CECCO ANGIOLIERI
F3 - S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo
*
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’ i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo1;

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo2.

S’i fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre3.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui4.

1 S’i’ fosse foco… en profondo: Se io (i’) fossi (fosse) fuoco brucerei (arderei: le forme del condizionale in -ei, oggi divenute regolari, erano tipiche nel Duecento dell’area senese) il mondo; se io fossi vento, lo sconvolgerei con la tempesta; se io fossi acqua, io lo sommergerei (annegherei); se io fossi Dio lo sprofonderei (mandereil’ en profondo; al verbo «manderei» è unito il pronome personale enclitico «lo», che diviene «l’» per elisione). Per il testo del sonetto seguiamo l’edizione Vitale, che presenta diverse differenze rispetto al testo preferito da Contini.

2 s’i’ fosse papa… a tondo: se io fossi papa, in questo caso (allor) sarei allegro (giocondo), perché (ché) metterei nei guai (imbrigherei) tutti <i> cristiani; se io fossi imperatore, sai (sa’, forma apocopata) cosa farei? Taglierei (mozzarei) la testa (lo capo) a tutti con un taglio netto (a tondo; ma, secondo alcuni interpreti, «a tondo» non va collegato con «mozzarei», bensì con «a tutti»; il significato del verso sarebbe allora taglierei la testa a tutti quelli che mi stanno intorno).

3 S’i’ fosse morte…da mi’ madre: Se io fossi morte andrei da mio padre; se io fossi vita mi allontanerei da lui: allo stesso modo mi comporterei (farìa: è, in questo sonetto, l’unica forma di condizionale che adotta la forma in -ia, generalmente prevalente nella poesia del Duecento) con (da, per analogia con il v. 9) mia madre. L’odio contro i genitori, in particolare contro il padre avaro, ricorre spesso nelle rime di Cecco [F4].

4 S’i’ fosse Cecco… altrui: Se io fossi Cecco, come lo sono e lo sono sempre stato (fui), prenderei per me (torrei) le donne giovani e belle (leggiadre): e lascerei agli altri quelle vecchie e brutte (laide).


F3 - Analisi del testo
Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine. Lo schema è ABBA, ABBA; CDC, DCD. La scelta delle parole-rima conferisce al testo una voluta ripetitività: le rime in B sono tutte morfologicamente affini (si tratta del condizionale presente, coniugato alla prima persona singolare, di quattro diversi verbi); le due parole-rima della prima terzina (C) sono poi strettamente connesse sul piano semantico («padre» : «madre»).

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Il testo è costruito sulla sapiente alternanza tra strofe dispari (prima quartina, prima terzina) e strofe pari (seconda quartina, seconda terzina). L’apertura presenta un ritmo incalzante, un succedersi di frasi brevissime che trattano enfaticamente una tematica poco meno che apocalittica. Ma questo ritmo è subito stemperato dalla seconda quartina, fin dalla prima parola-rima (l’aggettivo «giocondo»). Ritmo incalzante e temi foschi e drammatici sono riproposti nella prima terzina; ma essi vengono nuovamente, definitivamente negati nella seconda terzina, che presenta un netto abbassamento del tono. Analizziamo in dettaglio gli elementi che concorrono a produrre quest’effetto.

Le strofe dispari (prima quartina, prima terzina)
Le strofe dispari presentano una perfetta coincidenza tra ritmo e sintassi: a ogni verso (con la sola eccezione del conclusivo v. 11) corrisponde un periodo ipotetico articolato in una protasi, contenuta nel primo emistichio, e un’apodosi, contenuta nel secondo.
Nelle strofe dispari, i sei periodi inizianti per «s’i’ fosse» (vv. 1-4; vv. 9-10) presentano tutti ipotesi impossibili. Ciò è evidenziato, sul piano lessicale, dall’uso di sostantivi che escludono qualsiasi riferimento al mondo umano: il personaggio che dice “io” immagina di identificarsi con tre degli elementi costitutivi del mondo secondo la fisica classica medievale (fuoco, aria, acqua), e poi addirittura con Dio, con la morte e con la vita.
La figura retorica dominante è l’anafora, che lega tra loro tutti i versi della prima quartina e i primi due versi della prima terzina.
La costruzione delle strofe dispari determina un effetto di ossessiva ripetizione dello stesso tema (il desiderio di distruzione). Nella prima quartina la distruzione si presenta come vera e propria fine del mondo (variata, attraverso i verbi, in quattro forme diverse a seconda della natura dell’elemento o dell’essere con cui l’“io” si identifica). Nella prima terzina i vv. 9-10 ribadiscono il medesimo desiderio di distruzione – applicato stavolta non più al mondo, ma alla figura del padre di Cecco – attraverso l’incrocio di due sostantivi astratti («morte» - «vita») e di due verbi metaforicamente collegati a tali sostantivi («andarei» - «fuggirei»). Gli elementi di queste due coppie sono legati tra loro da antitesi, eppure il significato dei due versi è perfettamente identico.

VERSI SOSTANTIVI VERBI SIGNIFICATO
9
morte (assenza di vita)
andare (indica un’azione il cui risultato è la presenza) morte
10
vita fuggire (indica un’azione il cui risultato è l’assenza) morte

Il v. 11, pur sintatticamente isolato dagli altri, chiude e rafforza la simmetria della seconda terzina. Esso sottolinea (anche grazie alla rima «padre» : «madre») come il desiderio di distruzione sia rivolto a entrambi i genitori.
Da notare come, nelle strofe dispari, siano praticamente assenti gli aggettivi (l’unica eccezione è costituita dalla ripetizione del possessivo «mio» - «mi’» della prima terzina; il «profondo» del v. 4 è invece da considerarsi un sostantivo). Ciò rafforza ulteriormente l’essenzialità della sintassi, accentuando l’enfasi ossessiva.
Sul piano del significato, comunque, tutti questi versi sono riconducibili all’iperbole: la stessa impossibilità delle ipotetiche identificazioni del personaggio che dice “io” denuncia implicitamente il fatto che ci troviamo di fronte a una poetica dell’eccesso: nessuna di queste affermazioni, insomma – come meglio chiarirà il raffronto con le strofe pari – pretende in alcun modo di esser presa sul serio.

Le strofe pari (seconda quartina, seconda terzina)
Le strofe pari sono occupate da periodi più articolati, che spezzano la coincidenza ritmo-sintassi caratteristica di quelle precedenti. Nella seconda quartina l’alternanza protasi-apodosi si distende su due coppie di versi, con notevole allentamento della tensione. Il v. 5 sembra seguire lo schema dei precedenti (protasi+apodosi distribuite nei due emistichi), ma quello successivo non contiene un nuovo periodo ipotetico, bensì una proposizione causale subordinata all’apodosi. La protasi del v. 7 trova invece la sua apodosi solo al verso successivo: tra le due componenti del periodo ipotetico si inserisce infatti l’ammiccante inciso interrogativo rivolto al lettore («sa’ che farei?»). Nella seconda terzina il v. 12 contiene la protasi – ampliata da una incidentale che ne sottolinea la realtà –, mentre l’apodosi si articola a sua volta in due versi, contenenti rispettivamente la proposizione principale (v. 13) e una coordinata (v. 14).
Nelle strofe pari le ipotesi umanamente impossibili lasciano spazio a ipotesi gradualmente più vicine alla realtà: la seconda quartina presenta situazioni certo estremamente improbabili (l’elezione del personaggio che dice “io” a papa o a imperatore), ma non ontologicamente impossibili come le precedenti (grammaticalmente possiamo considerarli due periodi ipotetici della possibilità, anche se si tratta di una possibilità puramente teorica). La seconda terzina presenta invece un periodo ipotetico della realtà (e l’inciso «com’i’ sono e fui» lo sottolinea con chiarezza). Ancora una volta è indicativa la scelta lessicale, che cade ora su sostantivi connessi con la concreta realtà del mondo umano: prima il papa, i cristiani e l’imperatore, poi lo stesso Cecco e le donne. L’unico sostantivo che non indica una persona («capo», v. 8) si riferisce comunque a una parte del corpo umano.
L’anafora appare meno insistita che nelle corrispondenti strofe dispari: nella seconda quartina l’emistichio «s’i’ fosse» è presente solo ai vv. 5 e 7; nella seconda terzina soltanto al v. 12. Ciò conferisce al discorso un ritmo assai più disteso di quello delle strofe dispari.
Al rallentamento del ritmo concorre il fatto che nelle strofe pari compaiano gli aggettivi. Assai importante – perché può costituire una chiave di lettura della strofa – è il «giocondo» del v. 5; ma non meno significative sono le due coppie di attributi del sostantivo «donne» ai vv. 13-14 (si tratta di due dittologie sinonimiche: «giovani e leggiadre» vs «vecchie e laide».) Queste due coppie di aggettivi (così come i verbi «torrei», v. 13, e «lasserei», v. 14) sono legate da antitesi; ma stavolta, a differenza di quanto accadeva nella prima terzina, non c’è alcun incrocio degli elementi antitetici: il v. 13 contiene solo elementi positivi, tutti polarizzati intorno al personaggio che dice “io”; il v. 14 solo elementi negativi, tutti polarizzati intorno al pronome indefinito «altrui».
Nel complesso le strofe pari producono un effetto di continua variazione, sia ritmica che tematica, che contrasta con quello dell’ossessiva ripetizione che si era osservato per le strofe dispari. La seconda quartina distingue il comportamento dell’ipotetico Cecco-papa da quello del Cecco-imperatore; la seconda terzina contrappone nettamente due diversi atteggiamenti del Cecco reale: quello verso le donne belle e quello verso le donne brutte. In definitiva, il tema della distruzione passa nettamente in secondo piano rispetto al concreto desiderio di godere più degli altri (e magari alle loro spalle); il tema distruttivo, poi, scompare del tutto nella seconda terzina.

Livello tematico
È evidente che queste osservazioni di ordine stilistico e retorico trovano un riscontro sul piano tematico. La sapiente elaborazione letteraria del testo chiarisce, in primo luogo, che il sonetto non è affatto lo sfogo immediato di un disperato risentimento verso Dio, il mondo, l’umanità (come qualcuno, soprattutto in epoca romantica, aveva ritenuto). È vero che dietro la poesia di Cecco è sicuramente presente un fondo sincero di esperienza personale; ma è altrettanto vero che tale poesia è il risultato di una studiata e attenta elaborazione formale, che obbedisce ai canoni della poetica medievale; un gioco letterario che spesso “fa il verso” ai generi seri (si pensi solo all’abbassamento della figura della donna rispetto a quanto avviene nello Stilnovo) e che, per ottenere quest’effetto, presuppone un’approfondita conoscenza di questi stessi generi. La costruzione simmetrica delle strofe dispari del sonetto, per esempio, richiama quella tipica di un genere di origine provenzale, il plazer, ma ne capovolge completamente il significato: nel plazer si elencano cose desiderate in quanto piacevoli; in questo sonetto si affastellano desideri (almeno in apparenza) violenti e distruttivi.
L’alternanza tra strofe dispari e strofe pari – come abbiamo già accennato – segue un disegno preciso: le strofe dispari presentano tematiche apocalittiche (prima quartina) o violentemente dissacratorie (prima terzina), tutte peraltro accomunate dall’evidente impossibilità delle ipotesi; le strofe pari presentano tematiche meno tragiche, con ipotesi che gradualmente si avvicinano alla realtà. Nella seconda quartina, pur nel contesto di una identificazione assolutamente inverosimile, la distanza psicologica tra l’“io” poetante e il papa è notevolmente accorciata dalla riduzione di quest’ultimo a una dimensione puramente canagliesca: quello a cui pensa Cecco è un papa da mascherata o da taverna, come ben indica il dispettoso verbo «imbrigherei» del v. 6. Nel comportamento dell’ipotetico Cecco-imperatore, poi, più che la violenza insita nell’atto di tagliare il capo ai sudditi, balza in primo piano (grazie anche alla collocazione in rima) il compiacimento estetico, e crudelmente infantile, di fronte alla perfezione della lama mozzateste (il taglio «a tondo» del v. 8). È del resto la prima parola-rima della quartina («giocondo», v. 5: il primo aggettivo presente nel sonetto) a dare il tono all’intera strofa; mentre la congiunzione testuale «allora» (v. 5) sottolinea la contrapposizione tra questa quartina e quella che la precede.
Del tutto evidente, nell'ultima terzina, l’abbassamento del tono rispetto alla strofa precedente: al culmine di una serie di ipotesi impossibili o improbabili che sembrano auspicare la più violenta sovversione dell’ordine morale e sociale, Cecco si descrive infine qual è: un donnaiolo – o aspirante tale – che esprime il suo risentimento per il mondo solo con il proposito di lasciare agli altri le donne «vecchie e laide». Davanti a una conclusione del genere sembra quasi di sentire – come notava Natalino Sapegno – «l’eco delle grasse risate che dovevano accompagnare le letture di quei sonetti nelle veglie alla taverna». Il desiderio di sovversione lascia intravedere così il suo volto bonario e godereccio; la dimensione apparentemente tragica rivela la sua natura iperbolica e caricaturale; il capovolgimento dei valori proclamato da Cecco (che dissacra volutamente i fondamenti della cultura e della società: la carità cristiana, la pietas filiale, l’amore) si rivela, in definitiva, un capovolgimento carnevalesco. Una “ribellione” che a parole minaccia sfaceli, ma che, alla fine, lascia il mondo esattamente com’è.