[Canzoniere, 128] Italia mia, benché ’l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sí spesse veggio, piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali spera ’l Tevero et l’Arno, e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio. Rettor del cielo, io cheggio che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo dilecto almo paese. Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra; e i cor’, che ’ndura et serra Marte superbo et fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda; ivi fa che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda. Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade, di che nulla pietà par che vi stringa, che fan qui tante pellegrine spade? perché ’l verde terreno del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga: poco vedete, et parvi veder molto, ché ’n cor venale amor cercate o fede. Qual piú gente possede, colui è piú da’ suoi nemici avolto. O diluvio raccolto di che deserti strani per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi? Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia; ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia. Or dentro ad una gabbia fiere selvagge et mansüete gregge s’annidan sí che sempre il miglior geme: et è questo del seme, per piú dolor, del popol senza legge, al qual, come si legge, Mario aperse sí ’l fianco, che memoria de l’opra ancho non langue, quando assetato et stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue. Cesare taccio che per ogni piaggia fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro mise. Or par, non so per che stelle maligne, che ’l cielo in odio n’aggia: vostra mercé, cui tanto si commise. Vostre voglie divise guastan del mondo la piú bella parte. Qual colpa, qual giudicio o qual destino fastidire il vicino povero, et le fortune afflicte et sparte perseguire, e ’n disparte cercar gente et gradire, che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo? Io parlo per ver dire, non per odio d’altrui, né per disprezzo. Né v’accorgete anchor per tante prove del bavarico inganno ch’alzando il dito colla morte scherza? Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove piú largamente, ch’altr’ira vi sferza. Da la matina a terza di voi pensate, et vederete come tien caro altrui che tien sé cosí vile. Latin sangue gentile, sgombra da te queste dannose some; non far idolo un nome vano senza soggetto: ché ’l furor de lassú, gente ritrosa, vincerne d’intellecto, peccato è nostro, et non natural cosa. Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui sí dolcemente? Non è questa la patria in ch’io mi fido, madre benigna et pia, che copre l’un et l’altro mio parente? Perdio, questo la mente talor vi mova, et con pietà guardate le lagrime del popol doloroso, che sol da voi riposo dopo Dio spera; et pur che voi mostriate segno alcun di pietate, vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: ché l’antiquo valore ne gli italici cor’ non è anchor morto. Signor’, mirate come ’l tempo vola, et sí come la vita fugge, et la morte n’è sovra le spalle. Voi siete or qui; pensate a la partita: ché l’alma ignuda et sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle. Al passar questa valle piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno, vènti contrari a la vita serena; et quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, in qualche honesto studio si converta: cosí qua giú si gode, et la strada del ciel si trova aperta. Canzone, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica, perché fra gente altera ir ti convene, et le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica. Proverai tua ventura fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace. Di’ lor: – Chi m’assicura? I’ vo gridando: Pace, pace, pace. –
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