DIV4
Dante Alighieri
Un processo allo Stilnovo
Divina Commedia Inferno, V, 70-142

[Inferno, canto V, vv. 70-142]
Nel secondo cerchio dell’Inferno sono puniti i lussuriosi. Nella vita essi furono trascinati dalla passione dei sensi, che non seppero sottomettere al controllo della ragione. Nell’eternità, secondo la legge del contrappasso, sono tormentati da una bufera che li trascina senza tregua. Tra i lussuriosi si distinguono coloro che perdettero la vita a causa dell’amore, tra i quali c’è la regina Didone (eroina del poema virgiliano, uccisasi dopo essere stata abbandonata da Enea). L’attenzione di Dante è attratta da due anime che, perfino all’Inferno, appaiono inseparabili l’una dall’altra. Si tratta di due cognati, il riminese Paolo Malatesta e la ravennate Francesca da Polenta, la cui vicenda – che dovette essere molto nota all’epoca, ma sulla quale stranamente non possediamo testimonianze coeve – può essere così sommariamente ricostruita: negli anni 1283-1285, nel quadro di un accordo tra due famiglie guelfe, Francesca era andata in sposa al fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta, che gli antichi commentatori descrivono come «rustico uomo» affetto da deformità fisica (il soprannome “ciotto” significa zoppo). La donna aveva poi ceduto all’amore del cognato Paolo, giovane di bell’aspetto e modi cortesi. I due cognati furono uccisi dallo stesso Gianciotto. È probabile che l’episodio abbia destato particolare impressione in Dante, che dovette conoscere personalmente Paolo Malatesta quando questi, nel 1282, soggiornò a Firenze ricoprendovi la carica di capitano del popolo.

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito1. 72

I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri2». 75

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno3». 78

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!4». 81

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate; 84

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido5. 87

«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 90

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso6. 93

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace7. 96

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui8. 99

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta9; e ’l modo ancor m’offende10. 102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona11. 105

Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte12. 108

Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?»13. 111

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!»14. 114

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio15. 117

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?16». 120

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore17. 123

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice18. 126

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto19. 129

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse20. 132

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso, 135

la bocca mi basciò tutto tremante21.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante»22. 138

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse. 141

E caddi come corpo morto cade23.






1 Poscia… smarrito: Dopo (Poscia) che ebbi sentito il mio maestro (dottore, dal verbo latino docere) nominare (nomar) le donne dell’antichità e gli eroi (cavalieri: il termine, che in senso proprio designa i protagonisti dei romanzi medievali in lingua d’oïl, viene qui esteso a indicare anche i personaggi dell’antichità pagana), fui preso da turbamento (pietà) e rimasi quasi smarrito. Nei versi precedenti Virgilio ha rivelato a Dante i nomi di molte delle anime che perdettero la vita a causa dell’amore. Tra queste ci sono eroine come Elena di Troia o la regina Didone, ed eroi come Paride e Tristano. La riflessione sulle conseguenze della passione amorosa causa in Dante un profondo turbamento («pietà»). Sulla natura di questo sentimento – fondamentale per la comprensione dell’episodio – ci soffermeremo a lungo nell’approfondimento.

2 I’ cominciai… leggeri: Io cominciai: «Poeta, parlerei volentieri con quei due che sono trascinati insieme dalla bufera (’nsieme vanno), e sembrano abbandonarsi docilmente (esser leggeri) al vento». È questa la prima volta che, nella Commedia, Dante esprime il desiderio di parlare con i dannati. Paolo e Francesca sono immediatamente distinguibili perché, diversamente dagli altri dannati di questo girone, rimangono tra loro uniti anche dopo la morte.

3 Ed elli… verranno: Ed egli (Virgilio), <disse> a me: «Farai attenzione (Vedrai) quando passeranno più vicino (presso) a noi; allora pregali in nome di (per) quell’amore che li (i) trascina (mena), ed essi verranno <a parlare con te>». L’amore è stata la causa della dannazione di queste due anime; ma Virgilio invita Dante – poeta di formazione stilnovistica, e dunque anch’egli consacrato all’amore – ad invocarle proprio in nome di questo sentimento. La passione amorosa si presenta dunque nella sua ambiguità: sentimento nobilitante, come affermava la tradizione cortese-stilnovistica, o radice di un peccato mortale, come può apparire dalla dannazione di queste anime, e ancor più chiaramente dalla vicenda di Paolo e Francesca?

4 Sì tosto come… niega: Non appena (Sì tosto come) il vento li portò verso di noi (a noi li piega, verbo al presente storico) io parlai (mossi la voce): «O anime tormentate (affannate), venite a parlare con noi, a meno che qualcuno (altri, con implicito riferimento a Dio) non lo vieti (nol niega)!».

5 Quali colombe… grido: Come le colombe, richiamate dal desiderio, si dirigono (vengon) attraverso l’aria (per l’aere) al dolce nido con le ali spiegate (alzate) e stabili (ferme), <tanto da apparire> trasportate <solo> dalla loro voglia (dal voler portate), simili ad esse (cotali) <quelle due anime> uscirono dalla schiera in cui si trova Didone (ov’è Dido: si tratta della schiera dei morti per amore, al cui interno Virgilio ha in precedenza identificato «donne antiche» e «cavalieri»), venendo verso di noi attraverso l’aria infernale (l’aere maligno), tanto fu potente (forte) il <mio> grido pieno di sentimento (affettuoso).

6 O animal… perverso: «O essere (animal) cortese (grazioso) e benevolo, che vai visitando attraverso l’aria scura (perso è un colore intermedio tra il purpureo e il nero, ma più vicino a quest’ultimo) <dell’Inferno> noi che tingemmo il mondo con il nostro sangue (sanguigno è un aggettivo sostantivato che indica il colore rosso scuro), se il re dell’universo (perifrasi per indicare Dio) <ci> fosse amico, noi lo pregheremmo di darti pace (de la tua pace), poiché hai pietà del nostro male atroce (perverso)». Francesca si presenta a Dante con un’apostrofe – che è anche una captatio benevolentiae – da cui si evidenziano la raffinatezza e la cultura del personaggio: se Dio fosse incline ad ascoltare le preghiere delle anime dannate (condizione evidentemente impossibile: si tratta di un adynaton), lei e Paolo sarebbero lieti di pregare per il bene di Dante.

7 Di quel che udire… ci tace: «Noi ascolteremo e parleremo con voi di quegli argomenti (Di quel) di cui (che) vi piace ascoltare e parlare, finché (mentre) il vento, come ora sta facendo (come fa) qui (ci) si placa (tace)».

8 Siede la terra… co’ seguaci sui: «La terra dove nacqui (nata fui; si tratta di Ravenna) si trova (siede, con richiamo alla forma pianeggiante del territorio) sul litorale (marina) in cui il Po sfocia (discende) per trovare riposo (pace: indica il placarsi nel mare delle correnti fluviali) insieme ai suoi affluenti (seguaci)». La perifrasi elegante con cui Francesca designa il luogo natale – all’epoca più vicino al mare di quanto lo sia la Ravenna attuale –, così come il riferimento alla «pace» (il secondo nel giro di otto versi), sottolinea il contrasto tra i tormenti infernali e l’aspirazione idillica del personaggio.

9 Amor, ch’al cor gentil… tolta: «L’Amore, che si attacca (apprende) improvvisamente (ratto) al cuore nobile (gentile: l’aggettivo, nel lessico stilnovistico, designa la nobiltà spirituale), fece innamorare (prese) costui (Paolo) del bel corpo (persona) che mi fu strappato (tolta: riferimento alla morte violenta per opera di Gianciotto)». Il primo verso della terzina richiama la canzone Al cor gentil rempaira sempre Amore di Guido Guinizzelli (in particolare i vv. 1 e 11 [E1]. Da notare la struttura sintattica del discorso di Francesca: in questa terzina, così come nella successiva, Amore è il soggetto dell’azione, mentre Paolo («costui») appare soltanto come complemento oggetto; tale strutturazione del periodo sembra sottolineare l’irresistibilità dell’Amore (in coerenza con la teorizzazione accolta dalla cultura cortese e stilnovistica), in modo da attenuare implicitamente la responsabilità individuale degli amanti. Sul piano logico, la terzina è costruita come un sillogismo in cui non venga resa esplicita la premessa minore: a) l’amore si accende nel cuore gentile (premessa maggiore, esplicita); b) Paolo era dotato di cuore gentile (premessa minore, implicita); c) Paolo fu conquistato dall’amore (conclusione, esplicita).

10 e il modo ancor m’offende: «e la forza <della passione> ancora mi vince». Ma l’espressione potrebbe essere riferita anche al «modo» in cui a Francesca fu «tolta» la «persona»; in questo caso si potrebbe parafrasare: e la violenza dell’uccisione mi provoca ancora sofferenza.

11 Amor, ch’a nullo amato… non m’abbandona: «L’Amore, che a nessuna persona amata consente di non (perdona) amare <a sua volta>, mi fece innamorare (prese) della bellezza (piacer, infinito sostantivato) di costui, con tale forza che, come vedi, non mi abbandona nemmeno adesso (ancor). Il primo verso della terzina sembra riecheggiare i testi della trattatistica sull’amor cortese, tra cui il De amore di Andrea Cappellano («Amor nil posset amori denegare» [«L’amore non può negare nulla all’amore»]; II, viii, 48). Ricorre anche qui la stessa struttura sintattica della precedente terzina, che vede Amore come soggetto dell’azione e il pronome personale «mi», riferito a Francesca, come complemento oggetto. Di nuovo, la terzina appare costruita come un sillogismo in cui la premessa minore rimanga sottintesa: a) l’amore obbliga la persona amata a riamare (premessa maggiore, esplicita); b) io ero amata da Paolo (premessa minore, implicita); c) io fui conquistata dall’amore (conclusione, esplicita).

12 Amor condusse noi… ci fuor porte: «L’Amore ci condusse a morire insieme (a una morte); la Caina (zona dell’Inferno in cui sono puniti i traditori dei parenti) attende chi ci uccise (a vita ci spense: riferimento al marito Gianciotto Malatesta)»; queste parole ci furono offerte (porte) da loro. Il discorso di Francesca è pronunciato anche a nome di Paolo: così si spiega il complemento d’agente al plurale, «da lor», anche se in effetti nel canto Paolo resta sempre silenzioso.

13 Quand’io intesi… Che pense: Dopo avere ascoltato quelle anime in pena (offense: di nuovo, si sottintende che le parole di Francesca siano pronunciate anche a nome di Paolo) chinai lo sguardo (viso), e lo tenni basso fino a quando il maestro mi chiese: «A cosa pensi»? Le ragioni del turbamento di Dante, che lo induce a riflettere in silenzio, sono chiarite nella terzina successiva.

14 Quando rispuosi… passo: Quando risposi cominciai: «Ahimé (Oh, lasso), quanti teneri pensieri, quanto desiderio condussero (menò, verbo al singolare per una pluralità di soggetti) costoro all’azione (passo) che fu causa di dannazione (doloroso)». La meditazione di Dante ha come oggetto il contrasto tra la concezione tradizionale dell’amore (di cui la letteratura era solita esaltare la dolcezza e il potere nobilitante) e le conseguenze di dannazione cui esso può condurre.

15 Poi mi rivolsi… tristo e pio: Poi mi rivolsi a loro, presi la parola e cominciai: «Francesca, le tue sofferenze (martiri) mi rendono (fanno) addolorato (triste) e turbato (pio) fino alle lacrime (a lacrimar)». Anche il discorso di Dante, come quello di Francesca (cfr. nota ), comincia con una captatio benevolentiae, che costituisce la premessa alla richiesta riportata nella terzina successiva, e destinata a provocare sofferenza nella donna.

16 Ma dimmi… disiri: «Ma dimmi: al tempo dei dolci sospiri <amorosi>, per quali indizi (a che) e in quali circostanze (come) l’Amore permise (concedette) che conosceste i desideri (disiri) incerti (dubbiosi)? Dante distingue due momenti del legame extramatrimoniale tra Paolo e Francesca: la fase dei «dolci sospiri», in cui la semplice inclinazione amorosa, ancora sottoposta al freno della ragione, non appare ancora come una colpa; e la fase in cui gli amanti si abbandonano ai desideri, senza più opporre la resistenza della ragione e lasciando che essi sconfinino nel peccato.

17 E quella a me… dottore: E lei <rispose a me>: «<Non esiste> nessun dolore maggiore che ricordarsi della felicità <passata> quando si è diventati infelici (ne la miseria); e il tuo maestro (dottore, cioè Virgilio) lo sa». L’esordio del secondo discorso di Francesca, mentre sottolinea la condizione psicologica della sua anima, la cui sofferenza è acuita dal ricordo della passata felicità, costituisce anche un’implicita captatio benevolentiae nei confronti di Virgilio, destinato in eterno, nell’oltretomba, a rimpiangere la vita terrena [qLDIV6]. La frase di Francesca sembra ricalcare Boezio, De consolatione philosophiae, II, 4: «in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem» [«in ogni rovescio di fortuna, la più grande delle infelicità è l’essere stato felice].

18 Ma se a conoscer… piange e dice: «Ma se tu hai tanto desiderio (affetto) di conoscere l’origine (prima radice) del nostro amore <colpevole>, parlerò come chi parla piangendo».

19 Noi leggiavamo… sospetto: «Noi leggevamo un giorno per svago (diletto) <la storia> di Lancillotto, <e di> come l’amore lo conquistò (strinse). Eravamo da soli, e senza alcun presentimento di colpa (sospetto)». La vicenda di Lancillotto era oggetto di diverse opere narrative medievali, tra cui la più famosa è quella di Chrétien de Troyes. Il testo cui fa riferimento Francesca potrebbe essere però una versione meno nota della storia (nel Lancillotto di Chrétien, infatti, è la donna a baciare il cavaliere; cfr. nota ). Lancillotto, vassallo di Re Artù, è innamorato della regina Ginevra. Consigliati dal siniscalco Galehaut, i due finiscono per baciarsi tradendo dunque il vincolo matrimoniale e la fedeltà al sovrano. La lettura del racconto induce Paolo a identificarsi con Lancillotto e Francesca con Ginevra.

20 Per più fiate… ci vinse: «Più volte (fiate) quella lettura ci indusse a guardarci negli occhi (li occhi ci sospinse) e ci fece impallidire (scolorocci il viso); ma solo un momento (punto) fu quello che vinse ogni nostra resistenza». Il gioco di sguardi e lo scolorarsi del viso contengono un richiamo alla regola XV di Cappellano («Omnis consuevit amans in coamantis aspectu pallescere» [«Ogni amante è solito impallidire alla vista dell’altro amante»]; De amore, II, viii, 46).

21 Quando leggemmo… tremante: «Quando leggemmo che la desiderata bocca (riso, metonimia) <di Ginevra> venne baciata da un simile (cotanto) amante, questi (Paolo), che non sarà mai diviso da me, mi baciò la bocca tutto tremante». Paolo e Francesca commettono il loro peccato imitando i personaggi del romanzo cortese; questa ricostruzione costituisce un implicito atto d’accusa nei confronti della letteratura amorosa e del suo potere di fascinazione.

22 Galeotto… avante: Il libro e il suo autore ebbero lo stesso ruolo di Galeotto (il personaggio che convince Lancillotto e Ginevra all’amore adulterino). Quel giorno non vi leggemmo più oltre (avante). La preterizione contenuta in quest’ultimo verso lascia imprecisati i fatti successivi al bacio tra i due cognati. Qualcuno ritiene che Paolo e Francesca siano stati uccisi immediatamente dopo l’episodio qui narrato. Per altri, invece, l’uccisione sarebbe avvenuta solo in un momento più tardo, e il riserbo della preterizione coprirebbe il completo abbandono dei due amanti alla passione.

23 Mentre che l’uno spirto… come corpo morto cade: Mentre una delle due anime (Francesca) diceva questo, l’altra (Paolo) piangeva, in modo tale () che io mi sentii mancare (venni men) per il turbamento (di pietade), quasi come se stessi morendo. E caddi come cade un corpo morto. L’ultimo verso è segnato dall’allitterazione (quattro delle sei parole che lo costituiscono iniziano con il suono c); la ripetizione di due voci del verbo “cadere” costituisce poliptoto, mentre «corpo» e «morto» sono legati da assonanza e parziale consonanza.



IL TESTO
Premessa: Francesca innocente?
La storia di un classico della letteratura è anche, in parte, la storia del modo in cui lettori vissuti in epoche diverse ne hanno variamente interpretato il significato. Tra le pagine della Commedia, quella di Francesca è una delle più popolari e delle più discusse dalla critica. Nella sezione Il testo di quest’approfondimento ne proporremo una lettura in linea con le acquisizioni prevalenti degli studi novecenteschi. Nella sezione Il problema torneremo, invece, sulle più significative letture che di questo canto sono state date tra il XIX secolo e la prima metà del XX.
Come abbiamo già accennato nelle note, è questa la prima volta che, nell’Inferno, un dannato prende la parola per narrare la propria vicenda. Il racconto dell’amore tra Paolo e Francesca è focalizzato sulla protagonista. Quest’ultima difende con forza le ragioni del proprio sentimento: vuol convincere chi la ascolta dell’ineluttabilità della passione che l’ha condotta all’adulterio, e di conseguenza dell’innocenza propria e del suo amante. Non è certo difficile, soprattutto alla luce di una sensibilità lontana da quella del Medioevo, prendere con decisione le parti di Francesca. Lo stesso poeta sembra autorizzarci ad attenuare la severità del giudizio morale che la condanna all’Inferno: il sentimento di «pietà» che lo porta allo svenimento potrebbe anzi apparire come un’implicita protesta contro l’eccessiva durezza della punizione divina.
La questione ha implicazioni importanti. Si tratta di capire se, in Dante, poesia e teologia siano due momenti separati o addirittura conflittuali; o se essi invece convergano a costituire l’unità inscindibile della Commedia. Prima di riflettere su questo problema, ripercorriamo il canto, riprendendo in forma più sistematica la proposta interpretativa che abbiamo avanzato nelle note.

Francesca, l’imputata-accusatrice
Il racconto di Francesca, abbiamo detto, provoca la «pietà» di Dante personaggio. Per definire con esattezza il significato di questa parola, è necessario riflettere con attenzione sul discorso del personaggio. Si tratta, certo, delle parole di una donna disperata e tuttora innamorata, anzi innamorata per l’eternità. Ma sono anche le parole di una donna raffinata, capace di esprimersi con estrema sapienza, cresciuta nel culto della letteratura cortese e, con tutta probabilità, educata anche ai precetti dell’ars rethorica.
La raffinatezza del discorso di Francesca può subito notarsi a livello formale. La donna fa ampio ricorso a figure di senso (come le perifrasi), dell’ordine (come l’anafora che congiunge gli incipit dei vv. 100, 103 e 106, o come il poliptoto del v. 103), e si vale almeno due volte della captatio benevolentiae, rivolta prima esplicitamente a Dante (anche mediante la figura dell’adynaton) e poi, implicitamente, a Virgilio, mediante un accostamento del proprio destino a quello del poeta latino.
Il discorso di Francesca può essere diviso in due sequenze, intervallate dalla riflessione di Dante e dal suo breve dialogo con Virgilio. Nella prima sequenza (vv. 88-107), Francesca non si limita a una semplice narrazione dei fatti, ma inserisce in essa una convincente dimostrazione sillogistica dell’ineluttabilità della passione d’amore. Nella seconda (vv. 121-138) il tono è più schiettamente narrativo; il racconto culmina nella scena del bacio, e quindi si interrompe bruscamente, imponendo però al lettore di colmare il vuoto narrativo e di immaginare le circostanze che hanno condotto i due amanti alla morte e alla dannazione.
Le due sequenze in cui si articola il discorso di Francesca presentano importanti omologie strutturali. Ciascuna di esse inizia con una captatio benevolentiae, cui segue la descrizione di una situazione idilliaca (nel primo caso il sereno paesaggio del delta del Po, nel secondo la lettura del romanzo cavalleresco, compiuta un giorno dai cognati «sanza alcun sospetto»). Si produce poi, in entrambe le sequenze, un rapido innalzamento del pathos. La prima, dopo la serrata dimostrazione circa l’ineluttabilità della forza d’amore, prorompe nella maledizione contro il marito omicida. La seconda, dopo la scena del bacio (che, in base a quanto dimostrato prima, appare determinata da una tragica necessità), sfocia nell’atto d’accusa contro il libro «Galeotto», per poi chiudersi con una preterizione che non elimina, ma semmai accentua il pathos.
Ciascuna delle due sequenze, dunque, inizia in tono pacato, e sempre più velocemente precipita verso un finale che induce l’ascoltatore alla commozione. Sembrerebbe che Francesca padroneggi assai bene l’ars rehorica, e conosca quel precetto di Cicerone secondo cui il successo di un’orazione è assicurato, in ultima istanza, proprio dalla sua capacità di commuovere (flectere) l’ascoltatore.

Francesca si difende
L’abilità dialettica di Francesca risalta, nella prima sequenza, anche dalle sue non certo casuali scelte sintattiche. Ai vv. 100-106 il soggetto degli enunciati più rilevanti è sempre «Amore»; Paolo e Francesca, più che come soggetti attivi dell’adulterio, vengono presentati come semplici complementi oggetto delle azioni compiute da quest’onnipotente entità personificata. Amore, dice infatti Francesca, «prese costui» (v. 101); ancora Amore, continua la donna, «mi prese del costui piacer» (v. 104) al punto che «ancor non m’abbandona» (v. 105); sempre Amore, infine, «condusse noi ad una morte» (v. 106). Come osserva Sapegno, «la ripetuta assunzione, in tre momenti, di un medesimo soggetto grammaticale, che non coincide mai col soggetto reale delle azioni espresse» sembra proporsi l’obiettivo «di distogliere da questo l’attenzione dell’ascoltatore»; di indicare insomma come vittime coloro che, del tradimento e del peccato, sono invece da Dio condannati come responsabili.

Francesca controaccusa
Ma l’efficacia dell’“arringa” di Francesca si deve solo in parte alla sua capacità di sfumare la responsabilità degli amanti, attribuendo ad una legge di natura la responsabilità dell’accaduto, e portando sulla scena (a conclusione della prima sequenza) il marito Gianciotto, colpevole di un delitto ben più grave e sanguinoso («Caina attende chi a vita ci spense», v. 107). Francesca fa molto di più: riesce, in un certo senso, a trascinare sul banco degli imputati lo stesso Dante, fino a farlo dubitare di essere (lui, insieme alla cultura letteraria cortese-stilnovistica su cui si è formato) una sorta di «mandante ideologico dell’adulterio» (Sermonti). Questa “chiamata in correità” è implicita ma evidentissima. La possiamo scandire in tre momenti:
1) Le terzine con cui Francesca indica Amore come unico vero responsabile dell’adulterio si aprono con una fedele citazione da Guido Guinizzelli: il v. 100 («Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende») riprende il v. 11 della famosa canzone Al cor gentil rempaira sempre Amore («Foco d’amore in gentil cor s’aprende»). Sappiamo che Dante, come ogni poeta di formazione stilnovistica, vedeva in Guinizzelli un maestro degno di venerazione. In un sonetto della Vita nuova egli fa propria la dottrina enunciata dal primo Guido («Amore e ’l cor gentil sono una cosa / sì come il saggio in suo dittare pone»1); in Purgatorio, XXVI, il poeta fiorentino collocherà Guinizzelli tra i lussioriosi, ma lo designerà al tempo stesso come «padre / mio e de li altri miei maggior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (vv. 97-99). Attraverso la citazione guinizelliana, dunque, Francesca esplicita la propria appartenenza alla stessa cultura da cui proviene Dante; e inizia a giustificare il proprio adulterio alla luce della dottrina d’amore e del cuor gentile, ispirandosi alla quale anche il giovane Dante aveva poetato nella Vita nuova.
2) Ancor più suggestivo appare l’argomento enunciato al v. 104: se il tradimento di Francesca e Paolo si deve davvero ad una potenza cui l’uomo non può opporsi, a quell’«Amor, ch’a nullo amato amar perdona», dovrà infatti risultare evidente che i due amanti – e la donna soprattutto – non hanno agito per libera scelta, ma in condizione di necessità. Dietro questo verso c’è, ancora una volta, una fonte illustre e riconoscibile. Si tratta del De amore di Andrea Cappellano, un’altra delle autorità di riferimento della dottrina cortese medievale, la cui regola XXVI («Amor nil posset amori denegare»2) è sostanzialmente ripresa nel celebre endecasillabo, che infiora il sentenzioso latino di Andrea con l’incalzante drammaticità del poliptoto. La strategia di Francesca è qui particolarmente capziosa: la donna richiama la regola XXVI di Cappellano, ma finge di non sapere che, in altri passi De amore, lo stesso Andrea riconosce alla donna amata la libertà di non ricambiare, se non lo vuole, la passione3. Francesca appare quindi, come osserva D’Arco Silvio Avalle, una «cattiva o interessata lettrice» di Cappellano. È un altro indizio della tendenziosa costruzione del suo discorso, finalizzato a convincere Dante – in nome della stessa cultura che ne aveva ispirato le opere precedenti – dell’innocenza e inevitabilità della propria passione.
3) La chiamata in correità della letteratura medievale diviene ancor più esplicita nella seconda sequenza. Essa, nonostante il tono prevalentemente narrativo, si conclude con la maledizione contro il libro «galeotto», sotto la cui suggestione i due amanti cedettero alla passione, nonché di «chi lo scrisse»: nella simmetria compositiva del canto, questa maledizione fa il paio con quella più esplicita contro il marito assassino, che chiudeva la prima sequenza.

La pietà di Dante-personagggio
Se la costruzione retorica del discorso di Francesca non è casuale, dovrebbe apparirne chiaro l’obiettivo. La donna vuol costringere Dante-personaggio ad ammettere una delle due seguenti ipotesi: a) che il cedimento alla passione per cui essa si trova all’inferno insieme con Paolo non è condannabile, perché determinato dalle leggi d’Amore riconosciute valide dallo stesso Dante e dai suoi maestri; b) oppure che, se si vuol condannare il suo gesto, bisogna conseguentemente condannare tutta la cultura cortese e stilnovistica che ha teorizzato la signoria d’Amore sui cuori gentili; una cultura cui Dante non può certo sentirsi estraneo.
Possiamo provare, a questo punto, a spiegarci la reazione di Dante; essa è dapprima di dolente perplessità, come testimonia la breve riflessione che egli rivolge a Virgilio, a metà tra la prima e la seconda sequenza in cui si articola il discorso di Francesca («Oh lasso, / quanti dolci pensier, quanto disio / menò costoro al doloroso passo»; vv. 112-114); poi si trasforma in una «pietà»4 che arriva fino al deliquio, nella celeberrima chiusa del canto («di pietate / io venni meno così com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade»; vv. 140-142).
È chiaro però, a questo punto, che la «pietà» di Dante-personaggio non va letta come immediata, passionale adesione alla forza del sentimento evocata da Francesca, né tanto meno come implicito dissenso verso la legge divina che la condanna alla dannazione. Il termine, come spiega Sapegno, «non è da intendere nel senso di compassione, simpatia (come nelle interpretazioni che di questo canto famoso diedero già, nel quadro di una sensibilità prettamente romantica, il Foscolo e il De Sanctis, seguiti da molti fra i commentatori moderni); bensì nel senso di turbamento, che nasce dalla considerazione delle terribili conseguenze del peccato. E s’intende che, trattandosi qui di una colpa che ha la sua prima origine in un sentimento naturalissimo, ed esaltato per giunta da una lunga tradizione poetica (che risale ad Ovidio e si distende per infiniti rami nella letteratura medievale, fino allo “stil nuovo”), e trovandosi tra questi peccatori molti personaggi celebrati dalla poesia e aureolati dalla leggenda, il turbamento implica anche una sfumatura di sofferenza e di segreta tormentosa inquietudine, che non importa comunque mai da parte di Dante un atteggiamento di adesione e di compartecipazione e non attenua in nessun modo la recisa condanna morale». Dante, insomma, non assolve Francesca: ha ragione di temere, piuttosto, che non sia infondata la sua chiamata in correità; e si chiede, con dolore e sgomento, se la letteratura e la dottrina d’amore su cui egli stesso si è formato – che legittimavano, ed anzi esaltavano l’amore extramatrimoniale – non siano anch’esse davvero coinvolte nella divina condanna dei due amanti.
Non si può negare, certo, che il sentimento provato qui da Dante sia complesso e in parte contraddittorio. Occorre però ricordare che esso investe Dante-personaggio, ossia un peccatore che ha appena cominciato il faticoso cammino della redenzione, e si trova a contatto con un peccato al quale personalmente è stato assai incline. Nella prospettiva di Dante-poeta (che racconta il viaggio dopo il suo compimento, conclusosi con la visione di Dio) non può esserci naturalmente spazio per alcuna indulgenza verso la colpa. Se ammettessimo un atteggiamento del genere, dovremmo negare l’unità della Divina Commedia e finiremmo per sovrapporre al testo medievale criteri e sensibilità di lettura che sono figli del nostro tempo.

IL PROBLEMA
Premessa: Dante poeta e Dante teologo
L’interpretazione che abbiamo proposto riflette – soprattutto per quanto riguarda il significato di «pietà» – l’orientamento prevalente nei critici che, negli ultimi decenni, hanno affrontato la lettura del canto. Si tratta però del frutto di una riflessione novecentesca, che capovolge una tradizione critica che era giunta a conclusioni assai diverse e che, nata nei primi decenni del XIX secolo, ha avuto in Italia larga fortuna fino alla prima metà del Novecento.
Non è questo il luogo per ripercorrere la storia della critica dantesca. Proveremo soltanto, a partire dall’episodio di Francesca, e dal significato che in esso assume il termine «pietà», ad illustrare alcune interpretazioni diverse da quella da noi proposta, mettendone in luce, almeno in parte, i presupposti teorici.
È utile premettere che l’interesse per Dante rinasce in Italia, dopo secoli di giudizi prevalentemente negativi, ad opera del filosofo napoletano Giovanbattista Vico. Quest’ultimo, nella prima metà del Settecento, vede in Dante l’Omero del Medioevo, ossia un poeta dotato di straordinaria forza fantastica e passionale, che affonda le radici della sua arte proprio nella “barbarie” del proprio secolo. In epoche come quella in cui vive Dante, nelle quali la civiltà si trova ad uno stadio di sviluppo paragonabile alla giovinezza di un essere umano, l’immaginazione poetica raggiunge, secondo Vico, i suoi esiti migliori. La cultura filosofica e teologica di Dante, viceversa, non contribuiscono per Vico alla sua riuscita di poeta. Al contrario: «se Dante nulla avesse saputo di filosofia e di teologia più grande ancora sarebbe stato».
L’opposizione tra il Dante poeta e il Dante teologo segnerà profondamente la critica successiva. Una tappa importante, nell’interpretazione del V canto, è segnata da Ugo Foscolo, nella cui lettura del poema dantesco gli spunti vichiani si uniscono a un’impostazione culturale laica di ascendenza illuministica, e ad un’esaltazione della passione di stampo romantico. Foscolo idealizza la figura di Francesca, facendone «l’eroina dell’amore»: una donna talmente nobilitata dalla passione da sentirsi quasi degna, dal fondo dell’Inferno, di rivolgere le sue preghiere a Dio. Il giudizio morale, allora, finisce per passare in secondo piano, in quanto in Francesca «la colpa è purificata dall’ardore della passione». Ne consegue che la pietà di Dante può essere interpretata semplicemente come “compassione”: «in tutti que’ versi – scrive appunto Foscolo – la compassione pare l’unica musa».

Il giudizio di De Sanctis
La più famosa lettura ottocentesca del V canto è senz’altro quella di Francesco De Sanctis, il più grande storico e critico letterario del XIX secolo. Nell’impostazione teorica di quest’ultimo, all’interno della Commedia non sempre si conciliano pensiero e poesia, mondo etico-religioso e rappresentazione della vita reale. Tale difetto non va attribuito a Dante, ma alla sua epoca: «il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell’arte. La religione era misticismo, la filosofia scolasticismo. […] Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare; ciò che è proprio il contrario dell’arte». Il complesso di credenze e convinzioni morali proprie della sua epoca costituisce, secondo la terminologia di De Sanctis, il «mondo intenzionale» di Dante. Se quest’ultimo, anziché poeta, fosse stato «frate o filosofo, lontano dalla vita reale», egli si sarebbe sicuramente chiuso dentro tale mondo «e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell’allegoria». La presenza di questo «mondo intenzionale» finisce dunque per costituire, dal punto di vista artistico, il limite del poema, che appare a De Sanctis come «un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati» poiché «il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d’immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte».
La grandezza di Dante si può dunque misurare, in un certo senso, dalla sua capacità di superare i limiti intrinseci alla propria cultura. Egli infatti «entrando nel regno de’ morti, vi porta seco tutte le passioni de’ vivi, si trae appresso tutta la terra». Pur partendo da un «mondo intenzionale» non poetico, Dante ha dunque fatto «altra cosa che non intendeva. […] Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l’aria e la luce»5.
Per De Sanctis il pregio della poesia dantesca consiste nella sua concretezza, nella sua capacità di risultare viva a dispetto delle astrazioni del proprio tempo, di rappresentare individui e non pure allegorie. E Francesca risulta appunto «la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico de’ tempi moderni». Prima di Dante, infatti, «l’uomo riempie di sè la scena» e la donna è presente solo «come il riflesso dell’uomo, la sua cosa, la sua fattura, l’essere uscito dalla sua costa». Talora – è il caso, secondo De Sanctis, di Cavalcanti e in parte dello stesso Dante – la donna «è un semplice concetto, sul quale il poeta disserta o ragiona». Oppure «diviene un tipo nel quale il poeta raccoglie tutte le perfezioni morali, intellettuali e corporali, costruzione artificiale e fredda, assolutamente inestetica». Sono questi i limiti della Beatrice dantesca, che è al tempo stesso «più e men che donna»; “più che donna”, perché essa rappresenta «il divino non ancora umanato, l’ideale non ancora realizzato»; ma, al tempo stesso, “men che donna” in quanto «è il puro femminile, è il genere e il tipo, non l’individuo».
Francesca invece «è donna e non altro che donna […] è l’ideale compiutamente realizzato. […] Francesca non è il divino, ma l’umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, perciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita». La poesia del personaggio consiste nella sua inutile resistenza alla forza della passione: «contrastando e soggiacendo ella serba immacolata l’anima, quel non so che molle, puro, verecondo e delicato che è il femminile, “l’essere gentile e puro”. La donna depravata dalla passione è un essere contro natura, perciò straniero a noi e di nessuno interesse. Ma la donna che nella fiacchezza e miseria della lotta serba inviolate le qualità essenziali dell’essere femminile, la purità, la verecondia, la gentilezza, la squisita delicatezza de’ sentimenti, poniamo anche colpevole, questa donna sentiamo che fa parte di noi, della comune natura, e desta il più alto interesse»6.
In questo quadro, ancora una volta, il sentimento di «pietà» provato da Dante non sembra richiedere un’armonizzazione con il giudizio morale negativo verso il peccato. «Di questa tragedia sviluppata nei suoi lineamenti sostanziali e pregna di silenzi e di misteri, musa è la pietà, pura di ogni altro sentimento, corda unica e onnipotente, che fa vibrare l’anima fino al deliquio. E la musa è Dante, che dà principio al canto già commosso; che usa le immagini più delicate, quasi apparecchio alla scena; che al nome delle donne antiche e de’ cavalieri rimane vinto da pietà e “quasi smarrito”; che si sente già impressionato alla sola vista di quei due “che insieme vanno”; che a renderne la figura trova un paragone così delicato e pieno d’immagini tanto gentili; che alle prime parole di Francesca rimane assorto in una fantasia piena di dolore e di dolcezza e tardi si riscuote ed ha le lacrime negli occhi; e che nella fine “cade come corpo morto”; e non è la donna che parla, è l’uomo che piange che fa su di lui l’ultima impressione. In questa graduata espressione di pietà – si chiede ancora De Sanctis – è necessario un perché?». L’unica ragione plausibile sta, secondo il critico, nel fatto che Dante «è l’uomo vivo nel regno de’ morti, che porta colà un cuore d’uomo e rende profondamente umana la poesia del sopraumano»7. Da questo contrasto tra umano e sopraumano (e, più precisamente, dal prevalere dell’umano) nasce, dunque, la «pietà» di Dante per i dannati. «Pietà» che, ancora una volta, può essere intesa come “compassione”.

L’ipoteca di Croce sulla critica italiana
Poco muta, nell’interpretazione della «pietà» di Dante e dunque dell’intero episodio, nell’impostazione di Benedetto Croce, lo studioso che ha più profondamente influenzato la critica letteraria italiana novecentesca. Netta è in Croce la contrapposizione tra il mondo etico-religioso di Dante e il suo sentimento di poeta: «Dante, come teologo, come credente, come uomo etico, condanna quei peccatori; ma sentimentalmente non condanna e non assolve; si sente interessato, turbato, gli occhi si gonfiano di lagrime, e infine vien meno dalla commozione». Il metodo di Croce, basato sulla distinzione all’interno di un’opera letteraria di momenti poetici contrapposti ad altri non poetici, ha dato l’avvio a una linea critica incline alla lettura frammentaria della Commedia, pronta a isolarne i singoli momenti “lirici” senza metterli organicamente in relazione con la struttura di pensiero ad essi sottostante. L’influenza esercitata da Croce sulla cultura italiana può forse aiutare a spiegare il fatto che il rinnovamento degli studi danteschi si debba prevalentemente a contributi stranieri. È stato in primo luogo il filologo tedesco Erich Auerbach a ricondurre Dante alla cultura medievale di cui fa parte, senza svalutare quest’ultima come impoetica, ma guidando anzi i lettori moderni a una più attenta comprensione della mentalità dell’epoca. Attraverso il concetto di figura, Auerbach ha chiarito che l’allegoria medievale non va ridotta a una semplice e sterile astrazione, ma si caratterizza anzi per una robusta concretezza che la distingue dall’allegoria tradizionale [DIV1c]; per questa via – grazie anche agli studi di Charles Singleton [DIV1b] – la critica dantesca ha potuto ridiscutere i propri presupposti, per pervenire gradualmente a un’interpretazione più organica e unitaria della Commedia.

L’interpretazione di Sapegno
Nel percorso che porta a una valutazione dell’opera dantesca che congiunga pensiero e poesia, una tappa fondamentale è costituita dalla pubblicazione, nel 1955, del famoso commento di Natalino Sapegno. Annotando l’episodio di Francesca, Sapegno precisa che il termine «pietà» va inteso nel senso «della commozione che accompagna uno stato di perplessità morale e intellettuale»; la partecipazione emotiva di Dante al racconto di Francesca non ci impone più, allora, di mettere il poeta contro il cristiano; il momento sentimentale e quello etico-religioso trovano invece nella poesia della Commedia una sintesi sofferta e, per questo, ancor più ricca di significato. L’episodio di Francesca è per Sapegno «il primo grande esempio della poesia “maggiore» di Dante: di quella poesia cioè che nasce sempre da una situazione complessa, “problematica”, e si riporta dovunque, sebbene mai in maniera immediata e semplicistica, all’unità della concezione fondamentale del poema».
Sapegno si allontana dunque dagli interpreti romantici «che insistono esclusivamente sull’umana compassione del poeta per i due amanti infelici»; essi non hanno infatti compreso «la reale natura della reazione psicologica del personaggio Dante, il quale dal caso di Francesca e di Paolo è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch’egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni. Ne deriva una situazione non univoca appunto, ma complessa, non statica, ma drammatica. Proiettato nell’animo del pellegrino l’incontro con i due dannati prende l’aspetto di un’esperienza, che vuol dire anzitutto un acquisto: la liberazione da un errore, la conferma e il chiarimento di una verità morale già confusamente posseduta». Per Sapegno dunque «il senso totale dell’episodio non può esaurirsi nella illustrazione dello stato d’animo di questo o quello degli attori che vi partecipano, non nella passione di Francesca e neppure soltanto nella perplessità del personaggio Dante, ma s’illumina appunto, drammaticamente, in quell’incontro di un’anima vinta dal peccato con un’anima che anela a vincere le condizioni del peccato, e nel giudizio etico, sottinteso ed implicito, ma sempre presente, del Dante poeta che crea i suoi personaggi e sta al di sopra di essi».
La lezione di Sapegno – il cui commento costituisce ancor oggi un punto di riferimento imprescindibile nello studio del poema dantesco8 – mira a sottolineare la complessità e la problematicità della poesia di Dante, caratterizzata, nei suoi momenti più alti, da questa «capacità di conservare intatta, pur nella fedeltà sostanziale all’assunto etico e strutturale, l’umanità complessa e appassionata delle sue creature; per cui nell’intelaiatura tutta medievale e cattolica del poema viene a confluire una così ricca e varia materia di passioni umane, di vizi e valori terreni, dominati e contenuti, ma non mai repressi o soppressi». È su quest’impostazione di fondo, che presuppone l’unità e il reciproco arricchimento di pensiero e poesia, che continueremo a muoverci quando, nei prossimi approfondimenti, proporremo la lettura di altri famosi passi del poema dantesco [DIV5].


1 Amore… pone: L’amore e il cuore gentile sono la stessa (una) cosa, come afferma (pone) il saggio (cioè appunto Guido Guinizzelli) nella sua poesia (dittare); cfr. Vita nuova, cap. XX.

2 De amore, II, viii, 48.

3 «Ideo ergo amor in arbitrio posuit amantis, ut, quum amatur, et ipsa, si velit, amet, si vero nolit, non cogatur amare» [«E dunque l’amore affidò all’arbitrio di colei che ama il fatto che, quand’essa è amata, ami se vuole; ma, se non vuole, non sia costretta ad amare»] (De amore, I, vi, 105).

4 Il termine «pietà» compare per la prima volta nel canto al verso 72, dove designa il sentimento provato da Dante alla vista di «donne antiche» e «cavalieri».

5 Questa citazione e le precedenti, inerenti alla concezione generale del poema, sono tratte da Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cap. VII (“La Commedia”), Milano, Rizzoli, 1983, pp. 234-242.

6 Come si può notare, De Sanctis non scorge alcuna malizia retorica nelle parole di Francesca; al contrario, il critico si dice convinto della sua perfetta sincerità: «Francesca niente dissimula, niente ricopre. Confessa con una perfetta candidezza il suo amore; né se ne duole, né se ne pente, né cerca circostanze attenuanti e non si pone ad argomentare contro di Dio».

7 Per questa citazione e le precedenti sul personaggio di Francesca, cfr. Francesco De Sanctis, “Francesca da Rimini”, in Nuova Antologia, gennaio 1869; poi in Nuovi saggi critici, Napoli 1873 (rist. in Saggi critici, Bari, Laterza, 1953).

8 Imprescindibile, ma naturalmente non indiscusso: ne è la prova, proprio in relazione al significato di «pietà» in quest’episodio, il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi (1991), che propone di nuovo di leggere il termine come “compassione”, precisando però che questo non comporta un ritorno all’interpretazione romantica, in quanto la compassione «non ha niente a che fare con la simpatia, o la scusa, o quasi il considerare troppo severo il giudizio divino, che pur bisogna accettare». Invece «è la pietà per l’uomo che perde se stesso e avvilisce la sua grandezza, quella che tocca fino in fondo il cuore consapevole di Dante, che vede con i suoi occhi tale rovina, a cui anch’egli è stato ed è esposto. E il nodo poetico della storia è proprio nella nobile qualità umana che è pur rimasta a Francesca; che motivo ci sarebbe infatti di piangere e svenire di pietà se si trattasse di un essere volgare e spregevole? Francesca – come poi Farinata ed Ulisse, per dir solo dei massimi – è la prima raffigurazione concreta che ci appare nell’Inferno della persona umana nella sua alta dignità, ornata di tutte le sue doti naturali, ma come accecata ed esclusa dal suo altissimo fine, per non aver accettato, con la ragione e l’arbitrio, la via indicata all’uomo da Dio».



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