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[Inferno, canto X, vv. 52-72] Per coloro che non credettero all’immortalità dell’anima – di solito designati, nel Medioevo, con il termine “epicurei” – la legge del contrappasso stabilisce una pena per analogia: questi peccatori, «che l’anima col corpo morta fanno», saranno in eterno sepolti nelle tombe di un cimitero posto all’ingresso della città di Dite. I loro sepolcri saranno chiusi solo dopo il Giudizio universale; Dante li vede dunque scoperchiati, e può riconoscere dentro di essi alcuni illustri cittadini di Firenze. Tra questi c’è Farinata degli Uberti, capo ghibellino e nemico della famiglia Alighieri, e tuttavia ammirato dal poeta per le sue virtù civiche. Insieme a lui è sepolto il consuocero, il guelfo Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido. Farinata è una figura energica e quasi statuaria, che si mostra fuori dal sepolcro «da la cintola in sù» ed evidenzia, nelle parole e negli atti, la sua antica energia di combattente. Cavalcante appare invece come un vecchio fragile, che si alza a stento sulle ginocchia per poter guardare fuori dalla tomba. Riconosciuto Dante, gli chiede notizie del figlio, del cui ingegno si mostra ancora paternamente orgoglioso. Equivocando le parole di Dante, egli si convince erroneamente che Guido possa essere morto. Avendo in vita negato la trascendenza, questi peccatori restano legati a sentimenti e affetti puramente terreni. È per questo che Cavalcante, al pensiero della morte del figlio, viene meno dal dolore ricadendo sul fondo della tomba. Allor surse a la vista scoperchiata Dintorno mi guardò, come talento piangendo disse: «Se per questo cieco E io a lui: «Da me stesso non vegno: Le sue parole e ’l modo de la pena Di subito drizzato gridò: «Come? Quando s’accorse d’alcuna dimora [Inferno, canto XXVI, vv. 19-24] Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio perché non corra che virtù nol guidi7; [Inferno, canto XXVI, vv. 85-142] Lo maggior corno de la fiamma antica indi la cima qua e là menando, mi diparti’ da Circe, che sottrasse né dolcezza di figlio, né la pieta vincer potero dentro a me l’ardore ma misi me per l’alto mare aperto L'un lito e l’altro vidi infin la Spagna, Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi acciò che l’uom più oltre non si metta: “O frati”, dissi “che per cento milia d’i nostri sensi ch’è del rimanente, Considerate la vostra semenza: Li miei compagni fec’io sì aguti, e volta nostra poppa nel mattino, Tutte le stelle già de l’altro polo Cinque volte racceso e tante casso quando n’apparve una montagna, bruna Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, Tre volte il fé girar con tutte l’acque; infin che ’l mar fu sovra noi richiuso»23. [Purgatorio, canto I, vv. 115-136] L’alba vinceva l’ora mattutina Noi andavam per lo solingo piano Quando noi fummo là ’ve la rugiada ambo le mani in su l’erbetta sparte porsi ver’ lui le guance lagrimose: Venimmo poi in sul lito diserto, Quivi mi cinse sì com’altrui piacque29: subitamente là onde l’avelse30. [Paradiso, canto X, vv. 133-138] Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, essa è la luce etterna di Sigieri, 1 Allor… levata: Allora si alzò (surse) <fino> all’apertura (vista) scoperchiata <della tomba> un’anima (ombra) accanto a (lungo) questa (cioè a quella di Farinata degli Uberti, con il quale Dante aveva animatamente dialogato nei versi precedenti), <visibile> fino al mento: credo che si fosse sollevata (levata) sulle ginocchia. Il personaggio appena comparso è Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta stilnovista Guido; egli ha riconosciuto Dante – amico di Guido – dal precedente dialogo con Farinata. Di Cavalcante, Boccaccio dice che «seguì l’opinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse». 2 Dintorno… non è teco: Guardò intorno a me, come <se> avesse desiderio (talento) di vedere se qualcun altro era con me (meco: Cavalcante si aspetta di vedere il figlio Guido); e quando (poi che) la sua supposizione (sospecciar, dal latino suspicio) fu del tutto svanita (spento; quando ebbe cioè la certezza che Guido non si trovava lì), piangendo disse: «Se tu puoi andare attraverso (per) questo oscuro (cieco) luogo di pena (carcere) grazie all’altezza del tuo ingegno, dov’è mio figlio? E perché non è con te (teco)?». Anche adesso che sta all’Inferno Cavalcante – in coerenza con le convinzioni che nutriva da vivo – riesce a concepire lo straordinario viaggio di Dante solo come frutto delle sue qualità umane (l’«altezza d’ingegno») e non sa riconoscerne l’ispirazione divina. Di conseguenza si stupisce che il figlio Guido, non inferiore per ingegno all’amico, non lo accompagni nel viaggio. 3 E io a lui… disdegno: Ed io <risposi> a lui: «Non compio questo viaggio (non vegno) con le mie sole forze (Da me stesso); colui che mi attende là (Virgilio) mi conduce (mena) attraverso questo luogo (per qui), verso colei che (cui; il pronome è riferito a Beatrice, e rappresenta contemporaneamente il complemento di direzione retto dal verbo «mena» e il complemento oggetto del verbo «ebbe») il vostro Guido forse disprezzò (ebbe a disdegno). Il disprezzo di Guido non riguarda ovviamente la persona di Beatrice, ma ciò che essa allegoricamente rappresenta, ossia la teologia. Anche Guido infatti, come il padre, era di convinzioni “epicuree” (o, più precisamente, averroistiche). L’antica amicizia con Guido non aveva impedito a Dante, nel giugno 1300, di decretarne – in qualità di membro del consiglio dei Priori – il temporaneo esilio insieme ad altri esponenti estremisti delle fazioni in lotta. Guido era ancora in vita nel momento in cui Dante ha ambientato quest’episodio (ossia nell’aprile del 1300), ma era certamente morto quando il poeta scrisse la Commedia (la morte di Cavalcanti risale infatti all’agosto 1300, poco dopo il ritorno dall’esilio). Il colloquio con Cavalcante e il riferimento al suo «disdegno» verso Beatrice (e ciò che essa rappresenta) sembrano dunque rivelare una certa freddezza di Dante nei confronti di Guido. 4 Le sue parole… piena: Le sue parole e il genere (modo) della <sua> pena mi avevano già rivelato (letto) il nome di costui; perciò (però) la <mia> risposta fu così precisa (piena). 5 Di subito… lume: Alzatosi (drizzato) all’improvviso (Di subito) gridò: «Come hai detto? Egli non vive ancora? La dolce luce (lume) <del sole> non colpisce (fere) i suoi occhi?». Cavalcante conserva, anche nella tomba, l’atteggiamento che ebbe in vita e – come mostra anche il gesto repentino del drizzarsi – reagisce con l’intensità emotiva di un genitore ferito nei propri sentimenti più umani: non avendo egli mai creduto all’immortalità dell’anima, il sospetto che il figlio possa essere morto lo conduce alla disperazione. 6 Quando s’accorse… non parve fora: Quando si accorse di un certo indugio (dimora) che io facevo prima di rispondere (dinanzi a la risposta), ricadde disteso (supin) e più non fu visibile (parve) fuori <dalla tomba>. Dante è sorpreso delle domande di Cavalcanti: egli crede infatti che i dannati conoscano le cose del mondo, e non sa spiegarsi come Cavalcanti possa credere che il figlio sia morto. Nel seguito del canto, si chiarirà che i dannati conoscono il lontano futuro, ma ignorano o dimenticano il presente; ciò spiega l’errore di Cavalcante. 7 Allor mi dolsi… nol guidi: Allora mi addolorai, e ora torno ad addolorarmi (ridoglio), quando rivolgo (drizzo) la memoria (mente) a ciò che io vidi; e tengo a freno il mio ingegno più di quanto sono solito fare, affinché non si lasci andare (non corra) senza la guida della virtù. Lo spettacolo che appare nell’ottava bolgia conduce Dante a tenere a freno le proprie facoltà intellettuali («’ngegno»): l’episodio di Ulisse gli insegnerà infatti che l’intelligenza umana, non sottomessa a Dio, può portare alla dannazione. 8 sì che… nol m’invidi: <freno il mio ingegno> in modo che, se il favore degli astri (stella bona) o una causa (cosa) più perfetta (la grazia di Dio) mi ha dato un dono (ben: si riferisce alle sue qualità intellettuali, allo «’ngegno»), io stesso (ch’io stessi; il «ch’» è ripetizione del «che» del verso precedente) non lo (nol) vanifichi (m’invidi, lett. contenda a me stesso) <abusando di esso>. 9 Lo maggior corno… affatica: La punta (corno) più alta dell’antica fiamma (è la fiamma a due punte dentro cui stanno le anime di Ulisse e Diomede, eroi dell’antichità; la punta più alta corrisponde a Ulisse, il maggiore dei due personaggi) cominciò ad agitarsi (crollarsi) mormorando, proprio (pur) come quella <fiamma> che (cui) il vento scuote (affatica); «vento» è soggetto e «cui» complemento oggetto. A parlare, da qui alla fine del canto, sarà Ulisse. 10 Indi… disse: Poi, scuotendo (menando) la punta (cima) da una parte e dall’altra (qua e là), come se fosse la lingua che parlasse, emise una voce (gittò voce di fuori) e disse: «Quando…». Il fortissimo enjambement – posto alla fine della terzina – che separa la prima parola del discorso di Ulisse dalla sua prosecuzione suggerisce l’idea della fatica con cui l’anima chiusa nella fiamma pronuncia il suo discorso. 11 mi diparti’… la nomasse: mi allontanai (dipartii) da Circe, che mi trattenne (sottrasse) per più di un anno là presso Gaeta, prima che Enea chiamasse quel posto (la nomasse) in questo modo (sì)… La maga Circe, figlia del Sole, trattenne Ulisse nel suo viaggio di ritorno verso Itaca presso il monte Circeo. Il luogo avrebbe in seguito preso il nome di Gaeta per volontà di Enea, in onore della sua nutrice Caieta, che morì appunto lì. Dante segue in questi versi il racconto di Ovidio (Metamorfosi, XIV, vv. 154-440). 12 né dolcezza… del valore: né l’affetto paterno (dolcezza) per mio figlio (Telemaco), né la devozione filiale (pieta, dal latino pietas) per il vecchio padre (Laerte), né il doveroso (debito) amore coniugale che avrebbe dovuto rallegrare Penelope, poterono spegnere in me l’ardente desiderio che io ebbi di fare esperienza del mondo, dei vizi e delle virtù umane. L’uso dell’aggettivo «umani» (grammaticalmente concordato con «vizi», ma logicamente anche con «valore») assume grande rilevanza, perché specifica la natura puramente terrena della conoscenza ricercata da Ulisse. 13 ma misi me… non fui diserto: ma mi avviai (ma misi me; l’accento ritmico sulla quarta sillaba mette in evidenza il pronome personale di prima persona, in posizione di evidenza perché posposto al verbo e perché su di esso culmina anche l’allitterazione della m) attraverso (per) il profondo mare aperto, solo con una nave (legno, metonimia) e con quella piccola compagnia (compagna) dalla quale non fui abbandonato (diserto). 14 L’un lito e l’altro… intorno bagna: Vidi entrambe le coste (L’un lito e l’altro) <del Mediterraneo> fino alla Spagna e fino al Marocco, e <vidi> la Sardegna (l’isola de’ Sardi) e le altre isole che (complemento oggetto) quel mare (soggetto) circonda (intorno bagna). 15 Io e ’ compagni… Setta: Io e i miei compagni eravamo vecchi e stanchi (tardi, nel senso di rallentati, appesantiti dall’età) quando giungemmo a quello stretto passaggio (foce; si riferisce allo stretto di Gibilterra) dove Ercole segnò i suoi confini (riguardi) affinché nessun uomo li varcasse (l’uom più oltre non si metta); alla mia destra superai Siviglia (Sibilia; in effetti la città non si trova sul mare: il suo nome indica per sineddoche la regione dell’Andalusia), dall’altro lato avevo già superato Cèuta (Setta, città dell’Africa settentrionale). Lo stretto di Gibilterra veniva identificato con le colonne d’Ercole, considerate il confine del mondo esplorabile. È probabile che il mito medievale dell’insuperabilità delle colonne d’Ercole fosse connesso con l’occupazione araba della Spagna. 16 O frati… sanza gente: «O fratelli», dissi, «che attraverso (per) moltissimi (cento milia, lett. centomila, è un’iperbole) pericoli siete giunti all’<estremo> occidente, a questo così breve tempo in cui i sensi saranno desti (vigilia de’ nostri sensi, lett. veglia dei nostri sensi) che ci resta (è del rimanente, espressione ricalcata sul latino de reliquo est), concedete (non vogliate negar, litote) la conoscenza (esperienza), del mondo disabitato (sanza gente: si riteneva che oltre le colonne d’Ercole si stendesse l’emisfero delle acque, privo di terre emerse e non abitato da uomini) <che si ottiene> viaggiando verso ovest (di retro al sol, lett. seguendo il corso del sole). 17 Considerate… canoscenza: Riflettete sulla vostra natura (semenza): non foste generati (fatti) per vivere come animali (bruti), ma per perseguire la virtù e la conoscenza. 18 Li miei compagni… ritenuti: Con questo breve discorso (orazion picciola) resi (feci) i miei compagni così desiderosi (aguti) di intraprendere il viaggio (al cammino) che, in seguito (poscia) sarei riuscito a fatica a trattenerli. 19 e volta nostra poppa… dal lato mancino: e, avendo diretto la nostra poppa verso levante (nel mattino: essendo la barca indirizzata ad ovest, la poppa è volta verso est) usammo i remi come ali per il nostro viaggio (volo, metafora) temerario (folle: l’aggettivo indica l’atteggiamento di chi fa eccessivo affidamento nelle capacità umane), procedendo sempre di più verso la nostra sinistra (dal lato mancino; indica la direzione di sud-ovest). 20 Tutte le stelle… del marin suolo: La notte ci mostrava (vedea; metaforicamente è la notte stessa a “vedere”) già tutte le stelle dell’emisfero australe (altro polo), e <ci mostrava> il cielo dell’emisfero boreale (’l nostro) tanto basso che non si innalzava (non surgea più) sulla superficie (suolo) marina; il cielo visibile nel nostro emisfero, insomma, era ormai sotto la linea dell’orizzonte. 21 Cinque volte… non avea alcuna: Per cinque volte la luce (lo lume) sulla parte inferiore della luna (di sotto da la luna: dalla terra infatti è visibile solo l’emisfero inferiore della luna) era tornata ad essere visibile (c’erano dunque state cinque lune piene, quindi erano trascorsi cinque mesi), e per altrettante <volte> si era oscurata (casso: c’erano insomma state cinque lune nuove), dal momento in cui avevamo iniziato l’audace viaggio (alto passo), quando ci apparve una montagna, scura (bruna) per la distanza, e mi parve tanto alta, quanto non ne avevo mai vista nessuna. Si tratta della montagna del Purgatorio, sulla cui cima si trova il Paradiso terrestre. 22 Noi ci allegrammo… il primo canto: Noi gioimmo, ma (e) presto (tosto) <la nostra allegria> si trasformò (tornò) in dolore (pianto), perché dalla terra sconosciuta (nova) nacque una tempesta (turbo), che (e) colpì (percosse) la parte anteriore (’l primo canto) della nave (legno). 23 Tre volte… richiuso: Per tre volte <la tempesta> la (il, riferito al «legno») fece girare insieme a tutte le acque; alla quarta <volta, fece> alzare (levar) la poppa verso l’alto (in suso) e <fece> andare (ire) verso il basso la prua (prora), come piacque a Dio (altrui), finché il mare si richiuse sopra di noi. 24 L’alba… marina: Il chiarore dell’alba si sostituiva all’oscurità della notte (l’ora mattutina: il mattutino è l’ultima delle ore canoniche notturne) che scompariva (fuggia) davanti ad esso, in modo che da lontano riconobbi il tremolare del mare. 25 Noi andavam… invano: Noi procedevamo per la pianura solitaria (è il terreno che si estende dai piedi della montagna del Purgatorio fino alla riva del mare), come chi ritorna verso la strada perduta, in modo tale (che), fino a quando non l’ha raggiunta (’nfino ad essa), ha l’impressione di camminare (ire) inutilmente. 26 Quando… pose: Quando giungemmo (fummo) in un luogo in cui (là ’ve) la rugiada resiste al (pugna col) sole, per il fatto di trovarsi (per essere) in un punto (in parte) dove, a causa dell’ombra (ad orezza) si scioglie (dirada) con difficoltà (poco), il mio maestro (Virgilio) pose con delicatezza entrambe le mani aperte (sparte) sull’erbetta. Virgilio si appresta a purificare Dante, lavandogli il volto con la rugiada del Purgatorio. Anche Enea, prima di entrare nei Campi Elisi, si cosparge di acqua (Eneide, VI, v. 636). 27 ond’io… mi nascose: per cui io, che fui pronto a comprendere (accorto) il suo operato (di sua arte), avvicinai (porsi) verso (ver) lui le guance bagnate di lacrime: lì mi scoprì interamente (mi fece tutto discoverto) quel colore <del volto> che l’inferno mi aveva nascosto. Il viaggio nell’Inferno ha coperto Dante di sporcizia; sul piano allegorico questo è dunque un rito di purificazione dal peccato. 28 Venimmo poi… poscia esperto: Giungemmo poi sulla spiaggia (lito) deserta, che non vide mai navigare le sue acque da un uomo che abbia poi (poscia) fatto l’esperienza di ritornare. L’unico uomo che avesse tentato di avvicinarsi alla montagna, Ulisse, era stato infatti travolto dalla tempesta. A differenza del viaggio di Ulisse, quello di Dante è destinato a un esito felice perché non fa affidamento esclusivo sull’ingegno umano, ma nasce dall’umile sottomissione alla volontà di Dio. 29 Quivi… altrui piacque: Qui <Virgilio> mi cinse <con un giunco>, come piacque a Dio (altrui). Il consiglio di cingere Dante con un giunco era stato dato a Virgilio da Catone; il giunco è una pianta flessibile, che si lascia piegare dai flutti del mare, e rappresenta allegoricamente la virtù dell’umiltà. L’espressione «com’altrui piacque» potrebbe riferirsi a Catone, ma è meglio riferirla a Dio, della cui volontà Catone è l’esecutore; l’espressione è infatti – non certo a caso – identica a quella di Inferno, XXVI, 141, utilizzata per designare la volontà divina che determinò il naufragio di Ulisse. 30 oh maraviglia… l’avelse: oh, miracolo! perché (ché) quell’umile pianta che egli scelse, rinacque identica (cotal) immediatamente (subitamente) nello stesso luogo (là) dal quale (onde) egli l’aveva strappata (avelse, latinismo). Il giunco che rinasce da dove è stato strappato è una reminiscenza virgiliana: accade lo stesso al ramo d’oro staccato da Enea, su suggerimento della Sibilla, prima di entrare nell’oltretomba (cfr. Eneide, VI, 143-144). Allegoricamente il rinascere dell’«umile pianta» può significare che da un atto di umiltà se ne genera un altro; l’immagine di rinascita si collega inoltre al tema della Resurrezione, fondamentale per la poesia del Purgatorio (anche perché l’ascesa al monte comincia proprio a Pasqua). 31 Questi… venir tardo: Questa, con la quale (onde) il tuo sguardo (riguardo) ritorna verso di me <completando il giro>, è la luce che avvolge un’anima che, immersa in pensieri dolorosi (gravi), credette di arrivare troppo tardi alla morte. Sigieri di Brabante, pensatore averroista, fu protagonista di una disputa teologica contro san Tommaso, in cui sosteneva, con argomenti filosofici, la mortalità dell’anima individuale. Per conciliare tale posizione con la fede sostenne la tesi della doppia verità, che gli consentiva, come credente, di rinnegare ciò che la filosofia aveva dimostrato. Nel 1277 il suo pensiero fu comunque condannato dal vescovo di Parigi; seguì anche la scomunica. Sigieri fu ucciso a Orvieto nel 1283. Il v. 135 potrebbe far riferimento a un passo del De anima intellectiva, in cui Sigieri sostiene che «vivere sine litteris mors sit et vilis hominis sepultura» [«vivere senza studi letterari è morte e vile sepoltura dell’uomo»]; insomma, l’impossibilità di proseguire i propri studi sembrò a Sigieri peggiore della morte. 32 essa… invidiosi veri: questa è l’anima eternamente beata di Sigieri che, tenendo lezione (leggendo) nella Via (Vico) della Paglia (de li Strami: è il nome italianizzato dela Rue du Fouarre, la strada di Parigi dove si trovavano le scuole di filosofia e dove Sigieri insegnava) sostenne sotto forma di sillogismo (sillogizzò) verità che gli procurarono persecuzioni (invidiosi veri). Per il significato di questa inclusione di Sigieri tra i beati, si rimanda all’approfondimento. IL TESTO Parole e concetti chiave I passi che presentiamo in questo approfondimento appartengono a diversi canti della Commedia. A una lettura superficiale, essi potrebbero apparire tra loro slegati. Tuttavia alcuni concetti e parole chiave, che in essi ricorrono, possono dimostrare la loro intrinseca connessione. Inferno, X e XXVI: l’“ingegno” e la “virtù” Tale connessione è particolarmente evidente se si esaminano i primi due brani, tratti rispettivamente dal X e dal XXVI canto dell’Inferno. In entrambi ricorre, sempre con riferimento alla persona di Dante, il sostantivo “ingegno”. Nel X canto Cavalcante dei Cavalcanti, uomo di convinzioni epicuree e padre di Guido, riconosce le qualità intellettuali di Dante (al punto da supporre che solo a tali qualità, e senza alcun intervento soprannaturale, si debba il suo privilegio di visitare l’Inferno). All’inizio del XXVI canto è lo stesso Dante-poeta a fare riferimento al proprio «’ngegno», avvertendo che qui, più che altrove, gli sarà necessario tenere a freno questo dono della natura, e sottometterlo alla «virtù». Già nel canto X, alla lusinghiera asserzione di Cavalcanti circa l’ingegno di Dante, quest’ultimo aveva risposto ridimensionando i propri meriti («Da me stesso non vegno») e sottolineando come il suo viaggio fosse frutto di un’ispirazione superiore, rifiutata invece da Guido. Si può dunque capire come qui Dante, indicando nella «virtù» il freno all’orgogliosa fiducia nel proprio «’ngegno», faccia riferimento a un concetto di natura religiosa, connesso con l’ispirazione divina del poema. Solo quest’ultima, infatti può garantire il buon esito di un’opera che potrebbe, altrimenti, apparire temeraria o addirittura sacrilega.
Sui contatti tra Dante e gli aristotelici radicali si possono avanzare diverse supposizioni. È possibile che Dante abbia preso parte a Firenze ad incontri cui partecipavano studiosi provenienti da Parigi (dove l’aristotelismo radicale era particolarmente diffuso). È possibile che la «donna gentile», di cui il Dante della Vita nuova si innamora dopo la morte di Beatrice, possa indicare proprio una filosofia, lontana dalla teologia, che a un certo punto della sua vita ha attratto l’interesse del poeta. Quel che è certo, comunque, è che il De vulgari eloquentia contiene spunti di teoria linguistica riconducibili a Boezio di Dacia. Alcuni passi dell’opera dantesca sembrano infatti contenere citazioni testuali dai Modi significandi di questo studioso2. Né è da escludere che anche altre opere di Dante risentano di influssi della stessa matrice. Alcuni studiosi – nota ancora la Corti – sostengono che Dante debba a Sigieri di Brabante «la chiarezza nel separare sia, in ambito speculativo, la filosofia dalla teologia sia, in ambito politico, il potere laico da quello ecclesiastico». 1 Maria Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Sansoni, 1981. 2 Secondo la Corti, la definizione dantesca del volgare “aulico” contenuta nel De vulgari eloquentia è ripresa quasi testualmente dalla definizione che Boezio di Dacia, nei Modi significandi, dà dei prima principia. Per Dante, infatti, nella regia («aula») che è la «comunis domus» di ogni parte del regno, deve trovarsi «quicquid tale est ut omnibus sit comune nec proprium ulli». Queste parole di Dante sembrano ricalcate sulla definizione che Boezio di Dacia dà dei prima principia come «omnia ea, quae sunt omnibus communia et nulli propria». Quando poi Dante definisce cosa sia per lui il volgare «curiale», dice che le sue “membra” sono unite gratioso lumine rationis; in questo passo egli sembra rifarsi al concetto di Boezio di Dacia secondo cui la struttura razionale di tutti gli idiomi (constructio) obbedisce ratione modorum significandi, ossia alle «regole generali di una razionale organizzazione delle parti del discorso». 3 Possiamo osservare che quest’immagine malefica della lingua di fuoco può richiamare, per contrasto, l’immagine di una lingua di fuoco benefica: quella dello Spirito Santo disceso sugli Apostoli. |
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