G23
Dante Alighieri
La pena dell'esilio
Convivio I, 3

[Convivio, I, cap. 3] 1. Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un’altra1. 2. E però che lo mio pane è purgato da una parte2, convienlomi purgare da l’altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé fia forse in parte alcuna un poco duro3. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata4. 3. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate5. 4. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno6 – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato7–, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata8. 5. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade9; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare10.




1 Degna… un’altra: È degna di molti rimproveri (molta riprensione) quell’azione (cosa) che, finalizzata ad eliminare (ordinata a torre) qualche difetto, fa nascere (induce) essa stessa (per se medesima) quello stesso <difetto>; così come <sarebbe degno di rimprovero> colui che fosse inviato a dividere (partire) una rissa e, prima di dividerla, ne iniziasse un’altra. Dante intende confutare l’accusa di avere, con il Convivio, raggiunto un risultato opposto a quello che si proponeva.

2 E però che… un poco duro: E poiché (però che) il mio commento (metaforicamente «pane» [G22]) è stato difeso (purgato, lett. pulito) dalla prima accusa (da una parte): continuando la metafora del primo capitolo, l’autore si paragona agli inservienti che, prima dei banchetti, rimuovevano con il coltello le macchie che si trovavano sul pane. Nel capitolo precedente, il secondo del trattato, Dante si è difeso dall’accusa di avere parlato di se stesso (cosa generalmente considerata non lecita): il poeta è stato costretto a farlo per «timore d’infamia», cioè per evitare che le sue canzoni, scritte dopo la morte di Beatrice e ispirate da una «donna gentile», fossero interpretate alla lettera e considerate una prova di scarsa fedeltà alla donna amata; il commento di queste canzoni contenuto nel Convivio consentirà di respingere quest’accusa, spiegando il significato allegorico che si deve attribuire alla «donna gentile».

3 convienlomi… un poco duro: mi è necessario difenderlo da un’altra accusa (purgarlo da l’altra), per evitare (fuggire) il seguente rimprovero (questa riprensione, con valore prolettico), <cioè> che il mio scritto, che si può in un certo senso definire un commento, è finalizzato (ordinato) a rimuovere il difetto delle canzoni di cui sopra si è parlato (cioè la loro scarsa comprensibilità), ma esso stesso (ed esso per sé) potrebbe essere (fia) in qualche parte un po’ difficile (duro). Il presente capitolo, il terzo del trattato, deve quindi confutare l’accusa di eccessiva difficoltà del commento.

4 La qual durezza… è pensata: La quale difficoltà è stata voluta (è pensata) per evitare un difetto maggiore e non per ignoranza. La scelta di uno stile elevato e difficile, come si evince anche dai capitoli successivi, serve a rivendicare la dignità di Dante ingiustamente umiliata con l’esilio.

5 Ahi… povertate: Ahimé, fosse piaciuto a colui che regola l’universo (al dispensatore de l’universo, cioè Dio) che la causa (cagione) di <questa> mia scusa (cioè l’esilio) non fosse mai esistita (stata)! Poiché <se Dio avesse voluto> nessuno (né altri) avrebbe commesso un errore (fallato) contro di me, né io avrei sofferto ingiustamente una pena; una pena, intendo, di esilio e di povertà.

6 Poi che… dolce seno: Da quando (Poi che, con valore temporale) piacque ai (fu piacere de li) cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Firenze, cacciarmi (di gittarmi) fuori dal suo dolce seno. La fondazione di Firenze era stata opera di coloni romani.

7 nel quale… m’è dato: nel quale (riferito a «seno») nacqui e fui nutrito fino alla maturità (colmo) della mia vita (nel 1301, quando fu esiliato, il poeta aveva 36 anni) e nel quale, con il consenso (con buona pace) di quella <città>, desidero con tutto il cuore riposare l’animo stanco (cioè ritornare in età avanzata) e terminare gli anni della mia vita (lo tempo che m’è dato).

8 per le parti… imputata: sono andato esule (peregrino), quasi mendicando, per quasi tutte le parti in cui si parla la lingua italiana (a le quali questa lingua si stende), lasciando vedere contro la mia volontà la ferita infertami dalla sorte (la piaga de la fortuna), che molte volte si è soliti imputare ingiustamente a chi è stato ferito. Il termine «fortuna», a differenza di quanto accade nell’italiano moderno, poteva indicare nel Medioevo sia la buona che la cattiva sorte. Qui Dante sembra identificare la fortuna con il caso, vero responsabile dei mali degli uomini. Nella Commedia, invece, considererà la Fortuna come una ministra di Dio, affermando che i suoi cambiamenti rispondono a un disegno provvidenziale e perciò gli uomini non devono lamentarsi di essa (Inferno, VII, vv. 67-96).

9 Veramente… povertade: Certamente io sono stato una nave (legno, metonomia) senza vela e senza timone (governo), spinta a diversi porti, foci e spiagge (liti) dal vento secco che la dolorosa povertà fa soffiare (vapora).

10 e sono apparito: e mi sono mostrato <in questa misera condizione> agli occhi di molti che forse, per una certa fama <positiva>, mi avevano immaginato diverso (in altra forma), alla vista dei quali (riferito a «molti») non solo apparve più vile la mia persona, ma apparve di minor valore (di minor pregio si fece) ogni opera, sia che fosse già stata scritta, sia che fosse ancora da scrivere.



Il terzo capitolo del Convivio abbandona il rigoroso procedere dell’argomentazione sillogistica e si presenta come un’appassionata autodifesa: l’autore intende confutare le accuse di oscurità che potrebbero essere mosse alla sua opera [2] e che potrebbero farla apparire inadeguata alle finalità divulgative con cui è stata scritta [G22]. Ma l’intento apologetico si sposta immediatamente dalla difesa dell’opera a quella dell’autore: la difficoltà dello stile viene infatti spiegata con la necessità di restituire a Dante quel prestigio che gli è stato sottratto con l’esilio. Il capitolo si trasforma, a questo punto, in un accorato lamento in cui Dante esule accusa i concittadini che gli hanno inflitto la pena [3], attribuisce le proprie disgrazie alla «fortuna» e respinge le accuse di quanti sono soliti infierire sulle vittime della cattiva sorte, imputando loro colpe che non hanno [4]. Segue una metafora attinta, classicamente, dall’ambito della navigazione, che accentua la coloritura elegiaca del brano [5]. Rappresentandosi come un naufrago, però, Dante non si limita semplicemente a rievocare la propria pena o a esprimere nostalgia per la sua città. Il contrasto tra la miseria della «forma» esteriore sotto la quale la sua persona è stata costretta a presentarsi e il «pregio» delle sue opere rappresenta, invece, un’implicita rivendicazione del valore di queste ultime. Questa rivendicazione sarà meglio chiarita nel quarto capitolo del trattato (non compreso in questa antologia): poiché a causa del suo esilio Dante è apparso in molte parti d’Italia «più vile forse che ’l vero non vuole», gli è stato necessario conferire alla sua opera «un poco di gravezza per la quale paia di maggiore autoritade». È quindi dimostrato che la difficoltà del Convivio non è un difetto dovuto alle inadeguate capacità dell’autore, ma una necessità indotta dalla sua condizione di esule.




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