|
||||||||||||||||
[Inferno, canto VII, vv. 67-96] Nel quarto cerchio dell’Inferno sono puniti due opposti peccati, accomunati da un uso della ricchezza che eccede la giusta misura: da un lato l’eccessivo attaccamento al denaro (avarizia), dall’altro il dissennato sperpero di esso (prodigalità). La punizione delle anime la cui dannazione si deve al distorto rapporto con le ricchezze terrene fornisce a Virgilio lo spunto per riflettere sulla caducità dei beni affidati alla fortuna. Dante chiede al maestro un chiarimento sulla natura di quest’entità. Virgilio chiarisce che non si tratta di una forza cieca identificabile con il semplice caso, ma di un’intelligenza angelica, ministra della provvidenza divina. «Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche: E quelli a me: «Oh creature sciocche, Colui lo cui saver tutto trascende, distribuendo igualmente la luce3. che permutasse a tempo li ben vani per ch’una gente impera e l’altra langue, Vostro saver non ha contasto a lei: Le sue permutazion non hanno triegue; Quest’è colei ch’è tanto posta in croce ma ella s’è beata e ciò non ode: 1 Maestro mio… branche: «Maestro mio», dissi io (a parlare è Dante), «ora dimmi anche <questo>: che cos’è (che è) questa fortuna alla quale (di che) tu mi accenni, che tiene in questo modo (sì) tra gli artigli (branche) i beni del mondo?». Dante-personaggio immagina la fortuna come una fiera che tiene tra le grinfie le ricchezze mondane. 2 Ed elli… ’mbocche: Ed egli (Virgilio) <rispose> a me: «O infantili (sciocche) creature <umane>, quanto grande (quanta) ignoranza è quella che vi oscura (offende); ora voglio che tu riceva, come cibo dato a un bambino (’mbocche, metafora), la mia spiegazione (sentenza)». La risposta di Virgilio intende confutare la rappresentazione della fortuna sottesa alla domanda di Dante-personaggio. 3 Colui… la luce: «Colui la cui sapienza va al di là di (trascende) tutto (perifrasi per designare Dio) creò i cieli, e assegnò ad essi chi li fa girare (chi conduce, perifrasi per indicare gli angeli) in modo che (sì ch’) ogni schiera di angeli (ogne parte) porti la luce (splende) ad ogni sfera celeste (ad ogne parte), distribuendo armoniosamente la luce <di Dio>». L’argomentazione di Virgilio discende da un principio generale, ossia dall’ordinamento che Dio ha dato al cosmo. In tale ordinamento, gli angeli hanno il compito di far girare le sfere celesti, trasmettendo a ciascuna di esse la luce divina. 4 Similemente… umani: «Secondo lo stesso principio (Similemente) <Dio>, per le ricchezze (a li splendor, metafora basata ancora sul motivo della luce) del mondo, assegnò (stabilì) una generale amministratrice (ministra) e guida (duce), che trasferisse (permutasse) al momento opportuno (a tempo; ma potrebbe significare anche di tempo in tempo) i beni ingannevoli (vani, perché le ricchezze del mondo sono immagini illusorie del bene, mentre l’unico vero bene è Dio) da un popolo (gente) all’altro e da una stirpe (sangue) all’altra, oltre (contro) la capacità di opposizione (defension) delle intelligenze (senni) umane. L’esistenza della fortuna risponde per Virgilio allo stesso principio ordinatore per il quale i cieli sono mossi dalle schiere angeliche. 5 per che… l’angue: per cui (per che) un popolo (una gente) trionfa (impera) e un altro si indebolisce (langue), obbedendo alla decisione (giudicio) di costei, <decisione> che è nascosta (occulta) come il seprente (angue, latinismo) nella terra. Nell’ultimo verso della terzina è riecheggiato il virgiliano «latet anguis in herba» (Bucoliche, III, 93). 6 Vostro saver… altri dèi: La vostra accortezza (saver) non può opporsi (non ha contasto, forma comune nell’antico toscano) a lei: essa predispone (provede), decide (giudica) e attende al suo alto compito (persegue suo regno, metafora) come <fanno> le altre creature divine (gli altri dèi, ossia gli angeli) con i loro <compiti>. La fortuna è un’intelligenza angelica che, a differenza delle altre, esercita la sua giurisdizione non sui cieli ma sulla Terra. Nel Convivio (II, 4) Dante spiega che a fare girare i cieli sono le intelligenze celesti «le quali la volgare gente chiamano Angeli», ma che i «gentili» chiamano «Dei e Dee»; l’uso del sostantivo «dèi», di chiara derivazione pagana, può dunque giustificarsi in base al rapporto figurale che la cultura medievale istituiva con quella precristiana [DIV2a] 7 Le sue permutazion… consegue: I cambiamenti (permutazion) determinati da essa non conoscono soste (triegue); la necessità <di obbedire a Dio> la costringe ad essere veloce; perciò (sì) si vede (vien) spesso chi subisce (consegue) un cambiamento (vicenda). 8 Quest’è colei… e mala voce: Questa è colei che viene tanto vituperata (posta in croce, metafora) perfino (pur) da coloro che dovrebbero lodarla, e che invece le danno (dandole, relativa implicita con il gerundio, possibile nell’italiano medievale anche con soggetto diverso da quello della reggente) ingiustamente (a torto) biasimo e cattiva fama (mala voce). 9 ma ella… si gode: ma essa è in sé stessa beata (s’è beata, con dativo etico che sottolinea la concentrazione della fortuna sul proprio compito e la sua indifferenza alle accuse esterne) e non ascolta queste cose (ciò non ode); insieme agli altri angeli (prime creature, perché create da Dio per prime), lietamente (lieta, aggettivo con funzione avverbiale) fa girare (volve) la sua sfera e beatamente (beata, altro aggettivo con funzione avverbiale) gode di se stessa (si gode: altro dativo etico, con funzione analoga a quella del primo). L’immagine della «spera» accosta la fortuna alle altre intelligenze angeliche, ma al tempo stesso ricorda la tradizionale immagine della ruota della fortuna (cfr. Inferno, XV, 95). IL TESTO Premessa: la parola “fortuna” per i latini e i medievali La parola “fortuna” ha oggi per noi una connotazione essenzialmente positiva: indica la sorte favorevole, l’occasione felice, il caso che asseconda i desideri dell’uomo. Questo termine ha il suo contrario in “sfortuna”, che indica sorte avversa, disgrazia o sciagura. Nell’italiano di Dante, però, il termine veniva inteso con accezione diversa dall’attuale, e fortemente influenzata dalla sua origine latina. In latino “fortuna” era vox media, ossia un vocabolo in sé privo di forti connotazioni positive. Il termine si ricollegava etimologicamente a “fors” (voce latina usata come sostantivo e come avverbio, da cui deriva il nostro “forse”); l’idea di “fortuna” per i latini richiamava insomma l’incertezza della sorte, i capricci del caso e la sua imprevedibilità1. È solo il contesto in cui il vocabolo compare a stabilire, per i latini, se esso vada inteso nel senso di “buona sorte” (come nell’espressione “secunda fortuna”) o di “cattiva sorte” (“adversa fortuna”). Non esiste quindi una parola latina che equivalga all’italiano “sfortuna” (un termine che entrerà nella nostra lingua solo a partire dal XV secolo2). Per la comprensione del testo, sarà dunque necessario parafrasare il termine “fortuna” servendoci di vocaboli come “sorte” o “caso”, che conservano, anche nell’italiano di oggi, la stessa valenza semanticamente neutra che “fortuna” rivestiva al tempo di Dante. La fortuna-dea bendata Che la fortuna fosse un’entità imprevedibile, e anche capace di arrecare danni e sofferenze agli uomini, è idea attestata, nell’antichità e nel Medioevo, da una lunga serie di testimonianze. Gli antichi la rappresentavano come una divinità bendata che si muoveva su una sfera (la quale dava al suo procedere una direzione imprevedibile). Alcuni scrittori medievali, che fecero da mediatori tra la cultura classica e quella cristiana, riprendono anch’essi l’immagine di una fortuna capricciosa e indifferente alle sofferenze dell’uomo. È il caso di Severino Boezio3, che nel De consolatione philosophiae (II, 1) sottolinea l’indifferenza della fortuna alle pene degli uomini: «Non illa miseros audit, haud curat fletus; / ultroque gemitus dura quos fecit ridet: / sic illa ludit, sic suas probat vires [«Non ascolta gli infelici, non si cura dei loro pianti; / deride inoltre i lamenti che essa, crudele, ha provocato: / così essa scherza, così mette alla prova le sue forze»]. La fortuna-provvidenza Questa tradizione letteraria non era priva, però, di interne contraddizioni. Ferma restando la possibilità che la fortuna operasse tanto il bene quanto il male degli uomini, non tutti erano certi che quest’operato dovesse riferirsi a un’entità indifferente, crudele ed irrazionale. La letteratura medievale conteneva anzi alcuni spunti che potevano condurre a scorgere, dietro i rivolgimenti della fortuna, i segni di un volere imperscrutabile per l’uomo; un volere che, sia pur capace di arrecargli sofferenza, risultava in ultima istanza ispirato da una volontà divina alla quale si doveva sottomettersi con fiducia. Boezio, nello stesso passo in cui aveva delineato l’immagine classica della fortuna indifferente alle sofferenze umane, esortava per esempio a non lagnarsi di essa e ad accettarne con serenità le mutazioni: «quae nunc tibi est tanti causa maeroris, haec eadem tranquillitatis esse debuisset» [«colei che ora è per te causa di tristezza, essa stessa dovrebbe essere causa di tranquillità»]. Ancor più interessante ci appare la definizione che della fortuna dà nel XII secolo Arrigo da Settimello4, che la designa come «generalis yconoma rerum» [«generale amministratrice delle cose»] (Elegia, II, 181). Siamo ormai vicini alla rappresentazione dantesca della fortuna come intelligenza angelica che presiede, per conto di Dio, alle vicende dei beni materiali. La dimostrazione di Virgilio Il dialogo tra Virgilio e Dante si incentra appunto sul confronto tra queste due diverse immagini della fortuna. Dante-personaggio assume come proprio punto di partenza la rappresentazione classica; dà corpo alla fortuna in forma inquietante, assimilandola a una fiera che tenga tra i suoi artigli («branche») le ricchezze del mondo. L’energica confutazione di Virgilio, che apostrofa come «creature sciocche» tutti coloro i quali – e Dante-personaggio è tra essi – ignorano la vera natura della fortuna, capovolge questa raffigurazione tradizionale per proporne una nuova, pienamente conciliata con il provvidenzialismo cristiano. La fortuna di cui parla qui Virgilio si configura dunque come «general ministra» di Dio (evidente la suggestione della «generalis yconoma» di Arrigo), e viene accostata, con una similitudine, a tutte le intelligenze angeliche che, nella cosmologia generale, sono demandate alla rotazione dei cieli. A questo punto la «sfera» della cui rotazione si occupa la fortuna – per quanto metaforica possa essere – perde la sua connotazione di casualità tipica della raffigurazione classica, e si integra perfettamente nell’ordine provvidenziale della rotazione dei cieli. Incertezze e oscillazioni In definitiva Dante-poeta ha creato una nuova rappresentazione della fortuna, mettendola al servizio della provvidenza divina e attribuendole un ruolo ben preciso nell’ordine del mondo. La fortuna-provvidenza perde dunque i caratteri di irrazionalità che erano tipici della dea bendata; ma i suoi disegni, per quanto ispirati da una logica superiore, restano comunque imperscrutabili per l’uomo, come imperscrutabili sono i disegni di Dio. Saremmo fuori strada, però, se ci aspettassimo da Dante, di fronte a questa fortuna-provvidenza, un atteggiamento di serena acquiescenza. Al contrario: il poeta arriverà a volte a denunciare, con accenti assai dolorosi, la propria incapacità di intravedere i disegni divini nascosti dietro la sofferenza e l’ingiustizia del suo tempo. Ricordiamo, al proposito, l’angoscioso interrogativo rivolto a Dio nel canto VI del Purgatorio (vv. 118-123), ispirato dalla riflessione sulle sanguinose divisioni politiche dell’Italia. E se licito m’è, o sommo Giove O è preparazion che ne l’abisso Non è nuova a li orecchi miei tal arra: |
||||||||||||||||