G21
Dante Alighieri
Se vedi li occhi miei di pianger vaghi
Rime

Se vedi li occhi miei di pianger vaghi
per novella pietà che ’l cor mi strugge,
per lei ti priego che da te non fugge,
Signor, che tu di tal piacere i svaghi1:

con la tua dritta man, cioè, che paghi
chi la giustizia uccide e poi rifugge
al gran tiranno, del cui tosco sugge
ch’elli ha già sparto e vuol che ’l mondo allaghi2;

e messo ha di paura tanto gelo
nel cor de’ tuo’ fedei che ciascun tace.
Ma tu, foco d’amor, lume del cielo,

questa vertù che nuda e fredda giace,
levala su vestita del tuo velo,
ché sanza lei non è in terra pace3.




1 Se vedi… svaghi: Se vedi i miei occhi desiderosi (vaghi) di piangere, per una nuova angoscia (pietà) che mi tormenta (strugge) il cuore, ti prego, Signore, in nome di colei che non si allontana (fugge) mai da te (perifrasi che significa in nome della Giustizia) che tu li distolga (svaghi) da tale desiderio (piacer). Il poeta prega dunque Dio di aiutarlo a non piangere per l’ingiustizia diffusa nel mondo.

2 con la tua… allaghi: <ti prego> cioè di punire (che paghi) con la tua mano destra (dritta) colui che (chi) offende gravemente (uccide, metafora) la giustizia e poi si rifugia presso il (rifugge al) gran tiranno, del cui veleno (tosco, variante sincopata di tossico) si abbevera (sugge, lett. succhia), <veleno> che egli (il tiranno) ha già sparso, e con cui vuole allagare il mondo. Le due perifrasi designano due personaggi di primo piano: l’uccisore della giustizia è probabilmente il papa Clemente V; il tiranno presso cui si è rifugiato è Filippo il Bello di Francia. Clemente V, come è noto, nel 1309 spostò la sede papale ad Avignone, destando scandalo nella cristianità.

3 e messo… pace: e <il tiranno> ha messo tanto gelo di paura nel cuore di coloro che credono in te (de’ tuo’ fedei, riferito a Dio) che tutti sono ridotti al silenzio. Ma tu, <Dio>, fuoco di carità (amor), luce del cielo, questa virtù che giace nuda e fredda (cioè la Giustizia), risollevala ammantandola con la tua grazia (vestita del tuo velo, metafora), poiché senza di essa non c’è pace sulla terra. L’ultimo verso contiene un epifonema.



Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDC, DCD.

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Questo è l’unico sonetto di Dante a svolgere un tema esclusivamente politico. Il testo fa uso di un lessico piuttosto ricercato, con rime aspre e difficili (soprattutto nelle quartine, in -aghi e in -ugge) e forti scontri consonantici. Molte parole-chiave richiamano sentimenti di dolore e paura; alcune di esse («pietà», v. 2; «cor», v. 2 e v. 10; «paura», v. 9) ritorneranno nel primo canto dell’Inferno1.
All’elevatezza dello stile contribuiscono numerose figure retoriche:
- figure del suono, tra cui spicca l’insistita allitterazione delle consonanti l, v, s e t al v. 13: «levala su vestita del tuo velo»).
- figure dell’ordine, come le ripetute anastrofi («di pianger vaghi», v. 1; «’l cor mi strugge», v. 2; «messo ha di paura tanto gelo», v. 9; «questa virtù… levala su», vv. 12-13);
- figure del significato, come le ampie perifrasi che designano i personaggi storici cui il sonetto fa riferimento (nessuno dei quali viene esplicitamente nominato, e la cui identificazione è in effetti discussa) e le metafore («del cui tosco sugge / ch’elli ha già sparto e vuol che ’l mondo allaghi», vv. 7-8; «e messo ha di paura tanto gelo», v. 9; «foco d’amor, lume del cielo», v. 11; «questa vertù che nuda e fredda giace / levala su vestita del tuo velo», vv 12-13).
La struttura dei periodi è assai complessa ed il consueto rapporto simmetrico tra ritmo e sintassi non è rispettato. Vediamo nel dettaglio.

Le quartine
La prima quartina, introdotta da una congiunzione ipotetica («Se»), contiene un unico periodo; il verbo della principale è «priego» (v. 3).
La proposizione che apre la seconda quartina dipende anch’essa dal «priego» del v. 3. Da essa discende una catena di proposizioni relative che si conclude con un punto e virgola (anziché, come sarebbe lecito attendersi, con un punto fermo).

Le terzine

La più violenta rottura del parallelismo tra ritmo e sintassi è quella che si riscontra tra la prima e la seconda terzina; non troviamo, come di norma, due periodi di tre versi ciascuno, ma due blocchi asimmetrici rispettivamente di due e quattro versi, separati da un punto fermo:
- il primo blocco (vv. 9-10) si collega sintatticamente alle quartine: la congiunzione «e», introduce in effetti una relativa riferita al «gran tiranno» del v. 7;
- il secondo blocco, che inizia al v. 11, è introdotto da una congiunzione avversativa e da un complemento di vocazione («Ma tu»), seguiti da una duplice apposizione complessa («foco d’amor, lume del cielo»); è a questo punto, su una struttura sintattica ancora aperta, che si conclude la prima terzina.
La tensione accumulata da questa struttura è destinata a scaricarsi nella terzina seguente: l’attesa del verbo reggente è infatti sottolineata dall’anticipazione, al v. 12, del complemento oggetto seguito da una relativa («questa virtù che nuda e fredda giace»); solo a questo punto, finalmente, compare l’invocazione che regge il periodo, il vero centro della preghiera («levala su vestita del tuo velo», v. 13: la pregnanza di questo verso, come si è visto, è sottolineata anche dall’allitterazione). Dopo tale invocazione, una proposizione causale può restaurare il normale andamento sintattico e metrico del periodo, chiudendo il sonetto, dopo tanta tensione concettuale e stilistica, sulla parola «pace».
Assai significative, nelle terzine, appaiono tutte le parole-rima. Esse si dividono in due serie nettamente contrapposte, che riflettono il drammatico conflitto tra bene e male su cui il sonetto è incentrato. Tre di esse («gelo», v. 9; «tace», v. 10; «giace», v. 12) si riferiscono infatti alla realtà di un mondo privato della giustizia; ma le altre tre («cielo», v. 11; «velo», v. 13; «pace», v. 14) contrappongono a questo presente negativo l’aspettativa di un futuro segnato dal trionfo del bene.

Livello tematico
Questo sonetto, abbiamo detto, è l’unico in cui Dante svolga un tema esplicitamente politico. Difficile stabilire quale sia stata l’occasione della sua composizione. Si potrebbe pensare – ma è solo un’ipotesi – che Clemente V sia indicato come uccisore della Giustizia per via della sua opposizione al tentativo di restaurazione dell’Impero al quale si apprestava Arrigo VII, preparando quella discesa in Italia in cui Dante riponeva grandi speranze.
L’immagine della Giustizia che giace «nuda e fredda» richiama, sia pure con minore potenza figurativa, l’allegoria di Tre donne intorno al cor mi son venute [G20]. Allo stesso ambito etico-politico della canzone citata rimanda l’atteggiamento del poeta, che manifesta la propria opposizione verso un mondo devastato, allagato dal veleno del «gran tiranno».
Rispetto alla canzone, però, il sonetto presenta un vigore polemico molto più accentuato e una nuova capacità di reazione. Il poeta non si accontenta affatto di piangere sui mali del mondo. Al contrario: chiede a Dio di rimuovere la ragione delle sue lacrime, e invoca il Suo intervento per punire le autorità che offendono il bene e la virtù. L’opposizione polemica al proprio tempo, insomma, lascia da parte qualsiasi venatura vittimistica, qualsiasi tentazione di pessimistico e imbelle compianto per la propria sorte, e assume una connotazione attiva, una disposizione a combattere per il bene. Questo è il significato dell’intervento che il poeta chiede a Dio: risollevare la Giustizia avvilita e avviare il mondo verso la pace. In questo nuovo tono, in cui la profezia diviene anche impegno attivo per la restaurazione dei valori che il mondo rifiuta, il sonetto anticipa assai da vicino la poesia della Divina Commedia.


1 Cfr. in particolare i vv. 19-21: «Allor fu la paura un poco queta / che nel lago del cor m’era durata / la notte ch’i’ passai con tanta pieta».


print

print