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[Paradiso, canto I, vv. 37-42] Anche all’inizio del Paradiso, come aveva già fatto nel primo canto dell’Inferno (I, vv. 37-43) Dante poeta sottolinea il fatto che il suo viaggio avvenga in primavera, stagione in cui il cielo è particolarmente propizio agli uomini. Esaminiamo con particolare attenzione le due terzine del Paradiso che precisano questa determinazione di tempo. Il loro significato letterale può essere spiegato facendo ricorso alle cognizioni astronomiche diffuse al tempo di Dante. Ma risulta evidente che a tale significato se ne debba aggiungere un secondo. Si può parlare anche in questo caso di una allegoria. Ma occorrerà precisare che si tratta di un’allegoria molto diversa da quella della lupa. Surge ai mortali per diverse foci con miglior corso e con migliore stella [1] Surge… del mondo: Il Sole (la lucerna del mondo, metafora) sorge per gli uomini (ai mortali) attraverso diversi punti dell’orizzonte (per diverse foci) <a seconda delle diverse stagioni>. [2] ma da quella… congiunta: ma <quando sorge> da quel punto dell’orizzonte (da quella, riferito a “foce”) in cui si congiungono quattro cerchi formando tre croci <per ciascuno di essi>, <il Sole> esce con un’orbita migliore (miglior corso) e congiunto con una costellazione (stella) migliore. Come si spiegherà nell’approfondimento, i quattro cerchi del cielo – la cui intersezione forma tre croci – sono l’eclittica, l’equatore celeste, il coluro equinoziale e l’orizzonte. La costellazione con cui il Sole è congiunto nel momento in ci si svolge l’azione è quella dell’Ariete, ritenuta dai medievali particolarmente propizia agli uomini, anche perché si riteneva che sotto questo segno Dio avesse creato il mondo. [3] e la mondana… suggella: e <il Sole, allora,> modella (tempera) e impronta (suggella) la materia (cera) del mondo (mondana) in modo da determinare il suo più benefico influsso (più a suo modo). La credenza negli influssi astrali sui destini del mondo era comunemente accettata nel Medioevo. IL TESTO Premessa: il cielo visto dalla Terra Le moderne nozioni di astronomia – anche le più elementari – ci avvertono che i movimenti che vediamo nel cielo sono soltanto apparenti. Noi abbiamo l’impressione che il Sole sorga e tramonti muovendosi da est a ovest, mentre sappiamo bene, ormai da alcuni secoli, che quest’impressione è determinata dal fatto che la Terra gira quotidianamente su se stessa (moto di rotazione terrestre). Allo stesso modo, vediamo sorgere e tramontare la Luna, ma sappiamo anche che – benché questa giri effettivamente intorno alla Terra – il movimento che si può osservare di notte è anch’esso determinato dalla rotazione terrestre. Vi sono altri corpi celesti che compiono un movimento che l’occhio umano può cogliere con un’assidua osservazione (anche se a tutta prima potrebbe sembrare difficile distinguerli dalle stelle). Si tratta dei pianeti, tra i quali i più riconoscibili sono Marte, che si caratterizza per la sua luminosità e il colore rosso, e Venere, che ci appare spesso vicino al Sole (in alcuni periodi all’alba, altre volte al crepuscolo). Anche Mercurio, Giove e Saturno si comportano in maniera simile, percorrendo il cielo con orbite lente ma distinguibili da un osservatore abbastanza assiduo: essi sembrano dunque avvicinarsi ad alcuni astri e allontanarsi da altri (è per questo che già gli antichi, pur ignari dell’esistenza di un sistema solare, li definirono pianeti, da una parola greca che significa errante, vagabondo). Le vere e proprie stelle, invece, sembrano costituire un insieme unico: mentre i pianeti cambiano nel tempo la loro posizione reciproca, queste stelle (che sono dette “fisse”) mantengono sempre, l’una rispetto all’altra, la medesima distanza[1]. L’apparente immobilità reciproca delle stelle ha portato gli uomini a raggrupparle, in base alla loro apparente vicinanza, nelle costellazioni. In realtà tali costellazioni, tra cui rientrano le dodici dello zodiaco, sono formate da stelle spesso lontanissime tra loro e prive di alcun rapporto l’una con l’altra. Anche le stelle fisse, osservate dalla Terra, “sorgono” e “tramontano”; se le chiamiamo “fisse” è semplicemente perché ci sembrano costituire un unico blocco. L’insieme di queste stelle sembra ruotare ogni notte, con un moto collettivo, da levante verso ponente. Tale rotazione avviene attorno a un asse, che congiunge i cosiddetti Poli celesti. Dal nostro emisfero è visibile solo il Polo nord; esso è l’unico punto del cielo che ci appare immobile. Possiamo individuarlo osservando la Stella Polare, talmente vicina al Polo nord celeste da apparirci in pratica indistinguibile da esso. Lo sfondo su cui tutti questi movimenti ci appaiono è la volta celeste. Per il nostro occhio, è come se il cielo fosse un enorme involucro sferico, vuoto al suo interno, al centro del quale è sospeso il nostro pianeta. Dalla Terra noi crediamo di vedere la faccia interna di quest’involucro. Naturalmente oggi sappiamo bene che quest’involucro non esiste. Se il cielo ci si presenta come un’unica superficie e tutte le stelle ci sembrano collocate sullo stesso piano, è solo perché, oltre un certo limite, l’occhio umano non è in grado di percepire la profondità dello spazio. In definitiva, il modo in cui il cielo appare agli uomini è determinato in buona parte dalle nostre illusioni prospettiche, che ci portano a raggruppare stelle tra loro lontanissime in figure di esseri mitologici, di animali o di oggetti, e a immaginare che tutti gli astri si trovino alla stessa distanza da noi. I medievali, a differenza di noi, non avevano coscienza dell’illusorietà dei moti del cielo e delle costellazioni, o dell’inesistenza di una volta celeste. Credevano davvero che la Terra fosse al centro dell’Universo e immaginavano che i pianeti e le stelle, unite in cielo in modo da formare immagini significative, le ruotassero intorno. In cielo erano distinguibili sette astri, ciascuno con movimento autonomo (il Sole, la Luna e cinque pianeti: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno); a questi si aggiungeva il blocco costituito dalle stelle fisse. Per spiegare la diversa rotazione di questi otto elementi, si ipotizzò che esistessero altrettante sfere concentriche, sette delle quali contenevano un astro ciascuna, mentre l’ottava raggruppava tutto l’insieme delle stelle fisse. A questi otto cieli se ne aggiungeva un altro, che non conteneva astri, detto Primo Mobile o Cristallino. La rotazione dei cieli intorno alla Terra veniva spiegata nel Medioevo sulla base della filosofia di Aristotele, le cui cognizioni astronomiche erano state sviluppate nel II secolo d.C. da Claudio Tolomeo. Aristotele concepiva Dio come il motore immobile dell’universo; l’interpretazione cristiana di questo principio voleva che i cieli fossero mossi dagli angeli per obbedire alla volontà di Dio; ogni coro angelico presiedeva alla rotazione di un diverso cielo. A questa rappresentazione del cosmo che poneva la Terra al centro (il cosiddetto sistema geocentrico, chiamato anche tolemaico) l’umanità credette a lungo, anche perché la Chiesa lo fece proprio e lo difese anche a dispetto delle successive osservazioni scientifiche (da qui il rifiuto del sistema copernicano e il processo a Galileo nel XVII secolo). È vero che alcuni filosofi antichi avevano ipotizzato un modello diverso, avente al centro il Sole e non la Terra[2]. Ma tali teorie, che contraddicevano la percezione immediata delle cose, non ebbero fortuna fino ai tempi moderni. Quattro cerchi in cielo Anche se l’astronomia antica è più complessa di quanto si potrebbe credere (alcuni fenomeni osservabili nel cielo richiedevano infatti spiegazioni sofisticate, al fine di poter essere conciliati con il sistema tolemaico), per il nostro approfondimento basta tener presente che, secondo i medievali, quei moti del cielo che per noi sono solo apparenti erano da considerarsi assolutamente reali. La Terra stava al centro dell’Universo (il che implicava anche una centralità dell’uomo nel Creato); il Sole e tutti gli altri astri le giravano davvero attorno; ed esisteva davvero una volta celeste[3], al di fuori della quale finiva il mondo fisico e cominciava l’infinità immateriale del Paradiso. È in base a questi presupposti che possiamo individuare adesso i «quattro cerchi» di cui parla Dante in queste due terzine. Primo cerchio: l'Equatore celeste Secondo cerchio: l'Eclittica Terzo cerchio: il Coluro equinoziale Quarto cerchio: l'orizzonte Le tre croci IL PROBLEMA Premessa: un universo di segni Una volta acquisite le fondamentali nozioni per comprendere la perifrasi astronomica, il significato letterale del testo di Dante non risulta di difficile interpretazione. Tuttavia, come subito vedremo, la spiegazione astronomica di queste figure non ne esaurisce affatto il significato. Oltre al senso letterale, infatti, il brano di Dante ne possiede un secondo, di natura propriamente religiosa. Il poeta ci dice, con un’immagine concreta, qualcosa che va ben oltre l’indicazione astronomica e cronologica che abbiamo analizzato. Ci troviamo dunque, ancora una volta, nel campo dell’allegoria. Dobbiamo però essere coscienti che la situazione è qui ben diversa da quella presentataci nel primo canto, quanto il poeta parlava della «lupa» intendendo, in realtà, un peccato. Mentre infatti la lupa era un’immagine fittizia creata dal poeta, i cerchi e le croci sono immagini reali, esistenti nel cielo; sono figure che gli astronomi tracciano non a loro arbitrio, ma osservando attentamente il moto di stelle e pianeti. Gli uomini, dunque, non creano queste figure, ma possono soltanto riconoscerle nel cielo. Il loro vero creatore è Dio, che ha disposto gli astri in modo che si disegnassero in cielo, in un dato momento dell’anno, questi cerchi e queste croci. Per la mentalità medievale è evidente che la forma e il numero di queste figure alludano a qualcosa che va oltre la loro realtà concreta. La Natura è infatti, insieme alla Scrittura, un libro con cui Dio parla agli uomini. Proviamo dunque a decodificare i segni con cui il Creatore – cui è dato, rispetto agli uomini, il privilegio di usare come segno non solo le parole, ma anche la natura e gli eventi storici – si rivolge all’umanità. Il numero quattro [1] Le variazioni, in realtà, esistono, ma potrebbero essere percepite solo osservando il cielo per migliaia di anni. [2] L’ipotesi eliocentrica, nel mondo greco, era stata proposta da Aristarco di Samo (310-230 a.C.), definito per questo “il Copernico dell’antichità”. [3] Il meccanismo dei cieli ruotanti intorno alla Terra è spesso descritto da Dante nel Paradiso. Occorre però precisare che la vera e definitiva sede dei beati non sta per Dante nei nove cieli “fisici” che girano intorno al nostro pianeta, ma nell’Empireo, un luogo immateriale e immutabile collocato fuori dallo spazio di tali sfere. La presenza dei beati nei cieli fisici si spiega come un mezzo per rendere visibili ai sensi fenomeni altrimenti impossibili da rappresentare come, ad esempio, i diversi gradi di beatitudine delle anime. [4] A differenza degli altri tre cerchi, la cui posizione può essere segnata sulla volta celeste a prescindere dal punto in cui si trova l’osservatore, l’orizzonte si determina a partire dal luogo in cui si trova l’osservatore. In questo canto, l’orizzonte in questione è quello del Purgatorio, sulla cui vetta si trova Dante. Considerando però che la volta celeste compie ogni giorno un giro completo intorno alla terra, è chiaro che in ogni luogo, anche se in tempi diversi, ci sarà un momento in cui il sole (collocato, come si è detto, vicinissimo al punto gamma), dovrà necessariamente attraversare l’orizzonte. È giusto aggiungere che l’interpretazione di questa perifrasi astronomica non è semplice; ne sono state proposte diverse spiegazioni, anche molto distanti da quella qui riportata. [5] Gli incroci sono in effetti sei: 1) eclittica-equatore; 2) eclittica-coluro equinoziale; 3) eclittica-orizzonte; 4) coluro equinoziale-equatore; 5) coluro equinoziale-orizzonte; 6) orizzonte-equatore. [6] Charles Singleton, La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 47-48. [7] L’espressione allegoria dei teologi non significa naturalmente che i teologi siano autori di questo tipo allegoria: essi si limitano a scoprirla nella realtà in quanto, come abbiamo detto, l’unico vero autore di essa è Dio. È necessario precisare che, in base a quanto Dante sostiene nel Convivio, l’allegoria dei teologi si trova propriamente nella Bibbia, e usa come significante i fatti storici (per esempio l’Esodo degli Ebrei dall’Egitto), mentre il caso che stiamo esaminando è tratto dal libro della Natura (qui si usano infatti come significanti gli astri e le creature). A noi sembra comunque legittimo usare il termine allegoria dei teologi anche in quest’ambito, perché i segni del libro della Natura e quelli del libro della Scrittura sono accomunati da due caratteristiche che li differenziano da quelli dell’allegoria poetica: essi sono segni reali e hanno come autore Dio stesso. La terminologia adottata per discutere questi argomenti può però variare da studioso a studioso. Singleton, ad esempio – uno dei massimi indagatori del tema dell’allegoria dantesca – ritiene opportuno riservare il termine allegoria dei teologi ai casi in cui il significante sia un fatto storico (sull’esempio della Bibbia), e parlare di simbolismo quando invece il significante è costituito dagli elementi della natura. |
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