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[Convivio, I, cap. 1] 1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere1. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione2; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti3. 2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza4. 3. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del5 corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può6, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile7. 4. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia8. La prima è la cura familiare e civile9, la quale convenevolmente10 a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono11. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano12. 5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori13, non sono da vituperare14, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più15, sono degne di biasimo e d’abominazione. 6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito16 da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. 7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca17! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! 8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando18. 9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata19. 10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi20. 11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata21. 12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata22. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato23; né alcuno settatore di vizii, perché lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe24. 13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire25. 14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado26. 15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente27. 16. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene28. 17. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perché certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata29. 18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati30. 19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace31. 1 Sì come… sapere: Come dice Aristotele (lo Filosofo, per antonomasia) all’inizio della Metafisica (Prima Filosofia), tutti gli uomini per natura hanno desiderio di conoscenza. Il Convivio parte da un principio universale, quello che la massima autorità filosofica riconosciuta nel Medioevo, Aristotele, pone alla base della filosofia «prima», quella cioè che tratta i principi dell’essere e dalla quale discendono tutte le altre. Dante traduce da un’edizione latina della Metafisica: «Omnes homines natura scire desiderant». 2 La ragione…perfezione: La ragione di questo fatto (di che, lett. della qual cosa) può essere, ed è, che ciascuna creatura (cosa), spinta (impinta) dalla sua natura assegnatale dalla provvidenza (da providenza di sua natura), tende (è inclinabile) alla propria perfezione. 3 onde… subietti: per cui (onde), poiché (acciò che) la conoscenza (scienza) è l’estrema (ultima) perfezione della nostra anima, in cui consiste (sta) la nostra massima (ultima) felicità, tutti siamo per natura predisposti (subietti) a desiderarla (al suo desiderio). 4 Veramente… scienza: Tuttavia (Veramente: ha il significato del latino verum tamen) molti sono privati di (da) questa nobilissima perfezione (il conseguimento della conoscenza) per diverse cause (cagioni), che, <trovandosi> all’interno dell’uomo o fuori da esso, lo allontanano (lui rimovono) dalla disposizione (abito) alla conoscenza. Dante cerca di spiegare il fatto che molti uomini, nonostante la naturale predisposizione a conoscere di cui si è prima parlato, rimangono nell’ignoranza. 5 l’uno da la parte del: l’uno relativo al. 6 Da la parte del corpo…ricevere può: <Il difetto> relativo al corpo si ha (è) quando gli organi (le parti) sono mal conformati (indebitamente disposti), sicché <il corpo> non può percepire (ricevere) nulla. Il primo impedimento intrinseco («dentro da l’uomo») alla conoscenza consiste dunque nei difetti fisici che isolano l’uomo dalla comunicazione con gli altri. 7 Da la parte dell’anima… tiene a vile: <Il difetto> relativo all’anima si ha (è) quando in essa prevale (vince) la disposizione al male (malizia), sicché <l’anima> si mette a seguire (si fa seguitatrice di) piaceri (delettazioni) viziosi, in mezzo ai quali (ne le quali) è così ingannata (riceve tanto inganno) che, a causa di quei piaceri (per quelle, riferito a «delettazioni») disprezza (tiene a vile) ogni <altra> cosa. Il secondo impedimento intrinseco, stavolta di natura spirituale, consiste nella tendenza a rincorrere falsi piaceri, che ci ingannano e ci distolgono dal vero bene. 8 Di fuori… pigrizia: All’esterno dell’uomo (Di fuori da l’uomo) possono essere, allo stesso modo (similemente), individuate (intese) due cause (cagioni), l’una delle quali determina (è induttrice di) la necessità (necessitade) <di privarsi della conoscenza>, l’altra <determina> la pigrizia. Si passa all’analisi delle cause estrinseche dell’ignoranza umana, che può essere dovuta all’oggettiva impossibilità di conoscere o a una insufficienza della volontà. 9 cura familiare e civile: impegno per la propria famiglia o per la propria città. 10 convenevolmente: doverosamente, cioè senza colpa; non può essere biasimato chi non si dedica alla scienza perché distratto dai suoi doveri privati e pubblici. 11 in ozio di speculazione esser non possono: non possono avere il tempo libero (ozio, dal lat. otium, termine che indicava il tempo libero dai negotia, cioè dagli impegni pubblici; il termine era in origine privo del significato negativo che riveste nell’italiano attuale) per l’attività intellettuale (speculazione). 12 da ogni Studio… lontano: non solamente privo di ogni istituzione scolastica (Studio: il termine studium indicava in particolare l’Università), ma lontano da persone istruite. 13 la prima… di fuori: il difetto degli organi corporei e la «cura familiare e civile». 15 avvegna che l’una più: sebbene una di esse (cioè la malizia) <lo sia> di più. 16 abito: disposizione; si riferisce alla comune inclinazione alla conoscenza. 17 lo pane de li angeli si manuca: si mangia il pane degli angeli. L’espressione deriva dal Salmo LXXVII, 25: «Panem angelorum mandicavit homo» [«L’uomo mangiò il pane degli angeli»]. 18 Ma però che… mangiando: Ma poiché ogni uomo è per natura amico di ogni altro uomo e <poiché> ogni amico prova dolore per l’imperfezione della persona amata, coloro che mangiano (sono cibati) a una mensa così nobile (alta mensa: quella dove si mangia «lo pane de li angeli») hanno misericordia (non senza misericordia sono, litote) verso (inver di) quelli che essi vedono (veggiono) mangiare (sen gire mangiando) erba e ghiande come gli animali (in bestiale pastura). 19 E acciò che…nominata: E poiché (acciò che) la misericordia genera (è madre di) desiderio di fare del bene (beneficio), le persone istruite (coloro che sanno) offrono (porgono) sempre con generosità (liberalmente) <parte> della loro buona ricchezza ai veri poveri (cioè alle persone prive della vera ricchezza, che è appunto il sapere), e sono quasi una fonte di vita (fonte vivo, espressione biblica) con la cui acqua si placa (refrigera) la naturale sete (di sapere) di cui sopra si è parlato (che è di sopra nominata). 20 E io adunque… vogliosi: E dunque io, che non siedo alla beata mensa e tuttavia, allontanatomi (fuggito) dal cibo animalesco (pastura) del volgo, <stando> ai piedi di coloro che siedono <alla mensa>, raccolgo le briciole del banchetto (di quello che da loro cade), e <che> conosco la vita miserabile delle persone che ho lasciato dietro di me, a causa della dolcezza che sento per il cibo che a poco a poco raccolgo, mosso a misericordia (misericordievolmente mosso), senza dimenticare la mia precedente condizione di ignoranza (non me dimenticando), ho messo da parte (riservata) per i poveri (miseri, con riferimento alla povertà spirituale) qualche briciola (alcuna cosa: fa riferimento alle sue canzoni dottrinali e morali, di cui il Convivio doveva costituire il commento), che ho già mostrato ai loro occhi da qualche tempo; e con ciò li ho fatti maggiormente desiderosi (vogliosi). Dante non si descrive dunque come un sapiente – non siede infatti alla mensa – ma semplicemente come un uomo che, allontanatosi dalla precedente condizione di ignoranza, raccoglie le briciole del «pane de li angeli» e che, ricordandosi delle propria passata miseria, cerca di dispensare parte del proprio sapere a quanti ne sono privi. 21 Per che ora… mangiata: Per cui ora, volendo preparare la mensa (apparecchiare) per loro (cioè per i «miseri») intendo fare un generale banchetto(convivio) con quelle cose che ho loro mostrato <in passato> (le canzoni) e con quel pane che è necessario (è mestiere) a una tale (così fatta) vivanda, senza il quale essa non potrebbe essere mangiata. Le canzoni del Convivio costituiscono dunque la pietanza principale («vivanda») del banchetto; il «pane» è invece il commento, senza cui le canzoni non potrebbero essere comprese. 22 E questo… ministrata: E questo <libro> è quel convivio, <costituito> da (di) quel pane che è adatto (degno) e da quella vivanda che io desidero (intendo) che non sia somministrata (ministrata) invano (indarno). 23 E però… né palato: E perciò ad esso non si accosti (assetti) nessuno che abbia difetti fisici (male de’ suoi organi disposto), poiché non ha né denti, né lingua né palato. È la rappresentazione metaforica di quegli impedimenti del corpo che, pur non essendo moralmente degni di biasimo, rendono impossibile la conoscenza [3]. 24 né alcuno… non terrebbe: e <non si sieda> neanche alcun seguace (settatore) dei vizi, perché il suo stomaco è pieno di umori velenosi contrari <alla digestione>, sicché non potrebbe mai assimilare (non terrebbe) la vivanda. Gli «omori venenosi contrarii» rappresentano metaforicamente la malizia, il vizio dell’anima che impedisce la conoscenza [3]. 25 Ma vegna… patire: Venga invece qua chiunque (qualunque) è rimasto in quel desiderio di sapere che è degno degli uomini (ne la umana fame) a causa dell’impegno per la propria famiglia o per la propria città (cura familiare o civile) e si sieda (assetti) alla stessa mensa con le altre persone che hanno sofferto dello stesso impedimento (li altri simili impediti); e ai loro piedi si pongano tutti quelli che sono rimasti inattivi (si sono stati) a causa della pigrizia, poiché non sono degni di sedere più in alto; e sia gli uni che gli altri mangino (prendano) la vivanda con il pane, che la farà loro gustare e digerire (patire). Le due categorie di persone impedite da cause esterne [4] non si trovano sullo stesso piano: mentre infatti la «cura familiare o civile» rappresenta un impedimento che non può essere moralmente biasimato, chi non ha raggiunto la conoscenza per pigrizia è giudicato negativamente sul piano morale, anche se la sua colpa è più lieve della malizia [5]. 26 La vivanda… era in grado: La vivanda di questo banchetto sarà divisa (ordinata) in quattordici portate (maniere), cioè quattordici canzoni che hanno come materia sia l’amore che la virtù (sì d’amor come di vertù materiate), le quali, senza il presente commento (pane), avevano qualche ombra di oscurità, tanto che a molti piaceva (era in grado) più la loro bellezza che la qualità del tema trattato (bontade). 27 Ma questo pane… parvente: Ma questo pane, cioè la presente esposizione (disposizione), sarà la luce che renderà visibile (parvente) ogni sfumatura del loro significato (colore di loro sentenza). 28 E se ne la presente… conviene: E se nella presente opera, la quale è chiamata Convivio e voglio che tenga fede al suo nome (vo’ che sia), si discutesse in modo più maturo (più virilmente) che nella Vita Nuova, non desidero però rinnegare (derogare) quest’ultima in nessuna parte, ma rafforzare e approfondire (maggiormente giovare: il verbo «giovare» è usato transitivamente, come in latino) tramite quest’opera (per questa: il Convivio) quella <precedente>; vedendo che, ragionevolmente, è necessario (conviene) che quella sia fervida e piena di passione, questa saggia (temperata) e matura. Il Convivio si pone dunque in continuità con la Vita nuova, con un maggiore approfondimento dovuto alla maturità dell’autore. 29 Ché altro… trapassata: Poiché ad un’età è conveniente parlare ed agire in modo diverso (altro si conviene e dire e operare) che a un’altra <età>; perché a un’età (quella giovanile) sono adatti e degni di lode certi comportamenti (costumi) che sono disonorevoli (sconci) e degni di biasimo a un’altra età (quella della maturità), cosa di cui più avanti (come di sotto, lett. come più avanti), nel quarto trattato di questo libro, sarà mostrato in modo appropriato (propria ragione, costrutto che ricalca l’ablativo assoluto latino). E io nell’opera precedente (in quella dinanzi, la Vita nuova) parlai mentre entravo nella mia gioventù, e in questa successiva (in questa dipoi, il Convivio) <parlo> essendo ormai (già) passata la gioventù (quella). 30 E con ciò sia cosa che…convitati: E poiché (con ciò sia cosa che) la mia vera intenzione era diversa da quella che in apparenza (di fuori) mostrano le canzoni di cui si è detto, intendo spiegare (mostrare) quelle canzoni con una interpretazione allegorica, esposta (ragionata) dopo la spiegazione letterale (litterale istoria); in modo che l’una e l’altra interpretazione (ragione) darà gusto (sapore) a quanti sono invitati a questa cena. 31 Li quali… seguace: I quali <invitati> prego tutti che, se il banchetto non risultasse così ricco come si addice al suo invito (se l’opera risultasse, cioè, inferiore a quello che sto promettendo) imputino ogni difetto non alla mia volontà, ma alle mie <limitate> capacità; perché (però che) la mia volontà persegue qui (è qui seguace di) una compiuta e affettuosa generosità (compita e cara liberalitate). Un’opera divulgativa Il capitolo introduttivo del Convivio chiarisce l’intento divulgativo che sta alla base dell’opera. Essa si propone come un’enciclopedia del sapere (era tipica del Medioevo la convinzione che fosse possibile, per un uomo colto, abbracciare l’intero campo della conoscenza). L’autore però non si definisce come un vero e proprio sapiente, bensì come un semplice amante della scienza che può solo sedere ai piedi di coloro che mangiano il «pane de li angeli» [10]. Il ricordo della sua precedente condizione di ignoranza, dalla quale è riuscito almeno in parte ad allontanarsi, lo induce a offrire il suo sapere a quanti ne sono privi. Già in passato Dante aveva esposto le sue conoscenze filosofiche e morali attraverso alcune canzoni; il Convivio viene progettato come un insieme di trattati che commentino ciascuna di queste canzoni: ma in realtà l’opera sarà interrotta alla fine del quarto trattato. A conclusione del capitolo, Dante sottolinea come il Convivio si ponga in continuità con la Vita nuova, pur essendo da esso diverso per la maggiore maturità raggiunta dall’autore. La forma del ragionamento Il discorso di Dante parte dalla citazione della massima auctoritas riconosciuta nel Medioevo, ossia Aristotele. Ma l’affermazione del Filosofo circa la naturale disposizione al sapere di tutti gli uomini non viene accolta per puro ossequio all’ipse dixit: essa viene invece dimostrata attraverso un ragionamento sillogistico [1], che può essere così sintetizzato: a) ogni creatura tende naturalmente alla propria perfezione (premessa maggiore); b) la perfezione dell’uomo è la conoscenza (premessa minore); c) dunque tutti gli uomini tendono alla conoscenza (conclusione). Al sillogismo, forma tipica del ragionamento deduttivo aristotelico, Dante ricorre anche più avanti, quando spiega in termini morali la propria intenzione di divulgare quelle conoscenze che egli è andato acquisendo [8-9]. Il ragionamento è così strutturato: a) ogni uomo è per natura amico degli altri uomini (premessa maggiore); b) l’amico si duole dei difetti della persona amata (premessa minore); c) dunque i sapienti si dolgono dei difetti di chi non può raggiungere la conoscenza, e desiderano porgere ai poveri parte della loro ricchezza (conclusione). Le cause dell’ignoranza L’affermazione con cui si apre l’opera, e il sillogismo che la dimostra, appaiono però in contrasto con l’esperienza: a dispetto della naturale predisposizione al sapere, infatti, la maggior parte degli uomini vive nell’ignoranza [2]. Per spiegare questo fenomeno, Dante passa in rassegna le possibili cause che impediscono di raggiungere il sapere. Il ragionamento è condotto con un procedimento binario: le cause impedienti sono divise in due gruppi e, all’interno di ciascuno di essi, viene operata un’ulteriore bipartizione: a) vengono dapprima individuate le cause intrinseche che allontanano l’uomo dalla conoscenza; esse possono essere materiali (difetti fisici come la sordità o il mutismo, che impediscono agli uomini di comunicare con gli altri) o morali («malizia») [3]; b) seguono le cause esterne all’uomo, che possono determinare l’impossibilità materiale di raggiungere la conoscenza o che generano un vizio di ordine morale (la pigrizia, indotta dalla difficoltà di raggiungere i luoghi di studio). Mentre le cause di ordine materiale non sono degne di rimprovero, chi rimane nell’ignoranza per ragioni morali va giudicato negativamente. La pigrizia, tuttavia, è un vizio meno grave dell’inclinazione al male [5]. I destinatari dell’opera Anche se Dante attribuisce grande importanza al giudizio morale sulle cause che allontanano la maggior parte degli uomini dalla conoscenza, non è su di esso che si basa l’individuazione dei destinatari dell’opera. Il Convivio non si rivolge infatti né alle persone impedite da difetti fisici (che pure sono del tutto incolpevoli), né ai maliziosi che coltivano i vizi (e che vanno, questi sì, moralmente condannati). Il pubblico dell’opera sarà invece costituito da quanti sono privati della conoscenza per impossibilità materiale (perché assorbiti dalla «cura familiare o civile») e a quanti ne sono privati per pigrizia. Le due categorie di persone non stanno però sullo stesso piano: i pigri, moralmente inferiori, dovranno infatti sedere ai piedi degli uomini occupati negli affari della famiglia e dello Stato. Sono questi, dunque, il pubblico privilegiato del Convivio. Tale pubblico coincide in sostanza con le classi dirigenti cittadine (mentre i pigri, che occupano tra i destinatari una posizione subordinata, possono in definitiva identificarsi con quanti vivono in campagna). Dante non si rivolge dunque a intellettuali di professione (contro i quali polemizzerà anzi aspramente nelle pagine successive [G24,G26]), ma a uomini impegnati nella vita politica comunale. È chiaro, allora, che la loro crescita intellettuale comporterà necessariamente un progresso politico per tutti i cittadini. La scienza, nella visione medievale di Dante, non costituisce insomma un sapere puramente tecnico, separato dal mondo, ma un momento della formazione del cristiano e del cittadino. L’impianto metaforico Alla base dell’opera, fin dal suo stesso titolo, sta la metafora del cibo. Il Convivio si presenta come un banchetto, nel quale saranno somministrate quelle briciole che l’autore ha raccolto dalla mensa dei sapienti. Questi sono definiti come coloro che mangiano il «pane de li angeli»: è evidente, dunque, come la forma più alta della conoscenza sia identificata con la teologia. Il desiderio inappagato di sapere è designato come fame [6, 13] o come sete [9]. La metafora alimentare è usata anche per rappresentare gli uomini privi della conoscenza, che mangiano «erba e ghiande» al pari degli animali [7-8]; e per indicare quanti sono esclusi dalla possibilità di conoscere, o perché sono privi di organi della masticazione (fuor di metafora, le persone con difetti fisici che rendono impossibile comunicare) o perché il loro stomaco è pieno di «omori venenosi contrarii» che impediscono la digestione (i maliziosi) [12]. La stessa architettura dell’opera, infine, è presentata attraverso metafore tratte dal medesimo ambito: le canzoni sono la «vivanda»; il commento è il pane [11]; ciascun trattato equivale a una portata [14-15]. La continuità con la Vita nuova Il capitolo si conclude sottolineando la continuità tra il Convivio e l’opera giovanile di Dante, la Vita nuova, continuità che non obbedisce soltanto a ragioni formali (si tratta, in entrambi i casi, di prosimetri, ossia di opere che alternano parti in prosa e in versi). Ad accomunare i due testi c’è, più in profondità, la motivazione di fondo della loro stesura: cioè il bisogno da parte di Dante di riepilogare e spiegare la propria precedente produzione poetica (le rime amorose in gioventù, le canzoni nella maturità) inserendola in un disegno che le conferisca, a posteriori, un significato universale. È vero che, a differenza della Vita nuova, il Convivio è un’opera destinata a rimanere incompiuta. Ma è anche vero che Dante abbandonerà questa trattazione enciclopedica per mettere mano a un’opera che, nel segno di Beatrice, costituirà la suprema sintesi del suo sapere filosofico e poetico; la Divina Commedia, «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra»1. 1 Paradiso, XXV, 1-2. |
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