un greve truono, sì ch’io mi riscossi come persona ch’è per forza desta1; 3 e l’occhio riposato intorno mossi, Vero è che ’n su la proda mi trovai Oscura e profonda era e nebulosa «Or discendiam qua giù nel cieco mondo», E io, che del color mi fui accorto, Ed elli a me: «L’angoscia de le genti Andiam, ché la via lunga ne sospigne». Quivi, secondo che per ascoltare, ciò avvenia di duol sanza martìri Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi, e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo, Per tai difetti, non per altro rio, Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi, [Purgatorio, canto III, vv. 31-45] Matto è chi spera che nostra ragione State contenti, umana gente, al quia; e disiar vedeste sanza frutto io dico d’Aristotile e di Plato [Purgatorio, canto III, vv. 79-93] Come le pecorelle escon del chiuso e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, sì vid’io muovere a venir la testa Come color dinanzi vider rotta restaro, e trasser sé in dietro alquanto, [Paradiso, canto XX, vv. 67-138] Chi crederebbe giù nel mondo errante, Ora conosce assai di quel che ’l mondo Quale allodetta che ’n aere si spazia tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio ma de la bocca, «Che cose son queste?», Poi appresso, con l’occhio più acceso, «Io veggio che tu credi queste cose Fai come quei che la cosa per nome Regnum celorum violenza pate non a guisa che l’omo a l’om sobranza, La prima vita del ciglio e la quinta D’i corpi suoi non uscir, come credi, Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede di viva spene, che mise la possa L’anima gloriosa onde si parla, e credendo s’accese in tanto foco L’altra, per grazia che da sì profonda tutto suo amor là giù pose a drittura: ond’ei credette in quella, e non sofferse Quelle tre donne li fur per battesmo O predestinazion, quanto remota E voi, mortali, tenetevi stretti ed ènne dolce così fatto scemo, 1 Ruppemi… desta: Un cupo boato (truono, forma frequente nell’italiano antico) mi interruppe (Ruppemi) il sonno profondo (alto, richiamo virgiliano alla «alta quies» di Aen. VI, 522 o al «sopor altus» di VIII, 27) nel cervello (ne la testa), sicché io mi ridestai (mi riscossi) come una persona che è costretta a svegliarsi (ch’è per forza desta). Alla fine del canto precedente, Dante aveva raccontato di un terribile terremoto sotterraneo che gli aveva fatto perdere i sensi quando si trovava su una delle due sponde del fiume Acheronte. Svegliatosi a causa di un boato, si ritrova ora sulla riva opposta. 2 e l’occhio… dov’io fossi: e, rialzatomi in piedi (dritto levato), girai (mossi) tutt’intorno gli occhi (l’occhio, sineddoche) riposati <dal sonno>, e guardai attentamente (fiso) per comprendere (conoscer) in quale luogo io mi trovassi. 3 Vero è… d’infiniti guai: Sta di fatto (Vero è, la formula era usata per attestare delle verità importanti ma inattese) che mi ritrovai sulla riva (proda) della valle profonda (d’abisso) e piena di dolore, che raccoglie il rimbombo (’ntrono, variante di «truono», del v. 2.) di eterni (infiniti) lamenti (guai). Passato l’Acheronte, Dante si trova nel primo cerchio dell’Inferno. Il riferimento agli «infiniti guai» non vuol dire che in questo momento Dante personaggio stia sentendo questi lamenti (il che entrerebbe in contrasto con i vv. 26-27), ma è piuttosto «una perifrasi del narratore, già esperto delle condizioni dell’Inferno» (Rossi). 4 Oscura… alcuna cosa: Essa era oscura e profonda e piena di nebbia (nebulosa), tanto che, per quanto acuissi (per ficcar) la vista (viso, latinismo da visus), io non distinguevo (discernea) in essa (vi) nulla (alcuna cosa). Porena fa notare che il verbo “ficcar” è «usato spesso da Dante per indicare uno sforzo di penetrare con lo sguardo». 5 Or discendiam… sarai secondo: «Ora scendiamo quaggiù, nel tenebroso (cieco, anche in senso morale) mondo <dell’Inferno>», cominciò <a dire> il poeta tutto pallido (smorto). «Io andrò avanti (sarò primo) e tu mi seguirai (sarai secondo)». 6 E io… conforto: E io, che mi ero reso conto (mi fui accorto) del <suo> pallore, dissi: «Come potrò venire, se hai paura (paventi) <perfino> tu, che di solito sei (suoli… esser) di conforto al mio timore (dubbiare, infinito sostantivato)?». 7 Ed elli a me… per tema senti: Ed egli <rispose> a me: «La sofferenza (angoscia) delle anime (genti) che sono qui sotto mi fa comparire sul volto il colore di (nel viso mi dipigne) quella sofferenza (pietà) che tu scambi (senti) per paura (tema)». Quello di Virgilio non è timore, bensì un sentimento derivante dalla dolorosa considerazione del destino delle anime del Limbo, cui egli stesso appartiene. 8 Andiam… che l’abisso cigne: «Andiamo, poiché il lungo cammino ci spinge (ne sospigne) <a partire>». Così si introdusse e così fece entrare me nel primo cerchio che circonda (cigne) l’abisso. L’Inferno è costituito da nove cerchi concentrici, sempre più stretti via via che si scende, che circondano una voragine che arriva al centro della Terra. 9 Quivi, secondo… facean tremare: In quel luogo (Quivi), a quel che si poteva capire con l’udito (secondo che per ascoltare) non vi era (non avea) altro pianto fuor che (mai che, dal latino magis quam) di sospiri, che facevano tremare l’aria (aura) eterna. A differenza delle anime incontrate in precedenza, quelle di questo cerchio esprimono compostamente la loro sofferenza, limitandosi a sospirare. 10 ciò avvenia… di viri: questo avveniva <a causa> del dolore privo di pene fisiche (martìri) che pativano (avean) <quelle> schiere (turbe: le anime del Limbo sono distinte in diversi gruppi), che erano numerose e folte, di bambini (infanti), di donne e di uomini (viri). Nel Limbo, oltre agli spiriti di cui si parlerà subito dopo, hanno sede anche le anime dei bambini non battezzati. 11 Lo buon maestro… che tu credi: Il buon maestro <disse> a me: «Tu non chiedi (dimandi) che spiriti sono quelli che stai vedendo? Ora voglio che tu sappia, prima che tu vada (andi: al tempo di Dante, era questa la forma regolare del congiuntivo del verbo “andare”) avanti (più), che essi non commisero gravi peccati (non peccaro); e che, se essi hanno dei meriti (mercedi), ciò non basta <a dare loro la salvezza>, perché non ebbero il battesimo, che dà l’accesso (è porta) alla fede <cristiana> alla quale tu credi». 12 e s’e’ furon… io medesmo: «e se essi vissero (furon) prima del cristianesimo, non adorarono come si doveva (debitamente) Dio: e tra questi (di questi cotai) ci sono io stesso». Prima della venuta di Cristo la vera fede era quella ebraica, che comportava l’attesa del Salvatore; per questo, dopo essere risorto e asceso al cielo, Cristo scese nel Limbo e trasse con sé tutti gli Ebrei meritevoli di salvezza, portandoli in Paradiso. 13 Per tai difetti… in disio: Per queste mancanze (difetti indica non peccati bensì delle imperfezioni morali), non per altro peccato (rio, aggettivo sostantivato) siamo privati della salvezza (perduti), e afflitti (offesi) solo da questa <sofferenza> (di tanto), <cioè> che viviamo nel desiderio <di vedere Dio> senza speranza (speme). La pena di queste nobili anime dell’antichità consiste soltanto nella loro aspirazione inappagata di conoscere il sommo bene. 14 Gran duol… eran sospesi: Un grande dolore (duol) mi strinse il cuore quanto lo sentii (’ntesi), poiché (però che) seppi (conobbi) che in quella balza (quel limbo; Dante mantiene il valore etimologico del sostantivo, derivato dal latino limbum che significa “orlo”) erano sospesi spiriti (gente, singolare collettivo con il verbo al plurale) di grande valore. 15 A sofferir… si sveli: «La potenza (Virtù) <divina> predispone (dispone) dei corpi <immateriali> come questi (simili corpi: si sta parlando delle anime dell’oltretomba) a patire (sofferir) tormenti, caldo e freddo, e (che, pronome relativo riferito a «Virtù») non vuole che a noi si sveli il modo in cui opera (come fa)». 16 Matto è chi crede… tre persone: «È folle (Matto) chi crede che la ragione umana (nostra) possa percorrer (trascorrer) la via infinita <della verità> che unisce (tiene) una sostanza in tre persone». La ragione umana non può spingersi fino a comprendere tutti i misteri della religione, come quello della Trinità. 17 State contenti… parturir Maria: «Accontentatevi, o gente umana, di conoscere come stanno le cose (quia indica, in questo contesto, la conoscenza dei fatti senza la comprensione delle loro cause ultime, ossia del quare) perché, se aveste potuto capire (veder) tutto, non sarebbe stato necessario (mestier non era) che Maria partorisse». La ragione umana è per Dante un potente strumento di conoscenza e di verità, ma essa ha dei limiti oltre i quali opera solo la Rivelazione resa possibile da Cristo. 18 e disiar vedeste… per lutto: «e <infatti> vedeste desiderare <la conoscenza> senza poterla raggiungere (sanza frutto) a degli uomini talmente virtuosi (tai) che, <se fosse stato umanamente possibile>, sarebbe stato soddisfatto (quetato) il loro desiderio, che invece è dato loro eternamente come sofferenza (per lutto; cfr. nota )». 19 io dico… rimase turbato: «io parlo (dico) di Aristotele e di Platone (Plato) e di molti altri». E a questo punto (qui) chinò il capo (la fronte, sineddoche), e non parlò più (più non disse) e restò turbato. Virgilio annovera anche se stesso tra i grandi dell’antichità che avrebbero meritato la conoscenza di Dio, se solo essa fosse stata umanamente possibile. 20 Come le pecorelle… lo ’mperché non sanno: Come le pecorelle escono dal recinto dell’ovile (del chiuso) a una, a due, a tre <alla volta>, mentre (e) le altre stanno molto timide (timidette è diminutivo con funzione intensiva), rivolgendo a terra (atterrando) gli occhi (l’occhio, sineddoche) e il muso, e ciò che fa la prima lo fanno anche le altre (e l’altre fanno), addossandosi a lei se essa si ferma, docili (semplici) e mansuete (quete), e non sanno il perché… La lunga similitudine paragona l’atteggiamento delle anime del Purgatorio, che sarà descritto nella successiva terzina, alla mansuetudine di un gregge. 21 sì… onesta: allo stesso modo vidi io allora (allotta) avanzare verso di noi (muovere a venir) la prima fila (la testa) di quella schiera di anime (mandra, metafora) destinata alla salvezza (fortunata), pudica in faccia e dignitosa (onesta) nel procedere. 22 Come color dinanzi… fenno altrettanto: Non appena coloro <che si trovavano> davanti videro la luce <del sole> interrotta (rotta) dalla parte del mio fianco (canto) destro, in modo che tra me e la roccia (grotta) <del monte> c’era l’ombra, si fermarono (restaro) e si ritrassero (trasser) un po’ (alquanto) indietro, e tutti quelli che venivano dopo, non sapendo il perché, fecero (fenno) altrettanto. Dante, unico vivo tra le anime del Purgatorio, ha un vero e proprio corpo e proietta ombra; da qui lo stupore degli spiriti dell’oltretomba. 23 Chi crederebbe… luci sante: «Chi immaginerebbe mai, nel mondo soggetto al peccato (errante), che il troiano Rifeo fosse in questo cielo (tondo) la quinta delle luci sante?». L’aquila, composta dagli spiriti giusti, presenta a Dante le cinque anime luminose che costituiscono il suo ciglio. L’ultima di esse è Rifeo, un personaggio minore dell’Eneide, che Virgilio designa come «iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi» [«il più giusto che vi fu tra i Troiani e il più osservante della giustizia»] (Eneide, II, 425-426). 24 Ora conosce… il fondo: «Ora <Rifeo> conosce molto (assai) di quei misteri della grazia divina che il mondo non può vedere, anche se la sua vista (ossia quella di Rifeo) non può scorgerne il fondo» (riservato solo a Dio). 25 Quale allodetta… diventa: Come un’allodola (allodetta, dal latino alauda) che dapprima vola (si spazia; il verbo, usato in forma riflessiva, sottolinea il volteggiare libero e felice dell’uccello) cantando in cielo, e poi tace contenta della dolcezza appena emanata (ultima dolcezza) <dal suo canto> che la appaga (sazia), tale mi sembrò l’immagine <dell’aquila, che taceva contenta> per l’impronta di Dio (etterno piacere) secondo la cui volontà (disio) ogni cosa diventa ciò che essa è. L’interpretazione puntale della terzina è assai difficile e la parafrasi è discussa. 26 E avvegna che… gran feste: E sebbene (avvegna che) io fossi in Paradiso (lì), quanto ai miei dubbi (al dubbiar mio), <trasparente> quasi come un vetro rispetto al colore che esso ricopre (veste), <tuttavia il dubbio> non sopportò (patio, perfetto arcaico) di lasciar passare (aspettar) del tempo in silenzio, ma mi fece uscire (pinse) fuori dalla bocca con la sua urgenza (peso) <le parole> «Che cose sono queste?»: per cui io vidi grandi rallegramenti (feste) nel brillare (coruscar) <dei beati>. In Paradiso i pensieri di Dante sono trasparenti ai beati, che possono leggerli nella mente di Dio. Tuttavia lo stupore, di fronte all’incredibile notizia appena appresa, lo spinge a chiedere lo stesso spiegazioni. Il «coruscar» manifesta invece l’accrescersi della gioia delle anime del Paradiso. 27 Poi appresso… sospeso: In seguito, con l’occhio più luminoso (acceso), il benedetto simbolo (segno: si ricordi che l’aquila è anche simbolo dell’Impero) mi rispose per non tenermi ancora sospeso nella meraviglia (in ammirar). 28 Io veggio… sono ascose: «Io vedo che tu credi a queste cose (cioè alla presenza di pagani in Paradiso) perché io le dico, ma non vedi come <siano possibili>; sicché esse, se <anche> sono credute, restano incomprensibili (ascose)». 29 Fai come quei… non la prome: «Ti comporti come colui che conosce bene qualcosa di nome, ma non può conoscere la sua essenza (quiditate, sostantivo astratto derivante dal pronome interrogativo latino quid, che significa “che cosa?”) se un altro non la rivela (prome)». 30 Regnum celorum… volontate: «Il regno dei celi (Regnum celorum) si lascia conquistare a forza (violenza pate, lett. subisce violenza) da amore ardente e viva speranza, che vince la volontà divina». Il v. 94 riprende Matteo, XI, 12: «Regnum caelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud» [«Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono»]. 31 non a guisa… beninanza: «<questo avviene> non alla stessa maniera in cui (a guisa che) un uomo sovrasta (sobranza, provenzalismo) un altro uomo, ma <l’amore> vince la volontà divina (lei) che vuole essere vinta e che, lasciandosi vincere (vinta), è <in realtà> la vincitrice (vince) per la propria bontà (beninanza)». La terzina, retoricamente dominata dal poliptoto e dal chiasmo («vince» - «vinta»; «vinta» - «vince») esprime il concetto che, per Dio, lasciarsi sopraffare dall’amore dell’uomo non è una sconfitta ma una vittoria. 32 La prima vita… dipinta: «La prima e la quinta anima (vita) del ciglio <dell’aquila> ti fanno (ti fa, verbo al singolare per una pluralità di soggetti) meravigliare, per il fatto che vedi la regione degli angeli (perifrasi per indicare il Paradiso) abbellito da esse». Traiano e Rifeo, entrambi pagani, non potrebbero apparentemente trovarsi in Paradiso: da qui lo stupore di Dante. 33 D’i corpi suoi… passi piedi: «Essi non uscirono dalle loro vite (D’i corpi suoi, metonimia), come tu credi, pagani (Gentili), ma Cristiani, con salda (ferma) fede, il primo (Rifeo) riguardo alla Passione futura (d’i passuri, dal latino patior, participio futuro concordato con «piedi») e l’altro (Traiano) riguardo alla Passione avvenuta (d’i passi piedi, lett. riguardo ai piedi trafitti, sineddoche riferita alla Crocifissione di Cristo; la forma «passi» corrisponde al participio perfetto di patior)». Rifeo morì essendosi convertito all’Ebraismo, che costituiva la vera religione in quanto fede in Cristo venturo; Traiano invece divenne cristiano. 34 Ché l’una… mercede: «Poiché la prima (Traiano) tornò al proprio corpo (a l’ossa, sineddoche) dall’Inferno, da cui non si torna (riede) mai a volere il bene; e ciò fu ricompensa (mercede) di una viva speranza (spene)». Nel Medioevo l’imperatore Traiano era considerato un uomo straordinariamente giusto, benché pagano. Dante accoglie una leggenda secondo cui Traiano fu richiamato in vita per le preghiere di papa Gregorio Magno e poté, grazie alla «viva speranza» di questo pontefice, convertirsi alla vera fede. 35 di viva spene… esser mossa: «di una viva speranza, che mise forza (possa) nelle preghiere fatte a Dio (da Gregorio Magno) per risuscitarla, in modo che la sua volontà (voglia) potesse essere convertita (mossa)». Per potersi convertire al «buon voler» (v. 107) era necessario che l’anima di Traiano uscisse dall’Inferno (o più precisamente dal Limbo). 36 L’anima gloriosa… potea aiutarla: «L’anima gloriosa di cui (onde) si parla (Traiano), tornata in vita (ne la carne), in cui rimase (fu) per poco tempo, credette in colui (Cristo) che poteva salvarla (aiutarla)». 37 e credendo… a questo gioco: «e, divenuta credente, si accese in tanto ardore (foco) di vero amore, che al momento della seconda morte fu degna di venire a questa beatitudine (gioco, nel senso del provenzale joc)». 38 L’altra… redenzion futura: «L’altra anima (Rifeo), per dono della Grazia che nasce (stilla, metafora, lett. sgorga) da una fonte tanto profonda (Dio) che nessuna creatura poté mai spingere il suo sguardo fino all’origine di essa (prima onda: continua la metafora della «fontana»), indirizzò in terra (là giù) tutto il suo amore alla giustizia (drittura); per cui, aggiungendo grazia a grazia (di grazia in grazia), Dio gli aprì gli occhi alla nostra futura redenzione (lo convertì cioè all’Ebraismo)». 39 Ond’ei credette… perverse: «Per cui egli credette in essa (la «redenzion futura») e non tollerò (sofferse) da allora il fetore del paganesimo, e ne rimproverava gli uomini traviati (le genti perverse)». 40 Quelle tre donne… più d’un millesmo: «Quelle tre donne che tu vedesti presso la ruota destra <del carro> (riferimento allegorico alle virtù teologali) tennero per lui luogo di (li fur per) battesimo, più di un millennio (millesmo) prima dell’istituzione del battesimo (dinanzi al battezzar)». Per comprendere la terzina, occorre sapere che negli ultimi canti del Purgatorio Dante ha assistito a una processione allegorica incentrata intorno a un carro mistico [DIV9b]. In Purgatorio, XXIX, 121-129, si dice che presso la ruota destra del carro danzavano tre donne, che rappresentano appunto la Fede, la Speranza e la Carità. Tali virtù sarebbero state infuse da Dio a Rifeo. 41 O predestinazione… non veggion tota: «O predestinazione, quanto è inavvicinabile (remota) la tua radice da quegli sguardi (aspetti, metafora che indica gli intelletti umani) che non possono vedere per intero (tota) la prima causa (Dio)!». È opportuno precisare che il concetto di predestinazione in Dante non pregiudica il libero arbitrio dell’uomo [DIV7]. 42 E voi, mortali… tutti gli eletti: «E voi, mortali, siate cauti (tenetevi stretti) nel giudicare; perché noi <stessi beati>, che vediamo Dio, non conosciamo ancora tutti i prescelti <per la salvezza> (eletti)». 43 ed ènne dolce… e noi volemo: «e un simile (così fatto) limite (scemo, sostantivo) ci è (enne) dolce, perché la nostra felicità (il ben nostro) si completa (affina) in questa felicità, <cioè> che quello che vuole Dio anche noi (e noi) lo vogliamo». Il concetto per cui parte della felicità dei beati sta nel compimento del volere di Dio è espresso, con diverse sfumature, anche nei canti III e VI del Paradiso [DIV13]. IL TESTO Inferno: novità del Limbo di Dante Il IV canto dell’Inferno è ambientato nel Limbo: un luogo che sarà spesso evocato nel seguito del poema, dato che Virgilio è condannato a tornarvi e che la sua esclusione dalla salvezza è uno dei temi ricorrenti della Commedia. Per chiarire cosa sia il Limbo e in cosa consista la novità di Dante, può essere utile riassumere per grandi linee i fatti narrati in questo canto. Prima che Cristo risorgesse da morte e salisse al cielo, nessun uomo era mai entrato in Paradiso. Fu proprio con la discesa al Limbo del Salvatore che si aprirono per l’umanità le vie della beatitudine. Cristo portò con sé Adamo, Abele, Mosè, Noè e molti uomini e donne dell’antichità ebraica meritevoli della felicità eterna. Rimasero invece nel Limbo i pagani virtuosi, quelli che, pur non avendo commesso gravi peccati, non potevano entrare nel regno dei cieli. Tra di essi Dante distingue in primo luogo quattro poeti antichi: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano (cui va aggiunto naturalmente Virgilio). Ci sono poi, in un «nobile castello», alcuni personaggi della leggenda troiana (come Enea) e della storia di Roma (come Giulio Cesare). Un altro gruppo è costituito da numerosi autori dell’antichità classica, guidati da Aristotele, Socrate e Platone. Ma nel Limbo troviamo anche presenze inaspettate. Tra gli eroi si incontra infatti il Saladino, sultano d’Egitto dal 1174 al 1193: l’uomo che tolse Gerusalemme ai Cristiani, ma che il Medioevo celebrava per la sua giustizia e le sue virtù cavalleresche; inoltre, anche tra i filosofi ci sono degli infedeli vissuti dopo Cristo, come i due grandi commentatori di Aristotele, l’arabo Averroè e il persiano Avicenna. L’esclusione di Virgilio dalla beatitudine celeste, abbiamo detto, è uno dei motivi più toccanti della Commedia. Una sensibilità moderna potrebbe esser tentata di imputare a Dante un’eccessiva rigidità dogmatica verso i non cristiani. E invece la soluzione da lui adottata dimostra un’eccezionale apertura culturale, come si può capire se la si confronta con la tradizione da cui parte. Dante è il primo a riservare ai poeti e ai filosofi vissuti prima di Cristo una posizione nettamente distinta da quella dei dannati. Sappiamo già come il sincretismo medievale avesse compiuto, a partire da Agostino, un sistematico recupero della cultura classica, superando l’originaria condanna espressa da san Girolamo [DIV2a]. Ma nessuno prima di Dante si era spinto a parlare di un luogo specifico dell’oltretomba, riservato ai grandi uomini delle antiche civiltà. «I teologi scolastici – spiega Sapegno – riconoscevano un limbus patrum, al quale, secondo la Scrittura, Cristo discese dopo morto per trarne le anime dei patriarchi, riscattate in virtù del suo sacrificio dalla colpa originale, e da esso distinguevano il limbus puerorum (degli infanti morti prima di ricevere il battesimo)». Dante è il primo a creare un Limbo per i grandi spiriti dell’antichità pagana, eroi di una tradizione culturale di cui egli stesso si sentiva parte. E va anche molto oltre: non si limita a riservare questa posizione agli “infedeli negativi” (coloro che non credettero in Cristo perché vissuti prima della sua nascita), ma apre le porte perfino agli “infedeli positivi”, coloro cioè che dopo il Cristianesimo scelsero consapevolmente strade diverse da quella della Chiesa. «Dante non poteva nascondersi che uomini vissuti dopo Cristo e non ignari della fede derivata da lui, peccarono non di mancanza, ma di renitenza alla fede. Come parlare di mera infedeltà negativa […] quando nel nobile castello stanno Dioscoride e Tolomeo, Saladino e Avicenna, Galeno e Averroè, vissuti tutti dopo Cristo e non ignari di lui, i quali peccarono, dunque, non di mancanza, ma di contrarietà di fede?» (Forti). È chiaro che in Dante il desiderio di onorare gli spiriti sapienti e giusti conosce aperture ignote al suo tempo. «L’aver fatto posto, e un posto per dir così di privilegio, tra le anime del Limbo anche ai buoni pagani, e perfino ad alcuni maomettani – sottolinea ancora Sapegno – è concetto di Dante, che non trova riscontro nei teologi medievali, e in cui si riflette la sua ripugnanza, piuttosto sentimentale che ragionata, a colpire con una troppo severa condanna quelle figure di saggi e di eroi, alle quali si rivolgeva tutta la sua ammirazione di uomo, di filosofo e di poeta».
Purgatorio: l’elegia di Virgilio Purgatorio: la ragione e i misteri della fede Paradiso: la salvezza eccezionale 1 San Tommaso, discutendo la leggenda relativa a Traiano, ne ammette la verosimiglianza e afferma esplicitamente che non si tratta di un caso isolato. «De facto Traiani hoc modo potest probabiliter aestimari, quod precibus beati Gregorii ad vitam fuerit revocatus et ita gratiam consecutus sit, per quam remissionem peccatorum habuit et per consequens immunitatem a poena; sicut etiam apparet in omnibus illis qui fuerunt miraculose e mortuis suscitati, quorum plures constat idolatras et damnatos fuisse» [«Sulla vicenda di Traiano si può ritenere probabile che sia stato richiamato in vita per le preghiere di san Gregorio e che abbia così ricevuto la grazia, attraverso la quale ebbe la remissione dei peccati e di conseguenza l’immunità dalla pena; come anche si vede in tutti quelli che furono miracolosamente risuscitati dai morti, gran parte dei quali risultano essere stati idolatri e dannati»] (Summa theologiae, III, suppl. q. LXXI, 5). 2 Lo sforzo di conciliazione e di superiore sintesi di scelte intellettuali che possono apparire tra loro contrapposte è tipico di Dante. Si pensi al destino dell’averroista Sigieri, anch’egli beato in Paradiso vicino a san Tommaso, che ne aveva avversato in vita le dottrine [DIV5]. |
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