G18
Dante Alighieri
Bicci novel, figliuol di non so cui
Rime

Bicci novel, figliuol di non so cui,
s’i’ non ne domandasse monna Tessa,
giù per la gola tanta roba hai messa,
ch’a forza ti convien tòrre l’altrui1.

E già la gente si guarda da lui,
chi ha borsa a lato, là dov’e’ s’appressa,
dicendo: «Questi c’ha la faccia fessa,
è piuvico ladron negli atti sui»2.

E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ’mbolare,
che gli appartien quanto Giosepp’ a Cristo3.

Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del male acquisto
sanno a lor donne buon cognati stare4.




1 Bicci novel… altrui: O Bicci il giovane (novel: corrisponde al latino iunior e distingue il destinatario del sonetto dal nonno paterno, conosciuto con lo stesso soprannome), figlio di non so quale padre (di non so cui), a meno che io non lo chieda (s’io non ne domandasse: il verbo “domandare” è qui usato transitivamente; la persona a cui si chiede figura, quindi, come complemento oggetto) a madonna (monna) Tessa (madre di Bicci), hai ficcato tanto cibo (tanta roba hai messa) attraverso (giù per) la gola, che ti è necessario (ti convien) rubare (tòrre) con la violenza (a forza) ciò che appartiene agli altri (l’altrui). La prima quartina ha come destinatario Bicci, ossia il poeta Forese Donati (legato da amicizia a Dante), e concentra tre accuse infamanti: quella di essere figlio di padre ignoto; quella di una smodata propensione alla gola; quella di essere un ladro. Forese Donati sarà collocato da Dante, nel Purgatorio, proprio tra i golosi.

2 E già… atti sui: E già tutti hanno paura di lui (la gente si guarda da lui), <almeno> chi porta al fianco (lato) una borsa, nei luoghi a cui egli (là dov’e’) si avvicina, e dice: «Costui, che ha la faccia sfregiata (fessa), è ladro pubblicamente conosciuto (piuvico, dal latino medievale plubicus derivato per metatesi da publicus) per le sue azioni (negli atti sui)». La quartina non è più rivolta a Bicci (che vi compare infatti in terza persona) e riprende la stessa accusa del v. 4, aggiungendo un particolare fisico degradante (la faccia sfregiata, presumibilmente a seguito di qualche azione criminosa).

3 E tal… Cristo: E un uomo (tal; si riferisce a Simone Donati, padre – a quanto pare solo anagrafico – di Bicci) giace a letto, preoccupato (tristo) a causa sua, per paura che (per tema non, con costruzione ricalcata sui verba timendi latini) sia arrestato (preso) mentre ruba (a lo ’mbolare, francesismo molto usato nel Trecento), <un uomo> che è suo padre (che gli appartien: la relativa si riferisce al pronome «tal» del v. 9) quanto san Giuseppe è padre di Gesù Cristo. Si insiste sul disordine coniugale della famiglia Donati (il verso «giace per lui nel letto tristo» sembra anche una implicita allusione all’impotenza sessuale del padre) e si ribadisce l’affermazione che Bicci è un noto ladro.

4 Di Bicci… stare: Di Bicci e dei fratelli posso raccontare (contare) che, a causa dell’appartenenza alla loro stirpe (per lo sangue lor) disonesta (del malacquisto: i due fratelli di Bicci, Corso e Sinibaldo, secondo il cronista Giovanni Villani erano noti per le loro ruberie e «per motto erano chiamati Malefami»; Corso era anche il capo dei Guelfi Neri), accettano di (sanno) essere (stare) buoni cognati delle loro mogli (donne, qui usato senza le sfumature nobilitanti della tradizione stilnovistica [G13b]). La terzina è di interpretazione non semplice. Potrebbe significare che Bicci e i suoi fratelli non sono in grado di adempiere gli obblighi coniugali, e quindi si accostano alle mogli con una castità che sarebbe degna di cognati, non certo di mariti. Ma potrebbe anche voler dire che il disordine sessuale da cui è segnata la stirpe di Bicci (rappresentata dagli innumerevoli tradimenti di monna Tessa) si trasmette quasi ereditariamente allo stesso Bicci ed ai suoi fratelli. Ciascuno di loro, pertanto, accetta di buon grado di essere cognato della propria moglie; il che implica che ognuna delle mogli di casa Donati abbia come amante un altro dei fratelli.



Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDC, DCD.

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Il sonetto appartiene al genere comico-realistico, e accoglie un lessico basso, di cui sono testimonianza espressioni quotidiane come «faccia fessa» (v. 7), «ladron» (v. 8), «imbolare» (v. 10). Anche la similitudine con cui si chiude la prima terzina («che gli appartien quanto Giosepp’a Cristo», v. 11) e la maliziosa trasformazione dei mariti in cognati delle proprie mogli (v. 14) rimandano a una sfera popolaresca, a una consuetudine scherzosa e salace che in letteratura ha come modello Cecco Angiolieri, il quale non si faceva certo scrupolo di costruire rime irriverenti sul nome di Gesù Cristo1. La sintassi è distribuita in quattro periodi, perfettamente coincidenti con le unità ritmiche delle quartine e delle terzine, che non presentano forti enjambements; i periodi hanno struttura ipotattica.

Livello tematico
Il sonetto non può ovviamente essere preso alla lettera: le virulente accuse contro Forese Donati (poeta legato a Dante da una sincera amicizia) rispondono ai canoni di un genere letterario, quello della poesia comico-realistica; il testo si inserisce in uno scambio di sonetti tra i due autori, una «tenzone» in cui nessuno dei due contendenti risparmia all’altro attacchi osceni o salaci. La moglie di Forese è sempre raffreddata, perché il marito non è capace di “coprirla”; Forese, oltre che impotente, è goloso e ladro; a Dante, d’altra parte, l’avversario rinfaccia non si sa quali torti verso il padre morto. Il testo qui analizzato è il terzo e ultimo sonetto di Dante: una specie di summa, dunque, delle accuse e delle invettive contro Forese.
La natura puramente letteraria dell’invettiva è testimoniata dal fatto che Dante obbedisce a uno dei principi del genere comico-realistico: quello di forzare le situazioni all’estremo, attraverso un abbondante ricorso all’iperbole. Il peccato della gola è esagerato al punto che, per soddisfare il suo vizio, Bicci è costretto a diventare un bandito. Iperbolica è poi la descrizione del disordine sessuale che regna dentro la famiglia di Bicci: la madre, monna Tessa, è talmente infedele al marito che risulterebbe impossibile, senza la sua testimonianza, capire di chi Bicci sia figlio (non certo, comunque, del marito di Monna Tessa, il quale è suo padre quanto san Giuseppe lo è di Gesù Cristo). Ma non basta: l’infedeltà coniugale (o forse l’impotenza) sembra, tra i fratelli di Bicci, una regola talmente diffusa che, all’interno della famiglia, è praticamente impossibile distinguere tra il ruolo di marito e quello di cognato…
Il sonetto, abbiamo detto, non va preso alla lettera e non esprime, da parte di Dante, un reale risentimento. Esso inserisce, anzi, le virulente accuse in una struttura che, in sostanza, può essere rappresentata come circolare e centripeta: il testo si apre e si chiude sul disordine sessuale che domina nella famiglia di Bicci (descritto per tre volte: con riferimento alla madre, vv. 1-2; al padre, v. 11; ai figli, vv. 12-14); tali accenni racchiudono le altre accuse rivolte contro Forese che, al centro del sonetto, viene descritto come goloso e ladro.
Del resto tutta la tenzone tra Dante e Forese è una specie di circolo vizioso, un susseguirsi di ingiurie reciproche replicabili all’infinito, visto che i due contendenti non dialogano più di quanto possano farlo due sordi. Ciascuno prende l’occasione dall’accusa dell’altro per sviluppare la propria invettiva, ma senza entrare nel merito delle accuse ricevute e, quindi, senza confutare gli attacchi dell’avversario. Un circolo vizioso, dunque, ma pur sempre un circolo; una poesia, insomma, che non sembra riflettere il clima storico-sociale del proprio tempo, ma fa riferimento esclusivo a una cerchia di raffinati intellettuali legati dal vincolo dell’amicizia; non diversamente, in fondo, da quanto accadeva per Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io [G17].
La tenzone va probabilmente datata, se si segue l’indicazione di Barbi, agli anni 1293-1296, cioè in sostanza agli anni di composizione della Vita nuova o a un periodo di poco successivo. Dante sperimentava insomma il registro comico proprio nello stesso tempo in cui cantava le lodi di Beatrice; e obbediva, in entrambi i casi, a rigorosi (per quanto tra loro opposti) canoni stilistici.




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