I7
Giovanni Boccaccio
Il tormento amoroso di Africo
Ninfale Fiesolano 96-115

[96] Posto avea fine al suo ragionamento
il vecchio Girafone lagrimando;
Africo ad ascoltarlo molto attento
istava, bene ogni cosa notando;
e come che alquanto di pavento
avesse per quel dir, pur fermo stando
nella sua oppinione, al padre disse:
– Deh, non temer cotesto a me venisse!

[97] Da or innanzi, i’ le lascerò andare,
sed egli avien ch’i’ le truovi più mai;
andianci dunque, padre, omai a posare,
ch’i’ sono stanco, sì m’affaticai
oggi per questi monti, per tornare
di dì a casa, che mai non finai
ch’i’ son qui giunto con molta fatica,
sì ch’io ti priego che tu più non dica. –


[98] Giti a dormir, non fu sì tosto il giorno
ch’Africo si levava prestamente
e negli usati poggi fe’ ritorno,
dove sempre tenea ’l cor e la mente;
sempre mirandosi avanti e dintorno,
se Mensola vedea poneva mente;
e com piacque ad Amor, giunse ad un varco
dov’ella gli era presso ad un trar d’arco.

[99] Ella lo vide prima ch’egli lei,
per ch’a fuggir del campo ella prendea;
Africo la sentì gridar – Omei –
e poi, guardando, fuggir la vedea,
e ’nfra sé disse: «Per certo costei
è Mensola» e poi dietro le correa,
e sì la priega e per nome la chiama,
dicendo: – Aspetta que’ che tanto t’ama.

[100] Deh, o bella fanciulla, non fuggire
colui che t’ama sopra ogni altra cosa;
io son colui che per te gran martìre
sento, dì e notte, sanz’aver mai posa;
io non ti seguo per farti morire,
né per far cosa che ti sia gravosa:
ma sol Amor mi ti fa seguitare,
non nimistà, né mal ch’i’ voglia fare.

[101] Io non ti seguo come falcon face
la volante pernice cattivella,
né ancor come fa lupo rapace
la misera e dolente pecorella,
ma sì come colei che più mi piace
sopra ogni cosa, e sia quanto vuol bella;
tu se’ la mia speranza e ’l mio disio,
e se tu avessi mal, sì l’are’ io.

[102] Se tu m’aspetti, Mensola mia bella,
i’ t’imprometto e giuro sopra i dèi
ch’io ti terrò per mia sposa novella,
ed amerotti sì come colei
che se’ tutto ’l mio bene, e come quella
c’hai in balia tutti i sensi miei;
tu se’ colei che sol mi guidi e reggi,
tu sola la mia vita signoreggi.

[103] Dunque, perché vuo’ tu, o dispietata,
esser della mia morte la cagione?
Perch’esser vuoi di tanto amor ingrata
verso di me, sanz’averne ragione?
Vuo’ tu ch’i’ mora per averti amata,
e ch’io n’abbia di ciò tal guiderdone?
S’i’ non t’amassi, dunque, che faresti?
So ben che peggio far non mi potresti.

[104] Se tu pur fuggi, tu se’ più crudele
che non è l’orsa quand’ha gli orsacchini,
e se’ più amara che non è il fiele,
e dura più che sassi marmorini;
se tu m’aspetti, più dolce che ’l mèle
sei, o che l’uva ond’esce i dolci vini,
e più che ’l sol se’ bella ed avvenente,
morbida e bianca, ed umile e piacente.

[105] Ma i’ veggio ben che ’l pregar non mi vale,
né parola ch’io dica non ascolti,
e di me servo tuo poco ti cale,
e mai indietro gli occhi non hai volti;
ma com’egli esce dell’arco lo strale,
così ten vai per questi boschi folti,
e non ti curi di pruni o di sassi,
che graffian le tue gambe, o di gran massi.

[106] Or poi che di fuggir se’ pur disposta
colui che t’ama, secondo ch’i’ veggio,
sanza ai mie’ prieghi far altra risposta,
e par che per pregar tu facci peggio,
i’ priego Giove che ’l monte e la costa
ispiani tutta, e questa grazia cheggio,
e pianura diventi umile e piana,
ch’al correr non ti sia cotanto strana.

[107] E priego voi, iddii, che dimorate
per questi boschi e nelle valli ombrose,
che, se cortesi foste mai, or siate
verso le gambe candide e vezzose
di quella ninfa, e che voi convertiate
alberi e pruni e pietre ed altre cose,
che noia fanno a’ piè morbidi e belli,
in erba minutella e ’n praticelli.


[108] Ed io, per me, omai mi rimarroe
di più seguirti, e va’ ove ti piace,
e nella mia malora mi staroe
con molte pene, sanz’aver mai pace;
e sanza dubbio al fin ch’i’ ne morroe,
ch’i’ sento ’l cor che già tutto si sface
per te, che ’l tieni in sì ardente foco,
e mancali la vita a poco a poco. –

[109] La ninfa correa sì velocemente,
che parea che volasse, e’ panni alzati
s’avea dinnanzi per più prestamente
poter fuggir, e aveasegli attaccati
alla cintura, sì ch’apertamente,
di sopra a’ calzerin ch’avea calzati,
mostra le gambe e ’l ginocchio vezzoso,
ch’ognun ne diverria disideroso.

[110] E nella destra mano aveva un dardo,
il qual, quand’ella fu un pezzo fuggita,
si volse indietro con rigido sguardo,
e diventata per paura ardita,
quello lanciò col buon braccio gagliardo,
per ad Africo dar mortal ferita;
e ben l’arebbe morto, se non fosse
che ’n una quercia innanzi a lui percosse.

[111] Quand’ella il dardo per l’aria vedea
zufolando volar, e poi nel viso
guardò del suo amante, il qual parea
veracemente fatto in paradiso,
di quel lanciar forte se ne pentea,
e tocca di pietà lo mirò fiso,
e gridò forte: – Omè, giovane, guarti,
ch’i’ non potrei omai di questo atarti! –

[112] Il ferro era quadrato e affusolato
e la forza fu grande, onde si caccia
entro la quercia, e tutt’oltre è passato,
come se dato avesse in una ghiaccia;
ell’era grossa sì ch’aggavignato
un uomo non l’arebbe con le braccia;
ella s’aperse, e l’aste oltre passoe,
e più che mezza per forza v’entroe.

[113] Mensola allor fu lieta di quel tratto,
che non aveva il giovane ferito,
perché già Amor l’avea del cor tratto
ogni crudel pensiero, e fatto ’nvito;
non però ch’ella aspettarlo a niun patto
più lo volesse, o pigliasse partito
d’esser con lui, ma lieta saria stata
di non esser da lui più seguitata.

[114] E poi da capo a fuggir cominciava
velocissimamente, poi che vide
che ’l giovinetto pur la seguitava
con ratti passi e con prieghi e con gride;
per ch’ella innanzi a lui si dileguava,
e grotte e balzi passando ricide,
e ’n sul gran colle del monte pervenne,
dove sicura ancor non vi si tenne.

[115] Ma di là passa molto tostamente,
dove la piaggia d’alberi era spessa,
e sì di fronde folta, che niente
vi si scorgeva dentro: per che messa
si fu la ninfa là tacitamente,
e come fosse uccel, così rimessa
nel folto bosco fu, tra verdi fronde
di bei querciuol, che lei cuopre e nasconde.













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